Il cavallo rosso: libertà e Provvidenza alla prova della storia
Intervento di Giulio Luporini (presidente Associazione Culturale Tu Fortitudo Mea), Besana in Brianza, 11 maggio 2024 – presentazione della mostra Il cavallo rosso di Eugenio Corti: le prove della storia, il lievito della vita
Questo mio intervento ha lo scopo, sulla scia di quanto abbiamo voluto fare con la mostra Il cavallo rosso di Eugenio Corti: le prove della storia, il lievito della vita, di suggerire alcuni spunti, non certo di offrire una trattazione sistematica, per contribuire a ribadire la grandezza di quest’opera e la sua grande attualità. È un romanzo storico ma, soprattutto, è un romanzo che parla dell’uomo cogliendone quelle dimensioni costitutive che sono proprie dell’uomo di ogni epoca.
I grandi temi, filosofici e teologici, della libertà e della Provvidenza non sono sviluppati astrattamente (anche nel senso più nobile della parola) attraverso una trattazione concettuale in modo teorico: sono poche le pagine nelle quali assumono, soprattutto attraverso le riflessioni dei personaggi, un’esposizione di carattere argomentativo. C’è ad esempio quella sorta di digressione rappresentata dalla riflessione fatta tra sé e sé da Manno che, giunto a Milano, a partire dalla circostanza del fortunato passaggio che riesce a trovare per la Brianza, incomincia a ragionare sulla Provvidenza. Ma, come dirò poi, questa pagina che, apparentemente, ad una prima lettura, può sembrare una sorta di “aggiunta filosofica” alla storia, quasi una spiegazione teorica di quanto accade nelle vicende umane e storiche raccontate, non lo è, o almeno non lo è per niente in modo giustapposto. Anche per questo Il cavallo rosso è davvero il capolavoro di Corti, dove questa alchimia perfetta tra narrazione e riflessione storica e filosofica, che non era presente del tutto in alcune opere precedenti, trova la sua piena realizzazione. Certamente vi riesce più di quanto non fosse riuscito a fare nei Poveri cristi, come gli aveva fatto notare anche don Carlo Gnocchi in una lettera del 1951 (anche lo stesso Corti sentirà il bisogno di rivedere e sistemare l’opera, ripubblicandola con il titolo Gli ultimi soldati del Re):
«Questo nuovo libro [I poveri cristi] conferma le tue chiare e singolari doti di narratore e la padronanza ormai scalfita dei tuoi mezzi espressivi e quindi l’avvio a qualche cosa di definitivo che ti auguro di presto concretare. Io però trovo di difficile saldatura e di appesantimento i soverchi pensieri e riflessioni (se pure spesso intelligenti altresì qualche volta ancora troppo scolastici ed a tesi troppo scoperta) di cui hai un poco imbottito il libro».
(Cit. in AA.VV, Il cavallo rosso di Eugenio Corti. Le prove della storia, il lievito della vita, ed. Ares, Milano 2023, p. 40)
Questi temi filosofici e teologici nel Cavallo rosso, invece, emergono dal vivo della narrazione del romanzo che riguarda le vicende storiche di un arco temporale davvero considerevole, una parte importante della storia del Novecento. Siamo, come è riconosciuto da tutti, di fronte a un grade romanzo storico. Il romanzo di Eugenio Corti, Il cavallo rosso, è uno straordinario affresco della storia italiana del Novecento. Innanzitutto della Seconda guerra mondiale, in particolare della ritirata di Russia: Corti vi ha partecipato, ha vissuto in prima persona questa tremenda vicenda, l’ha documentata oltre che nel Cavallo rosso anche nel diario I più non ritornano, titolo che non poteva essere più azzeccato: del XXXV corpo di armata dell’esercito italiano di cui egli faceva parte, dei suoi 30.000 uomini, sopravvissero solo in 4.000. Ma nel Cavallo rosso c’è spazio anche per la guerra di liberazione dal nazifascismo in Italia: anche qui Corti ne è stato protagonista, tornato dalla Russia ha raggiunto nel sud Italia l’esercito di liberazione e ha combattuto (nel romanzo è il personaggio molto importante di Manno che vive questa esperienza). E poi c’è anche il dopoguerra, con la ricostruzione dell’Italia dalle macerie materiali e morali, fino agli anni Settanta, con le nuove tragedie che investono la popolazione italiana.
