«Eugenio Corti, un maestro»
Tutte le arti dicono qualcosa su qualcosa che resta nascosto. C’è un segreto, un non detto, un non esplicitato, in tutte le arti. La pittura si esprime attraverso forme colorate, ma non sta nel quadro. Il quadro rimanda a qualcos’altro, alla pittura. Quando Innocenzo X vide il ritratto che Velázquez gli aveva fatto, disse: «Troppo vero». L’immagine era più dell’originale, e questa è la differenza tra la fotografia e la pittura. La fotografia, ambasciatrice della morte, immobilizza in una frazione di secondo il dinamismo della persona vivente: la pittura interpreta il dinamismo del vivente e rimanda oltre sé stessa. La musica si esprime attraverso suoni e silenzi, ma non sta nei suoni e nei silenzi: c’è un non detto, un celato, dietro i suoni e i silenzi, un qualcosa che attiva la sintonia dell’ascoltatore. Tutte le arti, poi, hanno bisogno di parole, perché devono essere interpretate, commentate, aiutate a svelare almeno un po’ del loro segreto. La letteratura, che è fatta di parole, ha un incarico e un inconveniente perché rimanda a un non detto mentre lo sta dicendo. Usa le parole per dire qualcosa che sta oltre le parole stesse. Che cosa è nascosto, in particolare, nella narrativa? È nascosto l’autore, che si mimetizza in tutti i suoi personaggi. Ogni autore parla sempre in prima persona anche per bocca d’altri. Il notissimo Flaubert: «Madame Bovary c’est moi».
Accostarsi alla letteratura, al romanzo, significa incontrare una persona, lo scrittore. Accostarsi al Cavallo rosso, significa incontrare Eugenio Corti che si è riversato nella narrazione. Louis Aragon ha spiegato la differenza tra la letteratura e le altre forme di comunicazione: quando ascoltiamo musica, o adesso navighiamo in internet, musica e rete sono fuori di noi, ma quando leggiamo un libro, dopo poche righe già pensiamo con il pensiero dell’autore. Il pensiero redatto nella forma del libro diventa il nostro pensiero. Noi sogniamo, per così dire, il sogno dell’autore e, nel caso di Corti, questo sogno è veritiero, coinvolgente, incessante perché il Cavallo rosso è un romanzo di più di mille pagine costruito magistralmente con piccoli stacchi, brevi sequenze e quando si comincia a leggerlo non ci si stacca più. E il lettore pensa con il pensiero dell’autore.
Chi è, dunque, l’ autore che conosciamo attraverso la lettura del Cavallo rosso? È un ragazzo di vent’anni che sceglie di andare a combattere in Russia per conoscere di persona il comunismo e tutto un mondo che aveva solo intuito attraverso i discorsi, la propaganda, i libri. Voleva verificare di persona. Lì ha conosciuto non soltanto il comunismo e il nazismo: ha incontrato persone, il popolo russo, isole di bontà nelle situazioni più atroci. C’è molto male in questo romanzo: non manca nulla della realtà, non è una narrazione edulcorata, descrive scene tremende perché la guerra è anche e soprattutto questo, e la realtà è fatta di verità.
Tramonta la religiosità anche in Brianza
Questo ragazzo di vent’anni che cosa dice a noi, oggi, settant’anni dopo? Restiamo colpiti innanzitutto dal suo coraggio, virtù di cui oggi sentiamo acutamente il bisogno. Abbiamo bisogno, oggi più che mai, di persone forti, coraggiose, che non si nascondano, che parlino in prima persona, che vogliano vivere la propria vita, i valori in cui credono, senza paura. Da dove viene a Eugenio ragazzo questo coraggio? Gli viene dalla fede, non da una fede libresca, bensì da una fede incarnata in una cultura. Quella di Corti è la storia di un popolo, di una piccola regione, la Brianza, emblematica però di realtà universali, impregnate di cristianesimo. Nella Brianza del giovane Corti non c’è bisogno di rivolgersi alle risposte del Catechismo o di fare chissà quali ricerche per credere: lì la fede è religione e cultura, modella il costume. Quello è un popolo religioso, impegnato a costruire un mondo intessuto di generosità, di amicizia, di altruismo, di solidarietà. È un mondo di bene, abitato da persone sempre pronte «a dare una mano», un mondo dove le virtù sono vissute naturalmente, perché è così che si è sempre fatto, perché questo è stato appreso in casa, in famiglia, perché questo lo dice il parroco. È il mondo dei «paolotti», così efficacemente descritto da Corti.
La domanda che sorge spontanea è: come mai questo mondo così «cristiano» è praticamente scomparso? Come mai anche la Brianza è stata intaccata dal consumismo e dalla secolarizzazione, proprio a partire dal 1974, l’anno del referendum sul divorzio a cui sono dedicate le pagine finali del Cavallo rosso?
