Quel male che c’è in noi
Il blitz americano. L’eliminazione del nemico La gioia nelle piazze. Ma che cosa rimane ora della notizia che ha occupato per giorni le prime pagine di tutto il mondo? Lo abbiamo chiesto a Eugenio Corti, il grande scrittore che ha raccontato crimini (e dolore) del Novecento.
E lui ha risposto parlando di giustizia. Del diavolo. E di una speranza che attraversa i secoli
Eugenio Corti si avvicina a piccoli passi, nella mano destra il bastone ormai inseparabile, nella sinistra un libro. Non è Il cavallo rosso, la recente traduzione in olandese del suo capolavoro. È l’opera di uno storico americano, Daniel Goldhagen, che una quindicina d’anni fa fece una certa fortuna con I volonterosi carnefici di Hitler. Questo nuovo saggio si intitola Peggio della guerra. È una sorpresa trovarlo in mano a uno dei più grandi scrittori italiani, che ha ambientato nella guerra gran parte dei propri lavori.
Il cavallo rosso, 1.300 pagine trascurate dalla critica ma osannate dai lettori (27 edizioni, 200mila copie, traduzioni in otto lingue, un comitato che chiede per lui il Nobel della letteratura), ha fatto di Corti uno dei grandi intellettuali del Novecento. Un affresco manzoniano su trent’anni di storia in cui la Sopranatura, così la chiama lui, dà un senso alle vicende umane. Un’opera che l’ha costretto a scendere «alla radice del male», come disse ricevendo nel 2000 il Premio della Cultura cattolica.
«Il tema che lei mi propone, il male e la storia, è un tema enorme, bellissimo», esclama Corti. Novant’anni compiuti a gennaio, lo scrittore è testimone di tanti orrori. Il fascismo, la ferocia nazista e comunista, il conflitto mondiale chiuso dall’apocalisse atomica, gli anni del terrorismo. La sua opera li attraversa tutti. Il secolo che ha mietuto più morti nella storia dell’uomo è chiuso. Tutto quel male però non è stato metabolizzato: il nuovo millennio si è aperto con la carneficina dell’11 settembre organizzata da Osama bin Laden, dopo dieci anni le piazze americane si sono riempite di gente in festa per l’uccisione del mandante, e qualche ora dopo tutto sembra già consumato.
Appunto: c’è qualcosa di peggio della guerra.
Goldhagen ha lavorato una decina d’anni arrivando alla convinzione che i guai più grossi della storia, e in particolare della nostra epoca, sono gli eccidi di massa, gli assassinii sistematici. È un libro documentatissimo, perfino eccessivo nella pignoleria. Questa macabra contabilità spicciola dipinge un quadro agghiacciante del XX secolo: in guerra sono morte 61 milioni di persone, di cui 42 milioni di militari e 19 milioni di civili. Invece le stragi sistematiche nel corso del secolo hanno ucciso da 127 a 175 milioni di persone.
Lei ha scritto Processo e morte di Stalin, un dramma che la compagnia degli Incamminati di Franco Branciaroli sta per riportare in scena dopo cinquant’anni di oblìo. Ha definito Stalin «uno strumento del demonio». Anche bin Laden è un’ipostasi del male?
Nel corso della storia ci sono persone che incarnano la presenza del male. C’è il bene che attrae gli uomini e il male che pure li attrae. Ogni epoca fin dall’antichità insegna che l’uomo vive tra l’attrazione del bene e quella del male. Dove il male ha fatto presa, la storia degli uomini ha conosciuto pelaghi di eccidi. E bisogna constatare che questi eccidi, fatti per ammazzare, sono stati più micidiali delle guerre. Si uccide direttamente, oppure con le marce della morte, oppure con la fame e gli stenti, come i contadini cinesi affamati dal regime. Tuttavia in situazioni analoghe non si sono verificate stragi analoghe. Perché? Goldhagen solleva l’interrogativo ma non ha una risposta.
E lei, che risposta dà?
Certi reparti di SS non avevano l’ordine di uccidere gli ebrei, ma cercavano di ucciderli ugualmente. Il dittatore etiopico Menghistu traboccava di entusiasmo quando insegnava ai suoi la violenza con cui combattere il vecchio regime imperiale. C’è il gusto di fare il male. Ecco, si può essere felici di ammazzare. Per me sono persone possedute dal male, è l’impulso demoniaco che continua a farsi sentire e che trascina molti.
Eppure non gioiscono soltanto i grandi malvagi. Gli americani sono scesi nelle piazze euforici per l’omicidio di Osama. La voce della Chiesa si è levata tra le poche ad ammonire di non esultare per la morte di un uomo.
Gli americani erano molto umiliati dall’11 settembre. Sono stati colpiti al cuore. Hanno individuato il colpevole e sono andati a punirlo. Per punire il colpevole hanno dovuto fare una specie di colpo di mano, da quel poco che ci hanno fatto sapere. Da un lato, c’è entusiasmo perché il responsabile è stato castigato, e in un certo senso è un riequilibrio del diritto.
Come ha detto il presidente Obama, «giustizia è stata fatta»…
Ma dall’altro lato c’è il gusto di ammazzare uno che non si è quasi neanche difeso. Una specie di ritorsione negativa: tu mi hai fatto un grande torto e io ti accoppo. È sbagliato. In quell’episodio si sono uniti il desiderio di trovare il colpevole, che è positivo, e la voglia di vendetta contro un criminale. Come succede spesso nelle cose degli uomini, c’è una mescolanza del bene con il male. In un certo senso gli americani hanno fatto bene a fargliela pagare, perché i macellai devono imparare che a un certo punto la pagano; ma l’assassinio porta sempre con sé altri assassinii, ritorsioni, minacce di nuove stragi. Noi siamo qui che pencoliamo tra il bene e il male.