Ma, grazie al realismo con il quale è costruito tale romanzo, sono singoli uomini, con vicissitudini personalissime e particolari, a fare emergere la trama dei grandi eventi, permettendoci così di immedesimarci in essi e, soprattutto, di cogliere il grande valore della libertà. È la libertà dell’uomo all’origine sia del male, descritto in modo assolutamente crudo nella sua estrema attuazione, sia del bene, così come emerge dalle esperienze di carità che illuminano anche i momenti più bui e orribili, nel corso della guerra o nella vita nei campi di concentramento.
Questa grande attenzione alla libertà e alla sua importanza nella storia è ciò che permette ad Eugenio Corti di non assumere mai una posizione manichea: bene e male non si confondono, soprattutto per i frutti che generano, ma si mescolano tra loro perché nella libertà dell’uomo essi continuamente vengono a sfumare l’uno nell’altro. Il male non scaturisce dalla società, come si è spesso tentati di pensare, ritenendo che basti cambiare la società per riuscire quasi meccanicamente a eliminare il male. È dalla libertà dell’uomo che nasce il male.
Durante l’estate, quando ancora la controffensiva russa non è iniziata e le truppe italiane vivono un momento di tranquillità rispetto alle operazioni belliche, Michele, uno dei principali personaggi del romanzo, contemplando il cielo stellato sopra le sterminate pianure russe, si ferma rapito dalla bellezza del creato e non può fare a meno di contrapporlo all’inferno di cui l’uomo è responsabile sulla terra, quasi presagendo quanto accadrà di lì a breve quando si troverà a lottare per la sopravvivenza:
Nel buio la sterminata volta del cielo incredibilmente zeppa di stelle s’incurvava sul villaggio russo e sull’immensa pianura; l’aria pulita era corsa per ogni dove dal rustico canto delle quaglie. «Com’è bello il creato di Dio» pensò Michele, guardandosi in torno, e inspirò profondamente. «Sì che è bello! Com’è possibile che noi uomini lo trasformiamo puntualmente, ad ogni generazione, in una bolgia?».
(E. Corti, Il cavallo rosso, ed. Ares, Milano 2023, p. 151)
Tuttavia il male può diventare circostanza per l’uomo di crescere perché la libertà dell’uomo può volgersi al bene. Ecco perché nelle prove della storia il lievito della vita può agire e fare crescere l’umanità.
Un romanzo storico e realistico e, forse proprio per questo, davvero capace di fare emergere «quell’infinito mondo di mistero che resta sempre l’uomo», prendendo a prestito le parole di Cornelio Fabro. Cornelio Fabro, il più grande interprete della filosofia dell’esistenza di Kierkegaard, in una lettera, citata nella mostra, scrive a Corti:
Godo che i miei poveri scarabocchi la possano interessare: sono piccole finestre su quell’infinito mondo di mistero che resta sempre l’uomo che Lei ha saputo scandagliare con ben altre dimensioni. Anch’io posso dirle che se avessi potuto conoscere (ma non era ancora scritto) il suo Cavallo rosso al tempo delle mie riflessioni sulla filosofia dell’esistenza, avrei potuto allargare di più il mio orizzonte di osservazione. Ma non smetto di riflettere, vedremo.