Un tentativo di risposta è che in quel mondo la religione era talmente diventata osservanza e costume, che la fede aveva finito per ridursi a scontato presupposto, col rischio di venire accantonata come non chiarito sottinteso.
La fede deve certamente tradursi in religione, cioè anche in ritualità, consuetudini, sociologia, costume, ma sempre restando teologica, non appiattendosi in mera moralità. Il rischio della Brianza, dalla guerra, al dopoguerra, fino al 1974 è stato proprio di aver vissuto un cristianesimo sociologico senza approfondirne le radici teologiche.
Quel mondo è scomparso perché è mancato il richiamo, per dirlo in breve, all’eroismo della santità. C’era la vita buona, generosa, ma non il tendere alla santità, nemmeno in adeguate figure di riferimento. C’era una religiosità retribuzionista, di stampo «manzoniano»: io prego, vado in chiesa, faccio del bene, e quindi il Signore deve aiutarmi a realizzare i miei progetti, la mia volontà. Il santo, invece, si sforza di cogliere che cosa vuole Dio da lui, per poi applicarsi a realizzare la Sua volontà, non viceversa.
Nel Cavallo rosso, tuttavia, la conclusione non è pessimistica. Nel romanzo ci sono pagine di grande speranza nei confronti dei giovani, soprattutto quelli che Corti ha conosciuto durante la battaglia per il referendum, ed erano in primo luogo i giovani di Comunione e Liberazione, una gioventù impegnata e cristiana che certamente non è scomparsa neppure oggi. Tuttavia il mondo nuovo è ancora in faticosa costruzione.
La semplicità è un punto di arrivo
Ma torniamo all’autore che abbiamo incontrato nel Cavallo rosso. Ne abbiamo ammirato il Coraggio, adesso riconosciamo la sua ragione di vita, che è la ricerca della Verità o, meglio, della Bellezza.
Quelli che i filosofi chiamano i trascendentali dell’essere, ovvero l’Unità, la Verità e la Bontà, vengono coagulati e resi interdipendenti da un altro trascendentale, che non tutti qualificano come tale: la Bellezza. La Bellezza, infatti, ha in sé l’Unità del soggetto, la Verità (non esiste bellezza senza verità) e la Bontà (non può esserci bellezza senza bontà). Eugenio Corti ha compiuto un’esperienza di Bellezza che è insieme coagulo di Verità e di Bontà nell’Unità dell’essere umano.
Il cardinale Carlo Maria Martini una volta disse che noi siamo abituati a parlare del Buon Pastore ma per una più corretta esegesi dovremmo parlare del Bel Pastore. Il Pastore è bello perché nella sua Bellezza c’è anche l’Unità della sua Bontà e della sua Verità.
Corti esprime la Bellezza con uno stile semplice, apparentemente semplice, perché nasce da uno straordinario lavoro di correzioni, di riscritture. Il Cavallo rosso è un romanzo «vero» perché contiene situazioni veramente vissute da Corti o da lui sentite raccontare dai protagonisti; e brulica di personaggi, talvolta con il loro vero nome, che Corti ha conosciuto personalmente o attraverso testimoni diretti. Il romanzo, dunque, è «vero», ma non di una verità meramente trasposta sulla pagina, bensì di una verità interpretata dall’arte del narratore.
La semplicità non è mai un punto di partenza, è un punto d’arrivo. Le cose veramente semplici hanno sempre richiesto una lunga elaborazione. Si racconta che un imperatore cinese domandò a un pittore di disegnargli un gallo. Il pittore chiese al re un anno di tempo. L’anno passò ma il pittore non era ancora pronto: chiese all’imperatore altri tre anni. Passati i tre anni, l’imperatore reclamò il disegno. Il pittore prese un foglio e disegnò un gallo magnifico. L’imperatore domandò: «Se era così facile, perché mi hai fatto aspettare quattro anni?». E il pittore: «Se non mi fossi allenato per quattro anni, non sarebbe stato così facile realizzare adesso il capolavoro».
Creazione dell’uomo, creazione di Dio
Per dare un assaggio della «semplicità» di Corti, leggo due paragrafi che ho scelto aprendo il libro a caso, stamattina. Siamo nella ritirata di Russia, i protagonisti sono Michele, uno dei due personaggi in cui l’autore si rispecchia più direttamente e che diventerà uno scrittore, e Ambrogio Riva che è uno suo compagno di liceo e poi di università ed è il fratello di Alma che poi Michele sposerà. L’attendente Paccoi accorre per dire a Michele che Ambrogio è ferito. Michele va per soccorrerlo e ha pure un pensiero maligno che poi scaccia subito: pensa che essendo il fratello della ragazza a cui tiene si possa mettere in evidenza con lei. Michele e Paccoi curano Ambrogio e poi vanno a dormire, dopo aver raggiunto un pagliaio.
