Eugenio Corti: «La mia Russia povera e affamata»
Vari erano nel paese già i morti di fame. Alia si lasciava strappare le notizie con ritrosia. Ogni tanto gli occhi le si riempivano di lacrime. Decisi di fare di tutto per salvare la vita di Anatolio, se pure ero ancora in tempo. Pensai che se l’avessi visto avvicinarsi proprio alla fine l’avrei battezzato. L’attendente m’aiutava con una delicatezza e una gravità religiose: giorno per giorno gli preparavamo qualcosa da mangiare, cercando fosse roba possibile per lui che doveva essere stato slattato da poco. Ma spesso dovevamo dargli del cibo normale, da soldato. Mi faceva impressione vederlo addentare con la piccola bocca senza forza un pezzo di dura pagnotta cosparsa di miele (in nessun modo migliore avrebbe potuto essere impiegato il miele inviato da mia madre). Alle volte Alia se lo traeva fuori dalla scollatura dello stracciato abitino sotto il quale lo teneva, contro il proprio corpicciolo, per avere la forza di camminare di più.