Una giornata in casa Corti

Eugenio Corti

Eugenio Corti

Il mio viaggio era cominciato molto presto quella mattina. Partivo dalla provincia genovese e mi si prospettavano oltre 4 ore di viaggio.

L’ultimo treno, quello che mi doveva condurre alla meta, era così piccolo da sembrare quello delle bambole. Le stazioncine, numerose come i sassolini di Pollicino, si susseguivano in un paesaggio autunnale dai colori caldi. Allontanandomi dalla grande città, la mia mente andava ad Ambrogio e Michele che avevano percorso la stessa linea per raggiungere la Cattolica a Milano. Cercavo di ritrovare nel paesaggio i loro pensieri, di seguire il corso del Lambro che in Brianza negli anni ’40 era limpido e trasparente prima d’intorbidirsi in città.

Finalmente arrivò il mio turno di scendere e notai subito un unico uomo, ma anche un uomo unico, come presto avrei verificato, che mi attendeva.

Alto, ritto nel suo tranquillo cappotto blu, con il viso e le maniere di altri tempi, si avvicinò tendendomi la mano. Era Eugenio Corti e con quella stretta di mano iniziò un incontro per me indimenticabile.

A dire il vero ero un po’ impacciata perché la mia mente andava spontaneamente alle vicende narrate ne “Il cavallo rosso” e non mi capacitavo che chi le avesse scritte e vissute fosse il tranquillo gentiluomo che avevo accanto.

In pochi minuti arrivammo a casa, una grande casa ocra, signorile e distesa, così diversa dalle dimore signorili della mia Liguria: un grande parco carico di memorie che sbucava all’improvviso tra le molte villette dell’industriosa e ricca Brianza. Per me era la casa dei Riva.

La signora Corti, discreta e silenziosa, ci attendeva in casa ed al vederla non potei trattenere lo stupore: era Alma, Almina, la fedele custode del genio di Michele, che amava il marito con un amore ed una dedizione totale, pari solo a quella dei bimbi o dei santi.

Mi accolsero in modo molto semplice e affabile; chissà che impressione avrò fatto loro perché io nei loro gesti e parole, in quella casa, risentivo e rivedevo tutto ciò che avevo letto ne “Il cavallo rosso”.

Più tardi, passeggiando nel parco con lo scrittore, egli, sorridendo,mi confessò bonariamente che, terminando la stesura del romanzo, si sentiva profondamente convinto e soddisfatto di essere riuscito a tenersi fuori dai personaggi. Questo suo desiderio, dettato forse da un delicato senso del pudore, fortunatamente non si è realizzato e tutti i personaggi e le situazioni hanno un corrispondente reale, preciso e, direi, storico.

Il Corti, che si è incarnato principalmente in Michele Tintori, forse è più Ambrogio Riva di quanto egli stesso pensi e lo si vede proprio nell’ingegneria del romanzo. Ambrogio è, forse, tra i protagonisti, il personaggio più concreto, meno speculativo, il più brianteo. Cosa c’è di più brianteo del rigore con cui Corti ha generato e fatto crescere ciascuno dei suoi personaggi?

Abbiamo amabilmente conversato a ruota libera, prima in salotto, poi nel parco: io mi ero ostinata a non voler preparare un elenco di punti da trattare perché volevo soprattutto incontrare l’uomo Eugenio Corti e non passare al microscopio lo scrittore. Non so se egli abbia gradito questa mia “sprovvedutezza”, ma spesso è più importante respirare un’atmosfera che analizzarla, osservare la persona, i suoi gesti, le sue espressioni che bombardarla di domande.

Una domanda, però, ce l’avevo, precisa, urgente.

“Dott. Corti, perché quella fine improvvisa, in un banale incidente stradale, per Alma?”

Forse se l’aspettava, perché altri lettori gliel’avevano già chiesto.

“E’ il mistero della Croce che irrompe nella vita di ogni uomo. In un primo momento avevo pensato di terminare il romanzo con la morte di Gerardo, il patriarca, ma mi è sembrato troppo scontato, perché è un evento naturale.”

“Vede,”continuò pacato, “il romanzo classico, cui “Il cavallo rosso” appartiene, deve avere un andamento a parabola, un inizio, un culmine ed una fine. I romanzieri moderni iniziano e finiscono quando gli pare, ma non è così nel romanzo classico.”

In quest’ultima frase il suo volto esprimeva tutto il rispetto per il lettore che deve essere introdotto nella narrazione e condotto come un gradito ospite, non catapultato in un rutilante caleidoscopio.

Apprezzai molto questa sua delicatezza perché chi non ha mai incontrato uno di quei romanzi in cui non si riesce ad entrare e ci si sente respinti?

La ghiaia scricchiolava sotto le nostre scarpe, dando un confortevole senso di concretezza.
La ghiaia dà soddisfazione ai passi, non come l’asfalto che resta indifferente alla fatica del cammino.