«Giunti al pagliaio (lungo forse un’ottantina di metri) vi trovarono alcune centinaia di feriti sistemati in file parallele su poca paglia: stavano tutti da un lato, perché l’altro lato era esposto in pieno a una brezza terribilmente gelida che da qualche ora aveva cominciato ad alitare da nord; qui in alto la brezza si faceva sentire più che in paese. Oltre ai feriti c’erano anche molti soldati convenuti per dormire: alcuni di questi erano saliti sul pagliaio e stavano in quel momento buttando giù bracciate di paglia per sé e per i propri amici; non era infatti possibile strapparla dai fianchi gelati del cumulo, dov’era troppo pressata.
«Del che resosi conto, Michele si arrampicò a sua volta – con gesti quasi d’automa perché, come abbiamo detto, era stanchissimo – sul mucchio, e gettò in basso paglia sufficiente per sé e per Paccoi. Una volta rannicchiato sotto la paglia, prima d’addormentarsi, pregò brevemente ma con fervore: a differenza di Ambrogio infatti egli tendeva a coinvolgere Dio in tutte le cose. Diremo meglio, riteneva che tutta la storia (incluse le vicende minute in cui egli stesso e i suoi prossimi partecipavano in piena libertà) fosse storia sacra».
Questo è Corti, un autore che racconta la sua vita, le vite delle persone che ha conosciuto, inquadrandole in una storia che è sempre storia sacra.
Vorrei anche sfatare una specie di leggenda parzialmente alimentata dallo stesso autore, per la quale Corti sarebbe stato boicottato in Italia e molto amato all’estero. In realtà Corti è conosciutissimo sia in Italia sia all’estero. Il Cavallo rosso è alla trentesima edizione, Le Figaro ha scritto per la morte di Corti che egli «è uno degli immensi scrittori del nostro tempo, uno dei più grandi, forse il più grande». Quello che però stava davvero a cuore a Corti era il contatto col suo pubblico: incontrava tantissimi giovani che lo ascoltavano come maestro di vita. Nell’archivio di Corti, destinato alla Biblioteca Ambrosiana di Milano, ci sono faldoni e faldoni di lettere dei lettori. Ne leggo due. La prima è di una suora:
«Lei è della generazione di mio padre: il primo frutto del suo libro è stata la piena riconciliazione con quella generazione; io amo molto mio padre, ora però è stato colmato, grazie a lei, un fossato che separava profondamente “noi” e “voi” (e so che lei comprende bene cosa voglio dire)».
Questo è un punto fondamentale: i giovani non devono stare solo tra di loro, devono dialogare con gli adulti e gli adulti devono stare con i giovani. Solo con il trapasso generazionale si può costruire una civiltà, una società autenticamente umana.
L’altra lettera è di una professoressa che, dopo essere stata sessantottina, comunista, e nei comitati per il divorzio e l’aborto, ha ritrovato la fede proprio leggendo il Cavallo rosso:
«Leggendo il suo libro, mi sono sentita piombare addosso di nuovo tutti i miei sbagli, gli anni di dolore, di disperazione, ma mi è servito per ringraziare ancora una volta il nostro Dio. L’ultimo capitolo, quello della morte di Almina, mi ha fatto piangere e gioire perché lì è racchiuso tutto ciò che noi cristiani crediamo: che siamo figli di Dio, amati e perdonati anche se compiamo brutalità; che i nostri Angeli non ci abbandonano mai; che la nostra vera vita è colma di pace, di gioia e di luce e che vi ritroviamo tutti i nostri cari; che le nostre sofferenze di quaggiù non vanno perdute e, soprattutto, non va perduto l’amore che si dà, che si lascia».
Questo è Corti, queste sono le reazioni dei suoi lettori. Concludo con la poesia di una poetessa polacca, Wislawa Szymborska, Nobel 1996, per dire che solo le parole sanno comunicare quello che le altre forme di espressione non riescono ad articolare, perché le altre forme argomentano, mentre il poeta intuisce.
LE TRE PAROLE PIÙ STRANE
Quando pronuncio la parola Futuro,
la prima sillaba già va nel passato.
Quando pronuncio la parola Silenzio,
lo distruggo.
Quando pronuncio la parola Niente,
creo qualche cosa che non entra in alcun nulla.
Non c’è un nulla, c’è la creazione dell’uomo, riflesso della creazione di Dio.
(Cesare Cavalleri, luglio-agosto 2014, Studi Cattolici)