Il Te Deum di Eugenio Corti
In vita mia ho conosciuto due santi: don Luigi Giussani e don Carlo Gnocchi. Due persone abissalmente diverse, ma entrambe anime elevatissime e, per la mia esperienza, ugualmente sante. Il primo era un maestro che seppe appassionare alla fede tanti giovani, il secondo un animo semplice tutto dedito agli altri.
Don Giussani era di Desio, non molto lontano da Besana, paese dove abito. Lo conobbi ai tempi della battaglia sul divorzio. Con alcuni amici avevo organizzato una serie di convegni in cui avevamo invitato varie personalità e ricordo un suo mirabile intervento durante una conferenza al teatro della Biblioteca Ambrosiana di Milano. L’ho incontrato spesso, ma ricordo con particolare lucidità il giorno del funerale di sua madre. Egli celebrava e io m’ero messo in fondo, nelle ultime file, in mezzo a una moltitudine di persone che, come me, avevano voluto far sentire la loro vicinanza al prete di Desio. Ma non riuscivo a stare in chiesa. Non per la calca, ma per le parole con cui – con un’emozione vibrante ma non retorica – il figlio prete ricordava la madre defunta. Così entravo e uscivo di continuo, lottando in me stesso tra sentimenti di ammirazione e d’insopportabile commozione.
Don Carlo parlava sempre di due cose: degli alpini e di Dio, e di entrambi parlava col medesimo trasporto. Era venuto ad abitare qui, a Montesiro, a due passi dalla mia abitazione, quando aveva tre anni. Era stato cappellano all’Istituto Gonzaga di Milano e poi era partito per il fronte greco. L’esperienza di guerra l’aveva marcato per tutta la vita, facendogli provare delle sofferenze che l’avevano fortificato e reso un vero soldato cristiano. Aveva poi vissuto la ritirata dal fronte russo, comportandosi valorosamente e assistendo i moribondi che ghiacciavano in mezzo alla neve a temperature di quaranta gradi sotto zero. Entrava nei combattimenti con grande ardore, sfidando i colpi, e sui soldati si piegava per assisterli e confessarli.
Ricordo che aveva un taccuino su cui annotava i nomi delle mogli e dei figli che i soldati nell’ultima confessione gli affidavano. Al termine del conflitto andò a trovare ognuna di quelle famiglie. Fu così che si rese conto delle condizioni pietose di tanta gente; fu così che iniziò a raccogliere ogni genere di poverello, radunando tutti costoro in una prima grande famiglia. Ma non c’erano solo i congiunti degli alpini, tutta Italia era percorsa da questo grande terremoto delle vittime di guerra. E dei loro figli, mutilati spesso da giochi in campi non ancora sminati. Don Carlo si diede alla cura dei mutilati con tutto il cuore e nei suoi istituti volle sempre che vigesse uno spirito d’amore.
Capitò un giorno che ci incontrammo per strada. Ogni volta che ci incrociavamo mi ripeteva sempre la medesima raccomandazione: «Sposati presto, perché non è bene aspettare». Ma quella volta avevo la risposta pronta. Avevo infatti deciso di sposarmi con Vanda. «E perché non me lo hai detto?». «Ma don Carlo, sa, lei è così impegnato, io, non osavo», biascicai in qualche modo. Tirò fuori dal taschino quel suo famoso taccuino dei morti e mi fissò una data.
24 maggio 1951. Sessant’anni fa. Pare ieri. Era la sera precedente il matrimonio e per le strade di Assisi – lì mi sono sposato perché mia moglie è di quelle parti – passeggiavamo io, mia moglie, don Carlo, il mio testimone di nozze, Mario Bellini, che era stato con me sul fronte russo, e il testimone di mia moglie, Arnaldo Fortini, sindaco di Perugia e chiarissimo studioso francescano. Il cielo era terso, il clima incantato e la conversazione scorreva così piacevole che proseguimmo fino a notte tarda, sebbene l’impegno dell’indomani avesse dovuto consigliarci altro comportamento. Eppure eravamo tutti quanti eccitati, chi per una ragione, chi per un’altra. Fortini narrava con enfasi le ultime scoperte in ordine ai suoi studi, Bellini di certi suoi incontri straordinari di cui voleva far partecipe don Carlo, io, oltre che per quel che si può facilmente immaginare, perché s’era all’indomani dei successi elettorali della Democrazia cristiana e – incoscienza giovanile – già vedevo aprirsi una nuova era di cristianizzazione del paese. Ma più d’ogni altro, era don Carlo ad essere gasato. Era appena tornato da Parigi, dove s’era recato perché aveva sentito parlare dei primi progressi della chirurgia plastica. V’erano, infatti, nella capitale parigina dottori che, esperti in questo genere di arte, s’arricchivano con i soldi delle dive. Potete immaginarvi la sorpresa di costoro, non certo dei baciapile e alieni da qualsiasi simpatia cristiana, quando si videro di fronte il mio amico in tonaca. Eppure – è questa una prerogativa dei santi – seppe convincerli che dovevano aiutarlo: «Almeno le bambine dovete curarmele». Così, ci raccontava in quella sera primaverile don Carlo, era riuscito a strappargli un “sì” e da quel giorno in poi, di fine settimana in fine settimana, portava a Parigi una dozzina delle sue mutilatine, ragazzine la cui sfortuna era evidente nelle ossa sporgenti e orribili del volto. Le fece sistemare tutte. «Le mie bambine – diceva sempre come solo un sant’uomo sa dire – le voglio tutte belle come le dive del cinema».
Ecco, dunque, di che cosa ho da ringraziare Dio. D’aver conosciuto dei santi. Gente che, anche a un profano come me, ha fatto sentire con maggior vigore la presenza della provvidenza nel quotidiano vivere.
(Il testo è stato raccolto da Emanuele Boffi ed è frutto di una conversazione avvenuta il 13 dicembre a casa dell’autore, a Besana Brianza, 29/12/2011, Tempi)