(Cit. in AA.VV, Il cavallo rosso di Eugenio Corti. Le prove della storia, il lievito della vita, ed. Ares, Milano 2023, p. 41)
Ecco perché ritengo davvero che libertà e Provvidenza risultino come passati attraverso la prova della storia, offrendo al lettore la possibilità di rivivere e paragonarsi con quelle vicende e di avvertirne l’assoluta attualità per sé. Il filosofo Adriano Bausola, commentando il romanzo, in una delle prime recensioni, parlava di «una sfida inevitabile per il lettore contemporaneo» che, già allora e oggi ancora maggiormente, è lontano da queste prospettive, in quanto, sebbene si parli continuamente di libertà, difficilmente si arriva a coglierne la radice ontologica, banalizzandone, così, il significato. Proprio per questo diventa una sfida determinante per l’oggi e, forse, ciò contribuisce a spiegare il grande successo di questo romanzo: questa sfida, se il lettore è sincero con sé stesso, scriveva sempre Bausola, «lo coinvolge fino in fondo» perché riguarda le dimensioni più profonde dell’essere umano.
Siamo davvero di fronte a un grande romanzo storico, filosofico e contemporaneo e anche per questo Corti è stato paragonato a Solženicyn da Cesare Cavalleri. Tuttavia, credo che possa essere accostato anche a un altro grande scrittore russo del Novecento, Vasilij Grossman, che ha saputo guardare alle vicende del secolo scorso con questo grande respiro. Vorrei soffermarmi su alcune righe tratte da una pagina molto nota di Vita e destino di Grossman per mostrare un possibile parallelismo e da qui provare a fornire qualche ulteriore spunto di riflessione. Parallelismo che mi è suggerito anche dal fatto che la pubblicazione di quest’opera, sebbene fosse stata scritta alla fine degli anni Cinquanta, a causa della censura sovietica, avvenne per la prima volta, in lingua francese, nel 1982 e, in lingua italiana, nel 1984. Quindi proprio nello stesso periodo della prima edizione del Cavallo rosso.
In un lager nazista, nel profondo della notte, il comandante delle SS del campo di concentramento, Liss, convoca uno dei prigionieri, il bolscevico irremovibile Mostovskoj, per un colloquio del tutto inaspettato.
Liss aspettò che Mostovskoj finisse di tossire e disse: «Vorrei scambiare due parole con lei».
«Io no» rispose Mostovskoj.
[…] Lo fece accomodare in poltrona e si sedette accanto a lui. «[…] Desideravo davvero parlare con lei». […] «Quando io e lei ci guardiamo in faccia, non vediamo solo un viso che odiamo. È come se ci guardassimo allo specchio. È questa la tragedia della nostra epoca. […]». Liss avvicinò il viso a quello di Mostovskoj. «Mi segue? Non parlo bene la sua lingua, ma vorrei che mi capisse. Voi credete di odiarci, ma è solo un’impressione: odiando noi odiate voi stessi. Tremendo, vero? Mi capisce?».
[…] Mostovskoj sentì di colpo un’angoscia fortissima. Come una spina conficcata nel cuore. […] Sarebbe stato facile confutare le parole di quell’uomo. Quegli occhi sempre più vicini. Ma c’era qualcosa di ancor più raccapricciante e pericoloso delle parole di un esperto provocatore delle SS. Una corda che vibrava, ora timida, ora maligna, nel cuore e nel cervello di Mostovskoj. I dubbi rivoltanti che già nutriva senza bisogno di parole altrui.
[…] «Due poli! Proprio così! Perché se così non fosse, oggi non combatteremmo questa guerra tremenda. Siamo i vostri peggiori nemici, è vero. Ma se noi vinciamo, vincete anche voi. Mi capisce? E se anche vinceste voi, noi saremmo spacciati, sì, ma continueremmo a vivere nella vostra vittoria. È una sorta di paradosso: se perdiamo la guerra, la vinciamo e ci sviluppiamo in un’altra forma pur conservando la nostra natura».
[…] Mostovskoj non aveva paura delle torture. A spaventarlo, piuttosto, era l’idea che quel tedesco non stesse mentendo, ma dicesse la verità. Che avesse solo voglia di parlare. Orrore: erano entrambi malati, tormentati dalla stessa malattia, però uno resisteva e parlava, mentre l’altro restava in silenzio, si nascondeva. Ma ascoltava, ascoltava eccome. […] Un nuovo pensiero fulminò Mostovskoj. Strizzò addirittura gli occhi, vuoi per una fitta improvvisa, vuoi per sbarazzarsi di quell’idea perniciosa. E se i suoi dubbi non fossero stati segno di debolezza, di scarsa forza, di bieca ambiguità, di stanchezza e sfiducia? Se i dubbi che ogni tanto lo coglievano alla sprovvista, ora timidi, ora maligni, fossero stati proprio quanto di più puro aveva dentro di sé? Lui li soffocava, li respingeva, li odiava. E se invece fossero stati il seme della verità rivoluzionaria? La dinamite della libertà?
