“La verità esiste, io l’ho incontrata”
A 88 anni compiuti il grande scrittore si racconta in questa intervista esclusiva al Timone: perché nazismo e comunismo hanno fallito; dove hanno sbagliato Maritain e Lazzati; qual è il compito dei cattolici oggi. La vita avventurosa di un uomo diventato scrittore per un voto fatto alla Vergine Maria.
Senectus ipsa morbus est, la vecchiaia di per sé è una malattia. Lo diceva il latino Terenzio, non senza qualche ragione. Ma quando incontri Eugenio Corti ti accorgi che, almeno per lui, il proverbio non vale. Non che a Corti – 88 anni suonati – manchino gli acciacchi della vecchiaia: adesso si muove lentamente, come una tartaruga saggia e prudente, per colpa delle gambe, stanche di portarlo in giro. Però bisogna guardarlo negli occhi, che guizzano come quelli di un ragazzino curioso; ascoltarlo, mentre giudica con lucidità chirurgica la storia; osservare il suo sorriso furbo da cattolico intelligente. E allora si fa una sorprendente scoperta: a 88 anni si può restare ancora giovani. Senza nascondersi che la stagione è quella del tramonto, e che si avvicina il momento in cui tutta l’esistenza verrà presentata ai piedi del Signore, per essere giudicata. Una vita, quella di Corti, divisa tra avventure salgariane e lunghe giornate chino sul tavolo di lavoro; un’esistenza fatta di critici pronti a ignorarlo e censurarlo, e di lettori innamorati che gli scrivono e lo vengono a trovare nella vecchia casa di Besana Brianza. Eugenio Corti è “quello del Cavallo Rosso”. Eugenio Corti è Eugenio Corti, uno che ormai occupa un posto importante nell’empireo dei grandi scrittori. Anche se lui ci tiene ad apparire un uomo come tutti gli altri, ormai il suo nome è entrato nella storia. Lo incontriamo nel salotto silenzioso della sua abitazione, per provare a tracciare il bilancio di una vita che è stata, in ogni istante, combattimento.
Dottor Corti, San Paolo – presagendo il suo imminente martirio – offrì questa sintesi straordinaria: “Ho terminato la corsa, ho combattuto la buona battaglia, ho conservato la fede”. Eugenio Corti come riassume la sua vita?
«La frase di Paolo mi ha sempre fatto impressione. Io, che in confronto all’apostolo delle genti sono ben poca cosa, partirei da questa constatazione: sono uno che ha fatto l’esperienza delle due società terrene che hanno tentato di togliere di mezzo Dio, il nazionalsocialismo e il comunismo. Avevo sempre avuto un giudizio negativo di natura teorica nei confronti di queste due ideologie. E il giudizio si è rafforzato quando ho toccato con mano comunismo e nazionalsocialismo: durante la Campagna di Russia ho visto con i miei occhi, e da allora non ho più avuto dubbi».
Ecco, lei non ha dubbi. Per molti lettori Eugenio Corti è l’espressione di una persona solida, di un cattolicesimo roccioso, senza fronzoli e senza strani maldipancia teologici: come si fa ad avere una fede così nel mondo in cui viviamo?
«Francamente, mi sembra impossibile avere dei dubbi. Proprio le terribili ideologie del Novecento hanno confermato che il fatto cristiano è vero, e che la verità si trova nella Chiesa cattolica. Non penso di avere un merito particolare nel vivere con questa naturalezza la fede e il giudizio sulle ideologie partorite dall’uomo. Prego ogni giorno di non scivolare nel dubbio, e ringrazio Dio per questa chiarezza nel riconoscere come stanno le cose. Il Novecento ha espresso delle idee filosofiche veramente curiose, che tuttavia hanno avuto un certo successo: la “morte di Dio”, il “silenzio di Dio”, l’impossibilità di un discorso su Dio dopo Auschwitz. In realtà, è stato l’uomo a volersi escludere dall’amore del Creatore, è stato l’uomo a usare della sua libertà per fare a meno di Dio: i risultati sono stati i gulag, le camere a gas, una guerra spaventosa che ha fatto milioni di vittime innocenti».
Lei ha scritto che o si costruisce la città di Dio, o si edifica la città del principe di questo mondo. Un’alternativa bella e terribile, che non lascia spazio a terze vie di comodo. Una visione della storia che è diventata inusuale anche per molti cattolici. Perché?
«Perché nel secondo dopoguerra molti intellettuali cristiani hanno dedicato le loro migliori energie per cercare una sorta di abbraccio con i pensatori più lontani – o addirittura avversi – alla tradizione cattolica. Convinti che in tutte le ideologie fossero presenti pezzi di verità cristiana, ne ricavavano l’illusione che sulla base di questi frammenti sarebbe stato possibile incontrarsi a metà strada con “gli altri”. Jacques Maritain e Giuseppe Lazzati sono stati due formidabili interpreti di questo tragico errore. Due figure per molti versi stimabilissime: Maritain grande filosofo, e Lazzati grande maestro di spiritualità che io conoscevo bene e al quale ero legato da stima e amicizia ricambiate».
