“Io, scrittore da una vita”
Arrivare a 90 anni ancora arzilli nella mente e nel cuore, magari un po’ meno nelle gambe, ma, soprattutto, continuando ancora a fare quello che è stato il primo desiderio, scopo e traguardo della giovinezza, anzi dell’adolescenza: scrivere. «Ho sempre voluto scrivere, per raccontare la realtà, quella del nostro mondo, di oggi, della vita dell’uomo con tutta la sua bellezza e con tutta la sua crudeltà, dell’eterna lotta tra i bene e il male». Eugenio Corti mi accoglie con grande benevolenza nella sua casa di famiglia a Besana B., in una sera brumosa, introdotto dalla fedele moglie Vanda. Mi accompagna mons. Armando Cattaneo, vicario episcopale per Monza e Brianza, che gli porta anche gli auguri dell’arcivescovo.
Ma cosa vuol dire per un uomo di grande intelligenza e ancor più di grande fede arrivare a 90 anni?
«Constatare che ci si arriva in pochi, che tanti amici, tanti compagni d’arme, via via ti hanno lasciato per sempre. E questo dà la percezione della nostra caducità, della scomparsa di un mondo, di quel mondo in cui si è cresciuti».
E quali rimpianti suscita tutto questo?
«L’unico vero rimpianto che ho è stato quello di aver viaggiato troppo poco, di non avere conosciuto abbastanza alcune zone del mondo. In America del Nord ci sono stato una sola volta, in quella del Sud un paio, per il resto ho sempre rimandato come per la Terra Santa. L’unico Paese che conosco bene è la Francia che mi ha sempre accolto bene e dove ‘Il cavallo rosso’ ha avuto più traduzioni ed edizioni, perché lì i cattolici certo sono in una posizione minoritaria ma senza complessi di inferiorità combattono spavaldamente in difesa della fede».
Già, la fede, una delle sue caratteristiche più spiccate: da dove le viene?
«Dai miei genitori, cattolici ardenti, da mia mamma in particolare che mi ha educato nel senso vero del termine alla fede e da mio padre, un uomo severo, forse perché, figlio di un prestinaio di Montesiro, era rimasto orfano giovanissimo ed era stato messo a lavorare da un piccolo negoziante di Seregno. Ma ben presto le sue doti di intraprendenza in campo economico lo avevano portato a creare aziende tessili che nel dopoguerra davano lavoro a più di 1100 operai, con stabilimenti anche nel meridione. A tutti noi, dieci figli, sei maschi di cui tre già scomparsi e quattro femmine, ha insegnato a rispettare tutto e tutti, ed ha voluto che studiassimo, che prendessimo una laurea, cosa che è avvenuta, eccetto che per Corrado, gesuita, che a 80 anni è ancora in Ciad come missionario».
E lei, figlio di un imprenditore è diventato invece uno scrittore.
«E’ successo al collegio San Carlo di Milano dove sono stato mandato a studiare dalla quarta elementare sino alla maturità. Quando al ginnasio mi hanno messo in mano i libri di Omero, l’Iliade e l’Odissea, prima ancora che il professore ci dicesse di aprirli, io avevo già incominciato a leggerli e mi ero detto ‘Ecco da grande devo fare come questo, devo scrivere’. Quegli anni mi sono serviti proprio a prepararmi a scrivere. Poi è arrivata la guerra».
Dove lei ha voluto fortemente essere mandato a combattere in Russia, perché?
«Mi sono arruolato volontario e diventato sottotenente ho faticato non poco a ottenere di andare sul fronte russo. Il perché è che volevo conoscere il comunismo di cui avevo sentito parlare tanto anche da noi. Non mi rendevo conto in quel momento che nello stesso tempo avrei conosciuto anche il nazismo, due ideologie sorelle nell’annientare l’uomo. E’ stato nella tremenda vicenda della sacca del Don dove siamo rimasti per 28 giorni che ho visto gli abissi della barbarie, è lì che nei tre giorni passati all’aperto, in pieno mese di dicembre del 1942, quando le speranze di sopravvivenza si stavano spegnendo, che ho fatto una promessa alla Madonna pensando a come la stesse pregando anche mia mamma a casa: se ne fosse uscito vivo mi sarei impegnato per tutta la vita non solo a scrivere in spirito di bellezza ma anche per realizzare le parole del Padre nostro ‘Venga il tuo Regno’. E così fu, perché non solo mi salvai e fui uno dei 300 sui 1700 uomini del mio reggimento ma anche perché non appena terminata la guerra scrissi il mio primo libro ‘I più non ritornano’, pubblicato nel 1947».
Ma il suo capolavoro ‘Il cavallo rosso’ è arrivato molto più tardi.
«Sì, perché, dopo la fine della guerra ero svuotato di ogni energia ed angosciato dai ricordi. Non volevo fare più nulla, nemmeno riprendere gli studi ma quando lo dissi a mio padre vidi sul suo volto un grande dolore e, riflettendo sulle pene che già gli avevo dato, decisi di iscrivermi a legge per dare in fretta tutti gli esami, cosa che in effetti avvenne, poiché mi laureai in un anno e mezzo e nel frattempo scrissi anche il primo libro. Poi mi misi a lavorare in azienda ma continuando a scrivere (pubblica nel 1951 ‘I poveri cristi’ e nel 1962 ‘Processo e morte di Stalin’, ndr.) e, soprattutto studiare. Ma sapevo che per arrivare a realizzare il mio sogno del romanzo sulla realtà del nostro mondo dovevo aspettare. E infatti arrivato ai 50 anni ho smesso ogni altra attività e mi sono dedicato anima e corpo a ‘Il cavallo rosso’ che sono riuscito a pubblicare nel 1983».
A tutti i suoi libri ha sempre dedicato tanta cura e tanto tempo.
«Praticamente ciascuno di loro è stato come una laurea, ha richiesto almeno cinque anni di lavoro, sia per ‘La terra dell’indio’ (1998) dedicato all’esperienza dei gesuiti in Paraguay, che per ‘L’isola del paradiso’ (2000) ispirato ai film sull’ammutinamento del Bounty, che per ‘Catone l’antico’ (2005) dedicato all’epoca romana quale crogiolo dell’era cristiana di cui l’Europa non vuole riconoscere le radici. Poi ho pubblicato ‘Il Medioevo ed altri racconti’ (2008) in omaggio alla beata Angelina di Marsciano un’antenata di Vanda, mia moglie, che è di origine umbra e che ho conosciuto in Cattolica e sposata nel 1951 ad Assisi».
Non mi dirà che sta ancora lavorando, anzi scrivendo?
«Sto cercando di terminare una riedizione aggiornata de ‘Il fumo nel tempio’ del 1995 sulla crisi del mondo cattolico dopo il Concilio con una rivalutazione dell’opera della Democrazia Cristiana».
Da cattolico, anzi da paolotto come ama definirsi, quale è il Papa a cui è più legato?
«Quando avevo un anno all’incirca l’arcivescovo di Milano di allora, il cardinale Achille Ratti, desiano, venne in visita pastorale a Besana. Siccome era cugino di mia nonna Enrichetta venne a casa nostra e mi prese in braccio. Di lì a poco, nel ’22 diventò Papa e le donne di casa mi ammonivano continuamente ‘Fai il bravo che sei stato in braccio al Papa’. Ma il pontefice a cui sono più legato però è Pio XII a motivo della tremenda persecuzione cui è stato sottoposto dai nemici della fede causandogli la sofferenza che lo ha portato alla morte».
(Luigi Losa, 20/01/11, Il Cittadino MB)
Bellissima intervista, grazie!