«In Russia capii che dovevo fare lo scrittore»
«Dopo anni di scemenze dei fascisti, nel dopo-guerra ci hanno proposto come modello il Partigiano, invece dell’Alpino. E’ stato un peccato. Intendiamoci, in sé non era un modello negativo, ma era un ribelle. Ma una volta ristabilita la democrazia, a cosa bisognava ribellarsi? Non a caso, di lì in avanti, ci si ribellò a scuola, famiglia, genitori… Un insieme di pensiero e di condotta non positivo. Invece, l’Alpino…».
Eugenio Corti l’Alpino, gli Alpini, li conosce. Li ha visti in Russia, durante la ritirata che ha raccontato ne I più non ritornano (1947), e ne Il cavallo rosso (1983), best-seller mondiale mai davvero considerato dalla cultura che parla di sé con la c maiuscola. Li ha sentiti nei racconti e dall’esperienza di Don Carlo Gnocchi («Mi ha sposato, è uno dei due santi che ho incontrato: l’altro è stato don Giussani. In realtà erano tre, contando mia madre»),il sacerdote che ha accompagnato gli Alpini in Russia chiudendo gli occhi dei morti e segnando su un taccuino i nomi dei figli, delle mogli, da andare a consolare una volta tornato in patria.
A 85 anni, lo scrittore – premio per la cultura cattolica 2000 – non perde un colpo. Nella sua casa in Brianza legge, prega, scrive (uscirà per Ares un libro di racconti sul Medioevo perché «è ora di smetterla di dipingerlo come un’età buia»).
Dice a Libero che “Don Carlo Gnocchi parlava solo di due cose: Dio e gli Alpini”. E l’esperienza della Russia, che ha segnato l’origine dell’opera educativa del sacerdote brianzolo (l’ha raccontato Stefano Zurlo ne “L’ardimento”, Bur 2006), è stata una tappa decisiva anche nella vita di Corti. “Chiesi io di andare in Russia. Volevo fare lo scrittore, e mai avrei potuto fare degnamente questo mestiere senza conoscere la realtà, senza vedere per esempio cosa succedeva in Russia. Perché i fascisti “se ne fregavano” per davvero: attaccavano i comunisti, ma non avevano idea di cosa fosse il mostro sovietico. Studiai, riuscii a farmi inserire in graduatoria e partii con il Csir. Era il ’42”.
I militari italiani avanzano, poi le munizioni e i rifornimenti finiscono. Inizia la ritirata. D’inverno, Tcherkovo: uno dei momenti più tragici della storia dell’esercito italiano. Il XXXV corpo d’armata del sottotenente Corti finisce intrappolato in una micidiale sacca approntata dall’esercito russo.
“La benzina era finita, si portava tutto a spalle, era impossibile trasportare i feriti gravi. Fu la marcia dell’orrore, con temperature tra 10 e 45 gradi sotto zero, ridotti alla fame e senza mai un tetto. L’uomo in quelle condizioni diventa capace di ogni cosa. Parlare di bestialità è un’offesa alle bestie. Non a caso, dopo il ritorno, molti non sono letteralmente riusciti a parlare. Non nei libri o sui giornali: non era possibile parlarne a casa, con le madri, le mogli, i parenti. Non c’erano parole per rendere ciò che era successo”.
Eugenio Corti l’ha fatto. Ha scritto tutto, o quasi. Ha parlato dell’orrore, dei morti, dei feriti abbandonati, dei prigionieri. Del cannibalismo (“Per farlo ho aspettato solo che morissero le madri degli italiani prigionieri e dispersi, per pietà nei loro confronti”), dei villaggi “dove chi era vivo lo era perché si era cibato dei morti”, del male del comunismo. Eppure, dice, “non mi sono mai pentito di aver chiesto di andare in Russia. Senza quell’esperienza non avrei potuto essere uno scrittore. Nel gennaio ’43, nella Valle della morte, eravamo sotto il tiro dei cecchini sovietici. A un certo punto ho sentito come uno scappellotto sulla nuca. Mi sono gettato in una buca per capire cosa fosse successo. Un proiettile mi aveva passato da parte a parte un lembo del passamontagna, dietro la testa. Mi sono unito alle preghiere di mia madre alla Madonna, promettendo che, se fossi tornato a casa vivo, avrei dedicato la mia vita al secondo versetto del Padre Nostro: “Venga il tuo Regno”. Non c’è altro motivo se sono tornato da lì, se non rispettare questa promessa, cercando di servire la verità in quello che ho fatto”.
Corti conosce il caso di D’Onofrio, il comunista che dirigeva i lager degli alpini in Russia, caso rievocato su queste pagine. Dice che “il vero ‘bestione’ lì era Robotti, cognato di Togliatti e maestro delle purghe contro gli italiani”. Quella “censura rossa” che ha denunciato c’è stata anche sulla tragedia degli alpini e sul suo racconto.
“Bedeschi, con le sue ‘Centomila gavette di ghiaccio’, ha fornito un resoconto veritiero, opposto alle speranze dei comunisti. Mentre Rigoni Stern, ad esempio, è stato salmodiato da quella parte, ma anche aiutato da Vittorini. Aiutato materialmente, nella scrittura”.
Ma l’offesa agli Alpini, agli italiani in Russia, non fu solo letteraria.
“Ricordo i cosiddetti fuoriusciti, italiani comunisti che parteggiavano per l’Urss. Nei campi cercavano di ‘convertire’ i connazionali prigionieri, si infilavano nell’esercito in ritirata incitando alla resa. Non ebbero successo. Ma il battaglione Morbegno degli Alpini ebbe sorte peggiore. Durante la ritirata, a un bivio venne fatto deviare nella direzione sbagliata, tra le fauci dell’esercito sovietico. Non tornò nessuno. Alla testa di quel battaglione si erano inseriti un paio di fuoriusciti”.
(Martino Cervo, 15/10/2006, Libero)