Corti, un Ulisse al premio Nobel?
Venerdì Eugenio Corti si recherà ancora nella stanza al primo piano del palazzo di famiglia a Besana in Brianza (Monza), dove vide la luce il 21 gennaio 1921: «Fu alle nove del mattino, mi ha riferito mio padre». È la stanza che è diventata il suo studio, e dove tuttora lavora: attualmente a una nuova edizione del volume di saggi Il fumo nel tempio. Lo scrittore, noto soprattutto per il romanzo Il cavallo rosso, pubblicato da Ares, (che ha avuto 27 edizioni vendendo oltre 300mila copie), ma che è stato spesso trascurato dalla critica, ci tiene a sottolineare il valore artistico delle sue opere: «Ho cercato sempre di rendere l’universale nel particolare, secondo quanto predicano Aristotele e San Tommaso». Della sua fede non vanta alcun merito («mi è stata trasmessa dai miei genitori»), ma resta fermo nel proposito di contribuire con la bellezza all’affermazione del Regno: «Vedere l’assoluto nel relativo, la realtà specchio di Dio: se è rispettata questa impostazione nel rendere la realtà viene fuori l’opera d’arte».
Come è nata la sua vocazione di scrittore?
«È nata dai giorni in cui in prima media ho preso in mano il testo di Omero, e ho cominciato a leggerlo ancor prima che iniziassero le lezioni. Ho trovato che trasformava in bellezza tutto quello che scriveva: ne sono stato preso al punto da desiderare di imitarlo e da non staccarmene più. L’altro fatto determinante è accaduto quando mi trovavo sul fronte russo: la notte di Natale del 1942, nella sacca di Arbusov, che chiamammo la valle della morte. Fu un’esperienza terribile: c’erano anche 30 gradi sotto zero, eravamo senza viveri e la fame e la morte ci circondavano. Spaventoso era l’odio reciproco tra russi e tedeschi, esempio dell’uomo ridotto a bestia. In quella circostanza promisi alla Madonna (sapevo che anche mia madre la pregava per la mia salvezza), che se fossi scampato alla strage mi sarei impegnato per la realizzazione del secondo versetto del Padre Nostro: ‘Venga il tuo Regno’. E così ho fatto, cercando di contribuire all’affermazione del Regno come scrittore».
Le sue prime opere raccontano appunto la vicenda della ritirata di Russia e quella del rinato esercito italiano a fianco degli Alleati. Ma la prima ha avuto un certo successo, la seconda no. Perché?
«Il fronte russo era il luogo della grande tragedia, il posto dove era stato maggiore il numero di perdite umane. Il mio I più non ritornano fu uno dei primi resoconti di quei drammatici giorni: uscì dall’editore Garzanti che lo accettò subito. Aiutò molto la recensione favorevole che ne fece Mario Apollonio, allora preside della facoltà di Lettere dell’Università Cattolica di Milano e uno dei maggiori critici letterari. Quell’articolo servì anche a me, per confermarmi nella mia vocazione letteraria. Viceversa il libro dedicato alla mia esperienza bellica in Italia, nell’armata che contribuiva alla liberazione dai tedeschi a fianco degli Alleati, non ebbe fortuna, credo per due motivi. Dal punto di vista militare noi soldati del re e i partigiani abbiamo avuto circa lo stesso peso (e forse più morti), ma l’epopea partigiana all’epoca era sempre esaltata, mentre la nostra opera era lasciata nel silenzio fino a renderla quasi sconosciuta. Il secondo motivo è che nel libro c’era dentro l’aspirazione di quello che sarebbe diventato Il cavallo rosso, ma mi mancava l’esperienza. Un autore cerca di rendere l’umanità del suo tempo, tende a essere scrittore universale. Quando nel ’51 scrissi questo libro avevo trent’anni e non avevo ancora la capacità di maneggiare una materia tanto vasta. A cinquanta invece, quando ho iniziato a scrivere Il cavallo rosso, ero pronto, avevo studiato, mi ero documentato. E nello stesso tempo avevo ancora la forza espressiva, senza aver perso il ricordo delle esperienze dirette. E il libro è uscito come un frutto maturo».
Quali sono i suoi modelli letterari. Dobbiamo partire da Omero?
«Certamente Omero, che nel mondo infantile mi apparì di una bellezza somma. Poi studiando al liceo le poetiche, mi imbattei in tutte scuole letterarie, italiane e non solo. Capii che il mio campo era la prosa e non la poesia. E mi convinceva la linea che va da Omero al suo ‘allievo’ Virgilio (che in alcuni punti mi pareva addirittura superiore, penso al secondo libro dell’Eneide). Poi Dante, che sceglie Virgilio come maestro. Poi i romanzi dell’Ottocento: Manzoni da noi, Tolstoj che ritengo il più omerico di tutti gli allievi di Omero. Mentre le poetiche novecentesche (anche delle arti figurative) non mi hanno mai convinto. Ecco, Bacchelli mi pare l’ultimo gagliardo di quelli che seguono la linea tradizionale».
E la fede, quanto l’ha aiutata?
«Non credo di avere meriti nella fede. Ho seguito l’impostazione che mi hanno dato i miei genitori e la scuola dove ho studiato (il Collegio San Carlo di Milano). In realtà pur non avendo alcun dubbio (dal punto di vista razionale è tutto chiaro), credo che ci sia molta gente che ha molta più fede di me, missionari ma anche gente del popolo. Ed essendo vicino al passaggio nel mondo di là, conto molto sulla misericordia di Dio».
Cosa pensa della mobilitazione dei comitati per candidarla al premio Nobel per la letteratura?
«So bene che non me lo daranno mai. Anche perché la giuria è animata da uno spirito anticristiano. Ma se non lo hanno dato a Tolstoj, che secondo me vale come tutti gli altri vincitori messi insieme, non mi preoccupo. Tra i miei amici, è soprattutto il mio editore in Francia, Vladimir Dimitrievic, a crederci. In ogni caso ringrazio tutti i miei sostenitori: questo movimento serve comunque a diffondere la conoscenza dei miei libri».
(Enrico Negrotti, 19/01/11, Avvenire)