Quei passi dietro la porta a vetri
Poco tempo prima che io venissi spostato in contabilità, fece il suo ingresso in azienda, Eugenio Corti. Era il figlio di Mario, erede di quella famiglia che aveva fatto l’impresa negli anni della guerra.
Avrebbe potuto tenere le redini di un piccolo impero, ma Eugenio era uomo di cultura, un intellettuale dall’indole riflessiva e dalle parole misurate. Il suo unico desiderio era di continuare a scrivere, di chiudersi nel silenzio del suo studio e abbozzare romanzi che, negli anni, sarebbero diventati grandi classici. Il padre non lo capiva.
Pretendeva da lui la gestione degli affari dell’azienda. Come tutti i capitani d’industria di quell’epoca, tradizionalista e reazionario, considerava le lettere una velleità per sfaccendati. Un piacere frivolo. E così lo costringeva a presidiare l’ufficio ogni giorno. Nel 1947 aveva già dato alle stampe il suo primo libro I più non ritornano, storia della disfatta dell’esercito italiano in Russia e della grande ritirata. Nel 1950, uscì I poveri cristi. Questi romanzi gli aveva assicurato un riconoscimento da parte del pubblico e della critica. Le case editrici si preoccupavano di spedirgli nuovi volumi da leggere sperando nelle sue recensioni positive sui giornali con i quali collaborava. Li sfogliava velocemente e poi li regalava a me che amavo leggere e godevo dei suoi insegnamenti, dispensati durante le ore di lavoro.
Avrebbe dovuto essere il mio capo, il capo della contabilità. Di fatto, barricato nel suo studio, trascorreva le giornate a stendere appunti su quello che sarebbe stato il suo capolavoro, Il cavallo rosso, uscito negli anni Ottanta, frutto di una stesura inesausta. La mia scrivania affacciava sulle vetrate opaline della sua stanza. Attraverso il vetro, vedevo l’ombra della sua figura alta e slanciata, il profilo del suo volto scolpito coronato da un pizzetto sempre rasato, muoversi su e giù per il locale.
Camminava. Sentivo i suoi passi ripercuotersi sul pavimento di legno. Camminava sempre. Poi, a intervalli si fermava, tornava al lavoro, prendeva appunti, scriveva le note di un pensiero che gli era balenato in testa e ricominciava a camminare. La sua statura mi incuteva soggezione, come pure la sua eleganza naturale. Era un bell’uomo. Anche da ragazzo era stato un tipo austero. Abitando vicino alla fabbrica, io e miei fratelli ancora bambini venivano arruolati dalla famiglia Corti come battitori nei boschi durante la caccia. Correvamo con lunghi bastoni in mano che picchiavamo sul terreno per stanare la selvaggina. C’era anche lui, più grande di noi e sempre chiuso nel suo riserbo. Tornato da militare si laureò e non più giovane si sposò.
Durante gli anni passati insieme in azienda instaurammo un bel rapporto. Lui sapeva di potersi fidare di me. Quando suo padre gli richiedeva aggiornamenti su commesse e clienti, si precipitava al mio tavolo per raccogliere in fretta il materiale da consegnare. In cambio, mi gratificava con discorsi sulla retorica e la letteratura. Mi parlava del valore poetico dei cosiddetti “caratteri universali”. Era un personaggio straordinario che, nella sua levatura intellettuale, rappresentava tutto il sapore di un’epoca.
Fu lui a consigliarmi, a un certo punto, di iscrivermi all’università per posticipare il servizio militare. Sotto sotto, non voleva che andassi a militare e che interrompessi l’aiuto che potevo offrirgli in azienda. Lo considerai un gesto d’affetto. A modo suo, mi faceva sentire indispensabile. Sembrava che il tempo per lui non passasse mai. Eugenio Corti era rimasto lo stesso. Chino dietro la scrivania, silenzioso ma affabile.
Quando tornai dal servizio militare, lo ritrovai in azienda. E quando presi la decisione di lasciare l’azienda, continuai a frequentarlo nelle serate organizzate dalla sede della Democrazia Cristiana di Besana. Lui, allora era un esponente di spicco della DC. Un uomo di cultura che fungeva da punto di riferimento, personalità trainante per tutti gli iscritti al partito che si riconoscevano nei suoi valori, nella sua statura morale. I suoi gesti erano autorevoli, le sue parole sempre misurate e coerenti. Piaceva a tutti. E io continuavo a rimanere incantato dai suoi atteggiamenti e dal suo pensiero. Proprio come quando da ragazzo lo osservavo di nascosto muoversi dietro i vetri smerigliati dell’ufficio, alla ricerca di idee da trascrivere sulla carta e di nuove storie da raccontare.
Fu lui a propormi di entrare nel consiglio della DC di Besana. Nel 1965 ci furono le elezioni comunali e io accettai di rivestire il ruolo di consigliere e, subito dopo, di assessore alle attività industriali. Lui però ne rimase fuori. Era bravissimo a coordinare le attività degli altri, a stimolarli, ma personalmente preferiva non prendere parte in prima persona al grande gioco della politica.
Era e rimaneva un pensatore libero. Osservava dall’esterno, dispensava strategie, contagiava chiunque con i suoi modi ortodossi, ma si teneva lontano dal fronte. In me vide probabilmente uno spirito più combattente.
Sapeva quanto io fossi caparbio e volitivo. Non sbagliò a spingermi affinché entrassi in giunta. Dopo due anni di assessorato, diventai sindaco in uno dei momenti peggiori, più difficili e drammatici della storia del nostro paese: il Sessantotto.
P. S. (dal libro IL CAVALLO ROSSO pag. 980):
“Uno di loro leader (sempre per esprimerci secondo la terminologia che stava entrando in voga allora) era Saulo, il figlio maggiore dell’autista Celeste. Nessuno in quei giorni si sarebbe immaginato che quel ragazzino magro e volenteroso avrebbe ripetuta la vicenda di Gerardo, creando nel giro di poche decenni un’industria del valore di miliardi e che sarebbe diventato sindaco di Nomana”.
Grazie Eugenio per avermi citato nel tuo capolavoro. La mia grande stima e riconoscenza sarà per sempre nel mio cuore.
(Peppino Crippa, 2021, Il Bresanese)