Dove sta l’errore di Maritain e di Lazzati?
«Maritain si definiva un minatore, cioè un cercatore delle virtù cristiane nascoste altrove, ma finiva con l’assimilare ideologie erronee. Non capiva che quando i pezzi di verità cristiana sono separati dall’ortodossia, impazziscono, cioè producono effetti spaventosi ed esattamente opposti al contenuto originario di quella verità. Mi spiego con un esempio: Rudolf Hoss, primo comandante ad Auschwitz, nei suoi diari racconta che non era facile mantenere gli altissimi ritmi previsti per lo sterminio degli ebrei. Fu possibile farlo solo grazie al grande “spirito di abnegazione” delle SS addette ai crematori, che rinunciarono alle licenze e si sobbarcarono turni pesantissimi. Ecco la follia: lo spirito di abnegazione è certamente un valore cristiano, ma al servizio di una causa sbagliata la rende solo più micidiale. I famosi “pezzi di verità cristiana” innestati in un contesto erroneo funzionano da additivi del male. Lo aumentano».
Il suo discorso è chiaro. Mi sembra collegato anche al tema del cosiddetto ecumenismo: che cosa pensa Eugenio Corti del dialogo fra le religioni?
«Guardo con molta speranza al confronto con i cristiani degli Stati Uniti. Un giorno sono venuti a trovarmi dei professori calvinisti del Nord America: avevano letto il Cavallo Rosso e, con un certo ottimismo, erano convinti di trovare in me un personaggio importante, rappresentativo del mondo cattolico, avendo, come spesso accade ai protestanti, un’idea molto coesa e compatta del cattolicesimo, piuttosto lontana dalla realtà. In ogni caso, conoscerli è stato illuminante: ho percepito tutto il loro dramma per la mancanza di un magistero, per l’assenza della voce certa e risolutiva del Papa. Questi amici calvinisti mi parevano sinceramente desiderosi di attuare una sorta di coalizione con i cattolici per riaffermare la Trinità, e altre verità proclamate dalla Chiesa cattolica, perché lamentavano il progressivo “svuotamento” della dottrina operato da molti protestanti. La stessa cosa mi è capitata nel dialogo con un pastore calvinista olandese, che era rimasto entusiasta del Cavallo Rosso. Sì, io vedo nel futuro un positivo riflusso verso Roma e verso il Papa da parte di molti cristiani».
Come vede il rapporto tra la Chiesa e gli Ebrei?
«Credo si debba lavorare per una pacificazione, e che si debba creare poco alla volta un clima favorevole alla loro conversione».
La nostra è un’epoca di grande confusione, anche sul piano dottrinale. Come si fa a conservare la vera fede in un contesto come il nostro?
«Io penso che un buon metodo consista nel guardare che cosa è successo a coloro che hanno lasciato la Chiesa: la porta è sempre aperta, nessuno è obbligato a rimanere. Ma chi se ne va, alla fine che cosa trova? È forse più felice? Vale sempre anche in questo caso l’esortazione del Vangelo: dai loro frutti li riconoscerete. Anche la grave crisi interna al mondo cattolico si può leggere utilizzando questo metodo, guardare cioè i frutti, io so soltanto che nel secondo dopo guerra, quando ne facevo parte, l’Azione Cattolica aveva 3 milioni e mezzo di iscritti, ed esprimeva persone di qualità. Dopo una certa svolta progressista, oggi la stessa associazione conta 400.000 aderenti e ha perso la capacità di incidere davvero sulla società italiana. I frutti parlano chiaro».
Secondo lei, quai è il compito principale dei cattolici di fronte alle sfide e alle inquietudini del mondo moderno?
«I cattolici dovrebbero essere i primi ad aiutare ogni uomo a smascherare l’errore. L’errore non merita pietà. Si deve avere pietà per l’errante, mai per l’errore. Ci sono dei silenzi che possono risultare molto colpevoli. Ad esempio, all’epoca del Concilio Vaticano Il infuriava nel mondo il comunismo, e ci si sarebbe aspettata da quella solenne assise una presa di posizione molto dura sul fratello gemello del nazionalsocialismo. Quella condanna purtroppo non venne. Ma alle volte penso che quel silenzio abbia avuto un qualche misterioso significato provvidenziale che noi quaggiù non riusciamo a intravedere».
Come mai il mondo cattolico non ha sempre capito Eugenio Corti?
«Ho sempre pensato che la fede che abbiamo ricevuto ci debba guidare nel giudizio della realtà che ci circonda. È quella che alcuni chiamano teologia della storia. La crisi che ha colpito una parte del cattolicesimo si è manifestata nel rifiuto di questa capacità di giudizio dei fatti che viene dal Vangelo e dal Magistero. Poco alla volta, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, i cattolici che avevano questa impostazione, come ad esempio il grande critico letterario Mario Apollonio, sono stati messi da parte. Anche io ho subito la stessa sorte, ma sono stato salvato dai lettori e dalla loro passione per i miei libri».