“Perché quel matrimonio così infelice per Ambrogio?”, continuai.

“Semplicemente perché succede. Un critico letterario calvinista ha osservato che Ambrogio è il personaggio de “Il cavallo rosso” che ha sofferto maggiormente, perché la sua vita non ha conosciuto momenti di grandezza come Manno o Michele. Dopo la campagna di Russia è rimasto bloccato da una lunga convalescenza che gli ha impedito di fare la propria parte continuando a combattere. Successivamente ha rinunciato all’amore per rispetto al cugino Manno, sposando una donna che non ha saputo stargli vicino e ha lottato tutto solo contro la crisi economica dell’industria paterna”. Non ci avevo mai riflettuto.

Queste e tutte le parole di Corti sono state pacate ma decise, ponderate e cariche di quella “pietas” che un uomo di ottant’anni, se ha speso bene la propria esistenza, ha acquisito.

Mi ha colpito la sua modestia e la completa apertura all’altro e, soprattutto, ai disegni che Padreterno ha per ognuno. Egli è stato e continua ad essere un soldato della militia Christi, pronto a mettere a disposizione la propria esperienza, a dare gratuitamente ciò che gratuitamente ha ricevuto.

“Io ho fatto quello che ho potuto. Se Domineddio lo riterrà utile, lo userà.”.

Queste sono state le sue parole di commiato, sintesi di tutta la sua opera, la “ buona battaglia” che ha combattuto e combatte da quella notte di Natale del 1942 in tragica ritirata nel gelo della steppa russa.

“Scriva che le voci come la mia faticano ad arrivare alla ribalta della cultura ufficiale, ma neanche i ragli dell’asino arrivano in cielo. E di asini che ragliano è pieno il mondo. I vate della cultura, aedi del neopaganesimo (che, poi, non è neppure nuovo), lupi gramscianamente camuffati da agnelli, sono ormai allo sfascio come la sinistra che li ha nutriti e convinti di essere qualcuno.

Essi sono niente perché esprimono solo il nulla e il non-senso che hanno dentro. Ma la gente che lavora è ancora in buona parte sana e non si lascerà ingannare ancora per molto”.

Parlare con Corti è facilissimo e difficilissimo insieme.

E’ facilissimo perché ascolta veramente l’interlocutore e non fa pesare la propria autorevolezza,
ma difficilissimo perché egli non ha altro interesse che la verità e ciò è disarmante.

Ha risposto alle mie domande, talora banali, come se nessuno gliele avesse mai poste prima.

Il suo sguardo penetrante, gli occhi di un bell’azzurro che hanno visto ogni sorta di miseria umana erano vivaci e benevoli anche quando mi diceva delle difficoltà incontrate, non in Russia in tempo di guerra, ma nella nostra Italia indifferente e satolla, sprezzante e cieca.

La sua infaticabilità nel combattere me lo ha fatto paragonare a S. Paolo, ma non gliel’ho detto perche si sarebbe schermito abbozzando un sorriso a significare: “Questi giovani esagerano sempre”.

Trascorrendo la giornata in casa Corti, ho toccato con mano il miglior frutto della generazione di cattolici formati da Pio XII e dalla sua mai abbastanza rimpianta Azione Cattolica. Quegli uomini, forti nella fede e pronti al sacrificio, furono capaci, senza clamore, di atti esemplari, come dimostrarono i molti cappellani militari che si spesero totalmente su tutti i fronti della II Guerra Mondiale, e in particolare su quello russo. Corti ne ricorda molti con ammirazione, primo fra tutti don Carlo Gnocchi, vero e grande amico.

“Mi ha sposato lui, sa.”, ha aggiunto con malcelato orgoglio.

Con don Carlo vengono tutti gli altri come don Enelio, don Turla, quelli che fecero ritorno e quelli che, col loro martirio, nell’ineffabile dinamica della comunione dei santi, hanno reso possibile il crollo del comunismo sovietico e la consacrazione della Russia alla Santa Vergine.

Con questi testimoni, che ben meriterebbero gli onori degli altari, Corti ricorda l’ispiratore del personaggio di Manno, un giovane universitario della Cattolica, carismatico trascinatore convinto di essere riservato da Dio a una missione speciale. Egli morirà nella battaglia di Montelungo, nell’inverno ’43, inizio, secondo l’autore, della riedificazione morale dell’Italia.

Sul filo del ricordo dei tanti santi anonimi (per noi, non per Dio) che fiorirono nell’Italia di Pio XII, il tempo trascorse veloce. Sulla Madonnina presso cui la famiglia Corti si riuniva ogni giorno dopo pranzo cominciavano ad allungarsi le ombre del crepuscolo novembrino.

Dovevo riprendere il trenino e avviarmi verso casa.

A presto Eugenio e Almina, pardon, signora Corti!

(di Rita Bettaglio, tratto da Certamen)