(V. GROSSMAN, Vita e destino, Adelphi, Milano 2008, pp. 375-382)
In questa pagina nazismo e comunismo sono presentati come due espressioni diverse della stessa forma totalitaria di Stato, due modalità differenti di realizzazione di un progetto ideologico di trasformazione non solo della società, ma della stessa natura umana. Giudizio che, all’epoca, sia quando Grossman lo scriveva, sia quando fu pubblicato Vita e destino, era considerato un’assurdità, non solo in URSS, ma anche in Italia. SI potrebbe aggiungere che ancora oggi si fatica a vedere questa profonda analogia.
Allo stesso modo molto significative sono anche le pagine del Cavallo rosso nelle quali il caporale Nichiténco racconta le incredibili atrocità subite dalla popolazione russa in epoca staliniana: l’«enorme deportazione dei culàchi», tanto che «non c’era neppure un russo […] che non avesse avuto almeno un famigliare ucciso o deportato dai comunisti»; «il pericolo continuo d’essere portati via dai cechisti» e la conseguente «paura programmata, una mala bestia che da anni accompagnava ogni russo giorno e notte». Tuttavia, il caporale russo, quasi incredulo, perché i russi avrebbero potuto vedere nell’avanzata della Wermacht una possibile occasione di liberazione, denuncia anche le atrocità compiute dai nazisti:
I tedeschi non avevano capito niente, porci e straporci che erano. Avevano un alleato quale migliore non se lo potevano inventare, lo stesso popolo russo, e fin da principio si erano messi anche loro a massacrarlo. A un punto tale che al di qua delle linee la gente non voleva crederci. […] Doveva trattarsi per forza d’invenzioni della propaganda rossa… Col tempo però sempre più gente era affluita da oltre le linee, e tutti, chi più chi meno, ci avevano parlato, e si erano dovuti convincere che una volta tanto la radio e i giornali dicevano il vero.
(E. Corti, Il cavallo rosso, ed. Ares, Milano 2023, p. 258)
Anche qui nazismo e comunismo non si distinguono, soprattutto per gli effetti, per la costruzione di un vero e proprio inferno sulla terra: un male tremendo che sembrerebbe inenarrabile, ma che invece Corti, come anche Grossman, riesce non solo a raccontare, nella sua crudezza e nei suoi aspetti più efferati, ma a mostrarne l’origine nella libertà dell’uomo. L’uomo non solo può rimanere affascinato dal male e liberamente agire di conseguenza, può anche arrivare, attraverso l’ideologia, a legittimarlo e giustificarlo. Secondo Solženicyn tale prospettiva ideologica è ciò che spiega l’elevamento a potenza del numero delle vittime nel corso del Novecento:
Per fare del male l’uomo deve prima sentirlo come bene o come una legittima, assennata azione. La natura dell’uomo è, per fortuna, tale che egli sente il bisogno di cercare una giustificazione delle proprie azioni. Le giustificazioni di Macbeth erano fragili e il rimorso lo uccise. Ma anche Jago è un agnellino: la fantasia e le forze spirituali dei malvagi shakespeariani si limitavano a una decina di cadaveri: perché mancavano di ideologia.
L’ideologia! è lei che offre la giustificazione del male che cerchiamo e la duratura fermezza occorrente al malvagio. Occorre la teoria sociale che permetta di giustificarci di fronte a noi stessi e agli altri, di ascoltare, non rimproveri, non maledizioni, ma lodi e omaggi. […] Grazie all’ideologia è toccato al secolo XX sperimentare una malvagità esercitata su milioni. La malvagità è inconfutabile, non può essere passata sotto silenzio né scansata: come oseremmo insistere che i malvagi non esistono? Chi annientava quei milioni? Senza malvagi non sarebbe esistito l’Arcipelago.