Lei non si è limitato alla letteratura, ma ha partecipato in prima persona ad alcune battaglie culturali di portata storica: penso alle elezioni del 1948. E penso al referendum del 1974 per abrogare la legge sul divorzio…
«Gabrio Lombardi, e alcuni di noi insieme a lui, aveva capito che quella sarebbe stata una svolta epocale: se il divorzio avesse vinto, sarebbe arrivato ben presto l’aborto. E così fu. Per altro, quel 40% di italiani contrari al divorzio fu una percentuale di tutto rispetto, se confrontata con i mass media, che al 90% erano accanita-mente divorzisti».
Che cosa rende difficile lo scrivere?
«Il rendersi conto che talvolta sono proprio i “tuoi”, i cattolici, a non sostenerti. Il sentirsi – uso un’espressione di Mario Apollonio – delle sentinelle abbandonate. Ti viene da pensare: “Almeno i miei, i miei fratelli cattolici, saranno d’accordo con quello che scrivo”. E scopri che non è sempre così. Poi però uno rilegge il Vangelo, e si accorge che Nostro Signore è stato rinnegato dai suoi, e che Pietro, guardandolo, in preda alla paura dice: “non lo conosco, non so chi egli sia”. Se è successo a Gesù, figuriamoci se noi dobbiamo lamentarci per qualche piccolo rinnegamento che ci colpisce».
Medioevo o Era moderna: Eugenio Corti che cosa sceglie?
«Nel Medioevo gli uomini conducevano una vita più degna, più bella. La gente era più contenta di essere al mondo, e la vita degli uomini non veniva sprecata. È tutta questione di sguardo. Lo sguardo dell’uomo medioevale era proiettato oltre la vita terrena, e così anche il mondo rifletteva questa luce particolare: si costruivano chiese stupende. L’arte era il frutto dell’impostazione aristotelica e tomistica, l’universale veniva colto e rappresentato nel particolare, il riflesso di Dio si percepiva in ogni singola cosa. Il Medioevo è l’era che pone fine alla schiavitù. Dio e la donna: queste due realtà animano nell’ordine gli ideali cavallereschi, sublimando tutto ciò che di bello e di buono si agita nel cuore dell’uomo».
Eugenio Corti è uno dei grandi apologeti cattolici del ‘900. Questa rivista fa apologetica: in che modo è possibile rendere servizio alla verità, senza perdere di vista la necessaria carità?
«Questo è un punto cruciale. Non bisogna mai dimenticarsi che di fronte abbiamo una persona, una creatura di Dio, che resta tale anche quando sbaglia o quando è un nemico ostinato della Chiesa. D’altra parte, la verità deve essere determinante nella visione delle cose, io stesso mi rendo conto che talvolta sono stato poco caritatevole. Allora ripenso ai cavalieri medioevali, che non finivano il loro avversario sconfitto, ma gli tendevano la mano per farlo rialzare da terra. C’è il combattimento – l’amore per la verità – e c’è la compassione, l’amore per la carità. Questo mi sembra un buon modello per ogni apologeta cattolico del terzo millennio».
Che cosa significa scrivere, per Eugenio Corti?
«Ai tempi del Ginnasio scoprii l’Iliade e quell’incontro fu un vero shock. Omero trasformava in bellezza tutte le cose di cui parlava. Ero in quel tempo della vita in cui si iniziano a delineare le decisioni fondamentali: io decisi di scrivere. Ecco il mio sogno: inseguire la bellezza. È un’idea a cui ho cercato di rimanere sempre fedele. Durante la famosa “ritirata di Russia”, il nostro calvario fu particolarmente tragico: la temperatura, quando andava bene, era di 10-12 gradi sotto zero, ma la norma era di 20 gradi sotto lo zero. C’era da impazzire. Provai la fame, la stanchezza, lo spossamento delle marce, le notti sulla neve o sul ghiaccio, i combattimenti continui. Dovetti assistere a scene raccapriccianti, ancora più spaventose della fame e del freddo. Toccai con mano l’abiezione raggiungibile dall’uomo. La maggior parte di noi ormai non sperava più di uscire fuori dall’inferno bianco. La sera della vigilia di Natale del 1942 passai per un’esperienza particolarissima. Ero vivo per miracolo e feci un voto alla Madonna: “Se ne esco vivo, e non resto lì, come un mucchietto di carne congelata sulla neve, come uno straccio di divisa impolverata dal nevischio, mi impegno a spendere la mia vita per la verità e l’avvento del Regno”. Nel mio pensiero ritornavano le parole del Padre nostro “Venga il tuo Regno”. Attraverso circostanze davvero incredibili riuscii a salvarmi senza restare congelato e neppure ferito. Ero vivo, quindi dovevo mantenere un impegno: servire la verità. Penso che non potrei proprio fare a meno di scrivere, è la mia ragione di vita. Ogni mattina mi alzo e sento di essere chiamato a questo appuntamento con la matita e il foglio bianco».
(a cura di Mario Palmaro, ottobre 2009, Il Timone)