La giustizia umana è un tentativo sempre parziale?
È una giustizia che può essere fatta con animo diverso. La soddisfazione di aver ammazzato l’avversario non è vera giustizia. È una nuova ingiustizia.
La libertà dell’uomo gioca sempre un ruolo fondamentale, non si può mai ridurre tutto alle circostanze.
La visione dell’uomo di noi cristiani è la più adeguata a spiegare questo dramma. È l’abbandono di Dio a moltiplicare gli orrori. Nei secoli passati non ci sono state tante stragi così sanguinose come nel Ventesimo. Il motivo è che il secolo scorso è il più scristianizzato della storia. La scristianizzazione sistematica sviluppatasi dal Cinquecento in poi ha fatto presa soprattutto in due grandi nazioni all’avanguardia della modernità anche se diversissime tra loro, la Germania e la Russia. Hitler e Stalin erano bestie molto affini. Dal punto di vista numerico i russi hanno fatto più morti: hanno cominciato per primi e hanno avuto più tempo. Ma dal punto di vista della radicalità i tedeschi erano peggio.
Molti altri stermini sono poco conosciuti.
Uno dei più esemplari fu il genocidio degli armeni in Turchia agli inizi del Novecento. Prima molti di quei cristiani vennero passati per le armi, i superstiti furono deportati e nelle marce della morte ne perì un numero ancora maggiore, i pochi rimasti morirono poi nei campi di prigionia. In Europa, per numero di morti il genocidio più sanguinoso è stato quello dei contadini russi perpetrato dai bolscevichi mediante carestie artificiali negli anni Venti e Trenta. Quando andai laggiù in guerra, tra il 1941 e il ’42, ne avvertivo ancora l’eco. Avevo scelto io il fronte russo: volevo conoscere quella realtà perché volevo fare lo scrittore cristiano e raccontare anche l’esperienza dell’a-cristianesimo.
Che cosa ricorda di quei tragici racconti?
In ogni zona attraversata, dall’Ucraina alla terra dei Cosacchi, sentivo ripetere sempre le stesse crudeltà. Ho segnato tutto riempiendo due quadernetti, che poi ho distrutto durante la ritirata nella sacca di Arbusov, perché non cadessero in mani sbagliate. Soprattutto non capivo perché i comunisti ne avessero ammazzati così tanti. Da noi, i fascisti presero il potere facendo poche decine di morti, forse un centinaio. In Russia la popolazione era cinque volte più numerosa e in proporzione i bolscevichi avrebbero dovuto ammazzarne da cinquecento a un migliaio. Che senso aveva sterminarne milioni e milioni? Ora ho il timore che quelle realtà si possano ripresentare. Non c’è un recupero in corso: anzi, come ha ricordato per esempio papa Giovanni Paolo II nel 2002, all’assemblea plenaria del Pontificio Consiglio della Cultura, c’è stata fra gli stessi cattolici una interruzione generazionale, per cui il processo di trasmissione dei valori morali e religiosi tra le generazioni si è interrotto. Non solo, ma i cristiani, cui competerebbe il recupero, sono metà di qua e metà di là, impegnati ad annullare gli sforzi gli uni degli altri.
Il dramma dei cristiani è la mancanza di unità?
Addirittura la contrapposizione.
A che cosa andiamo incontro, secondo lei?
M’inquieta il ricordo del passato. Quand’ero studente di liceo alla vigilia della guerra non ci saremmo assolutamente aspettati la catastrofe che ci cadeva addosso. Siamo nella stessa situazione: può essere che queste piccole rivoluzioni nei Paesi arabi mediterranei, con l’appoggio determinante della Turchia, si scarichino contro Israele: il quale per difendersi dovrà usare le bombe atomiche. Questo pericolo è stato già preavvertito nel mondo della Trascendenza alcuni anni fa: alludo alle apparizioni nel 1968 della Madonna di Zeitoun in Egitto, in un momento storico pure delicatissimo.
Lei ha una visione provvidenziale della Storia.
Ho assistito nel corso della mia lunga vita ad alcuni grandi interventi provvidenziali della Sopranatura nella storia degli uomini, di cui due operati dalla Madonna (in breve: la salvezza degli ultimi cinquanta-sessanta militari polacchi superstiti nei lager sovietici, liberati e inviati a combattere contro il nazismo in Italia, che si dichiaravano tutti, senza eccezioni, convinti di dovere tale salvezza a un intervento della loro Madonna di Jasna Gora. E l’altro miracolo, assai più imponente, dell’improvvisa scomparsa del comunismo della Russia, dopo la consacrazione del Paese alla Madonna effettuata da papa Giovanni Paolo II). Per questo, in riferimento al problema di Israele il mio pensiero corre a Zeitoun. In conclusione, non fanno parte della realtà storica soltanto le tremende stragi militari, e gli ancor più tremendi eccidi prodotti dall’odio, di cui s’è parlato, ma anche i grandi interventi della Provvidenza in favore dell’umanità, che sono stati parimenti reali. Sta qui il fondamento della mia speranza.
(Stefano Filippi, giugno 2011, Tracce)