Il cavallo rosso, un libro scritto per la gente
Un successo che dura da vent’anni. Lo racconta il primo editore del romanzo, Cesare Cavalleri della Ares: «Descrive eventi minimi di personaggi comuni per disegnare la grande storia».
In via Stradivari 7, a Milano, c’è la sede della casa editrice Ares, condotta da quasi cinquant’anni dal carismatico Cesare Cavalleri. Su uno scaffale si allineano le oltre 20 edizioni italiane di Il cavallo rosso di Eugenio Corti e le varie traduzioni in francese, spagnolo, inglese, lituano, romeno e giapponese.
Dottor Cavalleri, con un’edizione all’anno Il cavallo rosso, che Famiglia Cristiana offre ai lettori, ha galoppato forte nel mondo. Si sarebbe immaginato 25 anni fa un successo simile?
«Questi risultati sono il segno di una maturità raggiunta da un grande romanzo che è stato scritto dalla gente per parlare alla gente. Noi ci abbiamo creduto fin dall’inizio: sapevamo che il libro avrebbe avuto gambe robuste per fare questa lunga corsa. Oggi l’iniziativa di pubblicarlo da parte di Famiglia Cristiana ci fa un enorme piacere perché consente di allargare ulteriormente il pubblico dei lettori».
Quando ha conosciuto Corti?
«Nel 1974, per la campagna referendaria sul divorzio. Fu lui a presentarmi a Gabrio Lombardi, presidente del Comitato contro il divorzio; Corti e io eravamo nel direttivo lombardo. Eugenio, che stava scrivendo Il cavallo rosso, diceva agli amici: “Ti ho messo nel mio romanzo!”, e noi ci chiedevamo: “Che romanzo sarà, se ci siamo dentro tutti?”».
Così nel libro c’è anche lei?
«Sì, sono l’editore di Michele Tentori, l’alter ego di Corti, e purtroppo ho un ruolo sgradevole proprio nel finale: Michele, per non perdere l’appuntamento con me a Milano, rimasto in panne sul Lago di Como, si fa venire a recuperare di notte dalla moglie, che perde la vita in un incidente stradale».
Come è nata in lei la decisione di pubblicare il romanzo?
«Nel 1983, quando Corti finì di scriverlo, lo fece vedere a vari editori, tra cui Garzanti, presso cui aveva già pubblicato con successo I più non ritornano. Ma per un grande editore un libro di 1.280 pagine avrebbe dovuto avere un prezzo di copertina troppo alto; mentre noi, dandoci da fare, siamo riusciti a contenere i costi. Del resto, dopo 11 anni di lavoro, Corti aveva fretta di pubblicare il suo romanzo e io ho accettato subito per amicizia; è stato dopo aver letto il manoscritto che mi sono reso conto di avere tra le mani un capolavoro».
Oltre a quella di Famiglia Cristiana ci furono altre favorevoli recensioni?
«No, i critici dei giornali difficilmente hanno il tempo di leggere un libro così lungo. La stampa laica non si è interessata del romanzo e la cosa non mi è più di tanto dispiaciuta: mi interessava invece che il libro venisse letto dalla gente, cosa che è avvenuta puntualmente grazie al passaparola nato dalla recensione di Famiglia Cristiana».
Lei è anche critico letterario. Come considera da questo punto di vista Il cavallo rosso?
«Lo considero il Guerra e pace del XX secolo, un romanzo che ha un respiro inconsueto per la letteratura italiana del ’900. Autori che riescono a intrecciare una trama così lunga con riferimenti storici così precisi ce ne sono pochi, per esempio, potrei citare Il mulino del Po di Riccardo Bacchelli».
Perché vale la pena leggere questo lunghissimo romanzo?
«La difficoltà è fare il primo passo, poi la trama avvince. Se la gente oggi è disposta a digerire thriller americani di 800 pagine, tanto più vale la pena investire tempo nella lettura di questo libro in cui sono descritti i drammatici avvenimenti del ’900 italiano ed europeo, dove gli orrori perpetrati da nazismo e comunismo sono descritti in modo diretto, attraverso vicende e testimonianze di chi ha vissuto sulla sua pelle quelle situazioni. Nel libro è anche descritto il declino della nostra civiltà che si è allontanata dalla sua fonte, il cristianesimo; ma sono anche gettati semi di speranza per il futuro».