(A. Solzenicyn, Arcipelago Gulag, Mondadori, Milano 1974, vol. I, p. 185)
Corti e Grossman documentano benissimo questo processo: non conta il colore dell’ideologia, nazismo e comunismo sono uguali nel loro potere demoniaco di spingere l’uomo a ribellarsi al bene, a Dio, per un delirio di onnipotenza che lo porta a credere di riuscire in questo modo a realizzarsi, a diventare come Dio, a creare il paradiso in terra che invece diventa inferno. Allora l’incredulità di Mostovskoj è quella di chi non vede il male della propria parte perché ancora convinto della promessa di perfezione che essa porta con sé, ma la realtà, attraverso il dubbio, sta provocando la sua ragione e la sua libertà a misurarsi con la verità. Anche il povero soldato russo, Nichiténco, è incredulo, non riesce a spiegarsi quanto sta accadendo. La strategia tedesca segue la logica dell’ideologia, sebbene non sia ragionevole: neanche aumentare le possibilità di vincere la guerra fa indietreggiare i tedeschi dal mettere in atto quanto previsto dall’ideologia, ovvero la sottomissione di ogni popolazione slava, considerata una razza inferiore, di poco superiore solo a quella ebraica.
I genocidi compiuti non sono soltanto l’esito della brutalità di dittatori spietati come Hitler e Stalin, ma l’inevitabile conseguenza delle ideologie stesse che, una volta applicate, non possono non mostrare il loro carattere disumano e criminale. Entrambe derivano da un lungo processo di secolarizzazione e ateismo secondo il quale, estromettendo Dio dalla società, è possibile trasformare la natura dell’uomo, rendendolo di fatto un mezzo e non più un fine. Si vorrebbe costruire una società perfetta, una specie di paradiso in terra, e per fare questo qualsiasi delitto è giustificato, ma si finisce per costruire un vero e proprio inferno. Nel romanzo è lo scrittore Michele che si prefigge di realizzare un’opera nella quale «far confluire – tramite le vicende, le scoperte, le conversazioni dei personaggi – i fili del processo di scristianizzazione che, iniziatosi ancor prima dell’evo moderno, aveva portato ultimamente ai forni crematori di Auschwitz e al cannibalismo di Crinovaia e degli altri lager (e non solo lager) sovietici».
Anche Pierello, sebbene sia un semplice operaio, capisce bene questa verità profonda, perché la sua mente non è accecata dall’ideologia, anche grazie all’aiuto ricevuto dall’opera educativa della Chiesa, con l’insegnamento di don Mario, parroco del suo paese (espressione particolare di quell’atteggiamento che si ritrova, come viene richiamato in altri passi del romanzo, in tutta la Chiesa dell’epoca a partire dal Magistero di Papa Pio XI, presentato come un vero e proprio antidoto al possibile fascino delle ideologie):
«Lo invase un acutissimo senso di ribellione: che ci aveva a che fare lui con questa guerra di sterminio tra popoli privi di carità, privi di Dio? Gli uni e gli altri avevano respinto Dio – come s’esprimeva don Mario là a Nomana – ed eccone qui i frutti: eccoli, sì, lui li aveva precisamente sotto gli occhi. Doveva decidersi una buona volta a piantare questa gente, gli uni e gli altri, e questi posti. Qui sembrava non esserci, per i tedeschi sconfitti come per i russi vincitori, che la morte: una morte che si riorganizzava continuamente da sé stessa, con un’efficienza diabolica».
(E. Corti, Il cavallo rosso, ed. Ares, Milano 2023, p. 700)
Nell’opera di Corti, tuttavia, non c’è solo la denuncia dell’ideologia e delle sue tremende conseguenze, la condanna del nefasto potere totalitario che porta all’orrore della guerra e dei campi di concentramento, perché la libertà dell’uomo può volgere verso il bene. E Corti vuole documentare tale dinamica.
