Eugenio Corti non aderì mai alla “fede” laicista: per questo è stato snobbato
Mentre la letteratura italiana del secondo ’900 si invischiava nelle sabbie mobili della stupidità e del pensiero malvagio, erede del fatuo D’Annunzio e pronta a recepire unicamente le direttive “einaudiane” dei Vittorini e dei Calvino, lo scrittore brianteo Eugenio Corti cresceva all’ombra della propria vocazione di “cantore del Regno” e si fortificava in sapienza e grazia. Più che l’amarezza per la fine triste toccata alla nostra letteratura, il mio cuore esulta adesso per aver conosciuto di prima mano le opere di Corti e, in contemporanea, avere incontrato lui, il soldato reduce dalla ritirata di Russia, l’autore.
La gioia viene dal fatto di avere sperimentato come anche nel ’900 sia stato possibile dedicarsi del tutto, con intelletto e amore, a lei, alla Verità dei poeti: cosa che Eugenio Corti fece per anni, da quando, ragazzino di provincia e studente di ginnasio al San Carlo di Milano, s’innamorò degli esametri epici di Omero «perché sapeva trasformare ogni cosa in bellezza». Infatti, la vera rivelazione che attende come un dono i lettori dei libri di Corti è la scoperta dell’altro ’900, quello della letteratura come gratitudine, riconoscenza e attitudine a dare voce a chi non ha voce. Simili caratteristiche furono un capo di imputazione per Corti che non aderì mai alla fede laicista, antifascista e scientista e quindi, come gli avevano profetizzato Benedetto Croce e Mario Apollonio sin dal 1947, dovette trovarsi da solo la propria strada d’artista, forgiarsi il proprio linguaggio, cercare la magra compagnia di chi dantescamente «ha fatto parte per se stesso».
La sua trilogia narrativa è composta di un diario di guerra dal titolo I più non ritornano, uscito pochi anni dopo il disastro bellico, poi c’è il colossale romanzo Il cavallo rosso, apparso nel 1983 e diffusosi in maniera esponenziale tra i lettori italiani e internazionali, e Gli ultimi soldati del re, gioiello narrativo di un giovane che attraversò l’Italia centrale a piedi, nello sfascio dell’esercito nazionale. Questi tre titoli basterebbero per appaiare Corti a Bedeschi, Fenoglio, Pavese, Rigoni Stern nelle antologie scolastiche: invece niente. Corti non c’è ancora e probabilmente non ci sarà. Nel frattempo anche i “fruitori” della letteratura sono scomparsi, malgrado escano cento best seller per volta. Nel nuovo scenario di una società liquida che cerca un nuovo linguaggio per capire il presente, i libri di Corti stanno nella stessa regione di quelli dei Tolkien, delle O’Connor, dei Grossman e dei Solženicyn: tutti testimoni di un’arte che può aprirsi il varco verso una verità da amare, di una realtà che è la storia umana senza censure.
La storia della letteratura italiana come canone di opere e autori di desanctisiana memoria non esiste più, essendo stata decostruita dai critici fautori dello strutturalismo: esiste invece l’insieme chiuso degli scrittori “che ce l’hanno fatta” a pubblicare presso un grande editore; Eugenio Corti, ovviamente, non era e non sarà tra costoro. Però le migliaia di suoi lettori sono una compagnia più feconda e che freme per raccogliere il proprio testimone e inoltrarsi nel XXI secolo: per uno scrittore-testimone che è vissuto 93 anni nella speranza di entrare nella gloria dell’altra trama, si tratta già di un bell’anticipo della ricompensa eterna.
(Andrea Sciffo, Tempi, 16/02/14)