Eugenio Corti, scrivere con la pazienza di un contadino
Lo scrittore brianzolo compie 90 anni, e un incontro-dialogo lo festeggia. Il giusto omaggio a chi ha raccontato nei suoi libri la «resistenza al nulla, perché mostrano il popolo cristiano di fronte ai nichilismi del Novecento»
Il radunarsi stesso della gente arrivata lo scorso 21 gennaio a Villa Raverio, a festeggiare i 90 anni di Eugenio Corti, scrittore brianzolo, dava corpo alla scena manzoniana di “uomini, donne, fanciulli, a brigate, a coppie, soli” che andavano insieme, come amici a un viaggio convenuto. Intanto, nella sua casa di Besana, l’autore de Il cavallo rosso riceveva gli auguri dei tanti amici: dai riconoscimenti ufficiali di giornali e autorità, al saluto commosso dei suoi anonimi lettori. Persino un cenno dallo spazio dell’astronauta quasi compaesano Nespoli.
Per una comune affinità tra i tanti che apprezzano l’opera di Corti è sorta l’idea, poi coordinata dalla Fondazione “Costruiamo il futuro”, di sottolineare la data con un incontro che inaugura le iniziative dell’Anno di Eugenio Corti: il dialogo, introdotto da Renato Farina, è stato il contesto per commentare in amicizia quello che i libri, gli interventi e la presenza di Eugenio Corti ha contribuito a suscitare nella vita della cultura italiana, dal 1947 (anno d’uscita del suo primo libro I più non ritornano) a oggi. Così le “suggestioni” a margine dell’opera cortiana le ha ricordate monsignor Luigi Negri, vescovo di San Marino-Montefeltro, amico dello scrittore, inserendosi nel clima intenso della lettura di un brano, insieme alle voci del Coro Alpino, con le note struggenti del Testamento del capitano. Gli scritti di Corti, secondo Negri, costituiscono la resistenza vivente al nulla perché mettono in pagina la vita del popolo cristiano di fronte ai nichilismi del Novecento. Ripercorrendo i temi che innervano i libri di Corti, fino ai saggi sulla Chiesa intitolati Il fumo nel tempio (Ares, 1996), viene fuori che il dramma della vita è sempre guardato a partire dall’incarnazione di Gesù Cristo, e che solo questo può «rendere più cordiale la realtà». Nei racconti della Guerra o nei romanzi “per immagini” (come in La terra dell’indio), la condizione umana è descritta come un «mangiare e bere, vivere e morire, non più per se stessi ma per il Signore».
Il Vescovo ha sottolineato anche come la linfa vera di quelle opere rispondesse al motto «Tu fortitudo mea», perché Corti stesso ha confidato nella Madre di Dio proprio nel punto più terribile della ritirata di Russia, nel 1943; per questo è diventato un punto di riferimento per i giovani che negli ultimi vent’anni lo hanno incontrato: perché si può vivere solo nel presente, e in lui hanno trovato una fede innestata tutta sulla memoria nel presente.
Luca Doninelli, nel suo intervento, ha detto che l’unico paragone possibile per la narrativa cortiana sia con un gigante come Tolstoj: entrambi possiedono l’ampio respiro di chi racconta tutto l’uomo con la pazienza del contadino, nello scenario sconfinato della storia. «Corti ha saputo aspettare il momento in cui scrivere», ed è un grande scrittore perché non fa calcoli, obbedisce alle cose attraverso le parole. Non a caso la sua prima parola è fine, ha sottolineato ancora Doninelli, la cui lettura si è concentrata principalmente sull’incipit del Cavallo rosso (Ares, 1983; venticinque edizioni, tradotto in otto lingue), dove padre e figlio sono nel campo a falciare l’erba «dal buon odore verde». Da questo inizio umile crescerà, come una cattedrale, la narrazione di trent’anni di storia italiana, con decine di personaggi. Milletrecento pagine “serie” perché «la serietà di uno scrittore consiste nel modo in cui segue i fatti: è questione di fedeltà».
Poi la voce torna ancora al Coro, per un altro canto alpino. E a un annuncio: la piece teatrale Processo e morte di Stalin (che Corti scrisse nel 1962) presto sarà messa in scena da Andrea Carabelli con Il Teatro degli Incamminati, con Franco Branciaroli nella parte del dittatore sovietico.
(Andrea Sciffo, 24/01/11, Tracce)