Un recensione de Il cavallo rosso
“-Come vi sentite, signor capitano? – Io? Ne ho per poco. […] Se arrivi fuori dillo a mia madre – Signorsì, mi impegno a dirglielo
– Dille che ho fatto il mio dovere, e perciò muoio in pace con gli uomini e con Dio. […] Cosa sono quei musi lunghi ? esclamò ad un tratto il capitano Grandi: Sotto piuttosto, cantate con me f… | attaccò la tremenda canzone alpina del capitano che sta per morire e fa testamento […] Cantavano e piangevano gli alpini valorosi, e e’era nel loro canto paziente tutto lo struggimento della nostra umana impotenza; cantarono anche quando il capitano ormai non canta va più e li accompagnava solo con gli occhi; cessarono di cantare solo quando si resero conto che il capitano Grandi era morto.” (pp. 445-46).
Questo è solo un commovente frammento dello splendido quadro che Eugenio Corti ha saputo dipingere, tratteggiando con potenza e fine sensibilità il periodo di storia italiana che va dal 1940 al 1974, anno del referendum sul divorzio. Non vi è nessuna concessione al sentimentalismo o alla retorica per la freschezza e la ricchezza di un’autentica esperienza di eroismo di cui il popolo italiano è stato capace e di cui l’autore è stato in più occasioni testimone oculare. E opera è coinvolgente per la sua efficacia nel rendere più nei minuti e vivi particolari un’esperienza di vita intensa e drammatica.
Il libro conta quasi mille trecento pagine tutte avvincenti, intrecciate con maestria; la narrazione, piuttosto complessa, perché segue molteplici fili, arricchisce l’esposizione degli eventi mostrandone le molte prospettive attraverso il contatto coi punti di vista dei vari protagonisti. E attenzione rimane sempre desta e il lettore si sente ben guidato dal narratore, al punto che è difficile interrompere la lettura. Si ha così modo di vivere, tra l’altro, l’esperienza di vita quotidiana di un paese della Brianza subito prima della guerra, l’avanzata italiana e poi la tragica ritirata sul fronte russo fino al rientro in patria di uno dei protagonisti, ferito durante la ritirata, il ritorno in patria di un gruppo di militari italiani sfuggiti dall’annientamento delle truppe italo-tedesche in Africa, la tragica esperienza di prigionia in Russia, la ritirata del contingente militare italiano dalla Grecia in seguito all’armistizio, la guerra partigiana, la ricostruzione del dopo guerra e, con un ritmo di narrazione sempre più vorticoso, gli anni sessanta fino, appunto, ai primi anni settanta.
Il testo non è affascinante solo da un punto di vista estetico-letterario, non manca infatti lo spessore di una lucida e profonda riflessione sulla storia e sulla cultura occidentale. Il destino degli uomini si intreccia e si confonde col destino dei popoli ora responsabili ora vittime di tante orribili sofferenze causate, secondo l’autore, dalla perdita del senso di trascendenza. Non si tratta di un giudizio moralistico, calato dall’alto di un paternalismo intellettualistico, perché con semplicità viene ampiamente documentato dai concreti gesti di umanità o, viceversa, di malvagia negazione dell’umano, che rendono il libro ricco di varietà e di equilibrio.
(Gian Paolo Terravecchia, settembre 1997, Le Panarie)