Nel romanzo c’è anche, proprio insieme, a volte intrecciandosi in modo quasi inestricabile alle situazioni di inferno, l’emergere della carità, come dimensione ultima della vita umana, per la quale il dono di sé diventa il modo con il quale l’uomo si realizza. L’uomo, anche dentro queste tremende situazioni, può fare esperienza del bene, attraverso la gratuità di gesti di carità. Ne sono un esempio l’atteggiamento nei confronti dei soldati italiani della popolazione russa. Sebbene infastidita dalla loro presenza, non manca di aiutarli con i pochi mezzi che hanno a disposizione. In particolare Ambrogio, ferito gravemente, fa esperienza di tale carità attraverso piccoli ma decisivi gesti di solidarietà: l’ospitalità in un rifugio, «un piccolo cuscino di lana colorata» offertogli per appoggiarvi il capo, il cibo. Una gratuità di cui è protagonista lo stesso Michele, il quale, nonostante fosse sfinito a causa delle precedenti azioni belliche, rischiando di perdersi nella neve, affrontando il gelo, esce dal rifugio per recuperare l’acqua per un moribondo assetato, solo «per amore di Cristo». Anche le donne, «ancora cristiane e pietose», che cercano di dare «del pane o qualche patata cotta» ai prigionieri italiani, agiscono secondo una logica diversa da quella disumana della guerra e dell’ideologia. Gli stessi italiani, rinchiusi nel lager74 di Oranchi, mentre venivano condotti ai lavori forzati in una cava, passando «ogni giorno davanti a un lager straordinariamente esteso», di fronte allo «spettacolo delle donne detenute», «più d’uno di loro risparmiava ogni tanto una parte del proprio scarso pane, oppure una patata, e senza farsi scorgere dalle guardie la gettava a quelle poverette». Sono forse le parole di Ambrogio, con le quali commenta l’operato delle suore polacche che accudiscono i feriti italiani, fuggiti dall’inferno russo, nonostante siano alleati dei tedeschi invasori, a esprimere in modo emblematico la risposta al male:
«“Si sono mai viste persone vivere così… fisicamente il Vangelo?” Poco alla volta la sua commozione si trasformò in una sorta d’incontenibile giubilo: perché, guarda, esistevano creature simili sulla terra! “Eccolo il modo di rispondere al male che c’è nel mondo, eccolo, l’ho qui sotto gli occhi.”».
(E. Corti, Il cavallo rosso, ed. Ares, Milano 2023, p. 353)
La libertà però non è quella dell’individuo, concepito astrattamente, da solo, al massimo definita solo in senso negativo dall’esistenza degli altri, secondo la formulazione per la quale la mia libertà finisce dove inizia quella degli altri. La libertà si esprime e si realizza nell’intreccio con le altre libertà: nasce e si realizza dai rapporti e nei rapporti. I personaggi del romanzo sono uomini che appartengono a un popolo e trovano la propria identità e la forza per affrontare le prove, anche le più tremende, nella comune appartenenza a questo popolo. Le famiglie di origine e quelle che si vanno formando, le trame di rapporti di amicizia che vivono in modo intenso i vari personaggi sono la struttura portante dell’intero romanzo.
L’uomo non è quell’individuo astratto, quello esaltato da tanta filosofia e cultura moderna, per il quale il rapporto con gli altri non può che essere originariamente e inevitabilmente conflittuale. L’esperienza dei campi di concentramento, come anche le disumane condizioni della ritirata, sembrano confermare tale prospettiva. Nei campi di concentramento tutto è addirittura pensato, organizzato e realizzato perché i prigionieri siano gli uni contro gli altri. Le pagine nelle quali si arrivano a descrivere gli atti di cannibalismo nel lager di Crinovaia sono un esempio eclatante. Invece, nel romanzo, attraverso gli episodi accennati e tanti altri, si manifesta quella carità che la signora Giulia Riva esprime con la massima «Sèmm (siamo) al mund per vutass (aiutarci), no?», espressione di quella cultura cristiana diventata cultura popolare, radicata nel popolo. Una cultura popolare perché, come dice Bausola, «quello che gli [a Corti] preme soprattutto dirci è che questa concezione non è utopia, che essa è stata vissuta da tanti, in intere società».