In questo grande affresco non ci sono eroi, ma ciascuno ha la sua parte, magari piccola, ma indispensabile. Qual è la visione della storia di Corti?
«Come i grandi scrittori, ha una concezione “evenemenziale” della storia: ricostruisce minuziosamente particolari e singoli eventi che diventano significativi; i personaggi del suo microcosmo diventano i veri attori della storia, che non è fatta solo dai re e dai condottieri, ma anche dalla gente comune».
C’è una morale cristiana che guida i personaggi del libro a non fare quello che pare e piace, come suggerirebbe oggi la cultura dominante. Eppure, questa morale non soffoca l’amore tra i protagonisti del romanzo…
«Sì, Il cavallo rosso è anche un romanzo d’amore, ma autentico. A quell’epoca i ragazzi arrivavano vergini al matrimonio, avevano questo tipo di moralità che dà all’amore verso la persona amata tutta quella carica e quell’intensità di sentimenti che oggi si disperde nei rapporti facili e immediati. Può sembrare la descrizione di un paradiso perduto, ma anche di un paradiso ritrovato, fatto per chi vuole essere veramente felice. Diceva Ezra Pound che “nell’amore ciò che conta è la qualità degli affetti”. E gli affetti purissimi e adamantini assicurano la felicità dei ragazzi protagonisti del romanzo. A chi oggi si meraviglia di questo bisogna semplicemente dire: “Provare per credere!”».
C’è anche un pudore linguistico nel romanzo: poche parolacce, giustificate dal contesto, esclamazioni in situazioni estreme: un pudore cattolico e lombardo, un valore aggiunto?
«Anche qui Corti segna la differenza: un conto è la parola parlata e un altro quella scritta, riprodotta in pagina; la parolaccia ripetuta continuamente è segno di povertà linguistica, restringe il lessico a poche esclamazioni, è una sorta di esorcismo che blocca le capacità di discorso, impoverisce la lingua parlata e anche quella scritta».
Come definirebbe la lingua e lo stile di Eugenio Corti?
«La lingua è lombarda, con qualche localismo che l’autore evidentemente si permette: “chiacchere” senza la “i”, per esempio, e altre eccezioni. La prosa di Corti è calibratissima, può sembrare semplice, immediatamente afferrabile, ma la sua semplicità è frutto di una conquista, nasce da un’elaborazione molto sofferta; e anche l’andamento ritmico è molto elaborato».
Quale posto ha la natura nella visione di Corti?
«Il romanzo è ambientato in Brianza, un territorio non agricolo, ma industriale, fatto di piccole fabbriche che sono inserite, però, in un paesaggio che conserva una forte vocazione naturalistica e conferisce respiro cosmico alla narrazione delle vicende prevalentemente urbane del romanzo».
Parliamo della presenza dello spirito, del mondo dell’aldilà. L’anima di Stefano che, dalle nevi russe dove giace il suo corpo, va a Nomana ad “avvisare” la mamma; o quella di Alma che, dal fondo del lago in cui affoga, viene accompagnata in cielo dagli angeli. Come spiega questa irruzione così semplice e diretta del divino nelle vicende umane?
«Il romanzo di Corti è imbevuto di un cristianesimo talmente assimilato e metabolizzato dai personaggi che non ha bisogno di spiegazioni. Il trascendente è presente nel quotidiano: è questo il grande messaggio e la grande forza morale di questo libro, una morale laica, lombarda, non visionaria, molto concreta, supportata da una robusta base teologica. Fede e ragione, insomma. E proprio perché la realtà non è completa senza il soprannaturale, ecco la presenza degli angeli custodi. Corti, del resto, non solo crede nell’esistenza degli angeli, ma racconta di averne avuto esperienza diretta durante la terribile ritirata sul fronte russo del Don».
(a cura di Alfredo Tradigo, 13/07/2008 – Famiglia Cristiana)