Questo giudizio non vale solo per le pagine della guerra ma anche per quelle dedicate alla ricostruzione e alla rinascita dell’Italia perché pure esse sono attraversate dallo stesso dramma personale: vivere cercando di affermare un progetto, per quanto ritenuto e presentato come nobile, tendente a ricondurre a forza la realtà alla misura della propria ideologia; oppure vivere riconoscendo Dio, una dimensione ideale, misteriosa ma reale, senza la quale la ricerca della verità, il desiderio di libertà, di bene e di giustizia diventano pretesa e finiscono per deformarsi e trasformarsi nel loro contrario. In queste pagine la stessa vita della Chiesa è segnata tragicamente dallo stesso rischio: anche gli uomini di Chiesa possono tradire la propria vocazione e cedere anch’essi all’ideologia.
La libertà non solo si intreccia e si realizza proprio nei rapporti con le altre libertà, ma prima ancora è chiamata a riconoscere e a misurarsi con qualcosa di più grande di lei. La vera alternativa all’ideologia è aprirsi al Mistero, che per Corti non è qualcosa di oscuro, ma qualcosa che non si finisce mai di imparare, qualcosa che non può essere ridotto alla misura delle proprie idee. La preghiera ne è l’espressione più bella e commovente che accompagna molti dei protagonisti. Perché questo mistero non è un fato ineludibile ma Qualcuno con cui è possibile entrare in rapporto, Qualcuno che ti vuole bene, che ti ama. Questo rende possibile vedere anche nel nemico, quello contro cui si combatte, colui contro il quale le circostanze storiche ti hanno portato a sparare, un uomo per il quale si può pregare, come fa l’alpino Luca. Molto bello e commuovente anche l’episodio di padre Crosara, il quale salva un soldato russo che la guerra ha ridotto alla disperazione, invitandolo a guardare a Dio:
Da un’isba lì accanto uscì inaspettatamente un soldato russo: era armato soltanto di pugnale, non sembrava avere intenzioni offensive, sedette nella neve contro il muro dell’isba e si cacciò le mani in tasca; forse si considerava prigioniero, pareva sfinito. Arrivarono i primi sbandati, erano ungheresi dai lunghi pastrani, parlottavano tra loro, probabilmente cercavano da mangiare, andarono oltre senza fermarsi. Arrivò anche il cappellano del Tirano padre Crosara, francescano: «Ci sono dei feriti nella tua squadra?» domandò. «Eh» fece Luca, assentendo. «Qualcuno grave, che vuole confessarsi?». «Gravi no» disse Luca «grazie. Però domani bisognerà trovargli un posto sulle slitte». Il cappellano scorse a un tratto il soldato russo e lo fissò sorpreso. Allora il russo tolse le mani di tasca, con la destra sfilò il pugnale dal fodero, e con la sinistra armeggiò al bavero del pastrano per scoprirsi la gola. «No» urlò il cappellano: «Cosa fai? No, no!». Levò in alto il suo Crocifisso e corse verso di lui: «No, non farlo, non farlo!». Il russo lo guardò interdetto, con occhi sfiniti: il cappellano gli afferrò il polso che stringeva il pugnale e agitando con l’altra mano il Crocifisso davanti al suo viso: «Perché ti ammazzi, perché ti ammazzi?» gridava. Finalmente il russo fermò lo sguardo sul Crocifisso, circondò con la propria la mano del frate che lo impugnava, e si tirò il Cristo contro la bocca. Gli alpini guardavano la scena in silenzio; il russo consegnò al frate il pugnale, che venne scagliato il più lontano possibile. «La madre di Dio ti vuol bene» ansimò padre Crosara: «ti vuol bene, hai capito? Dio non è come noi uomini». Il russo, pur senza comprendere le parole, fece con spossatezza segno di sì.
(E. Corti, Il cavallo rosso, ed. Ares, Milano 2023, pp. 380-381)
Non sono i progetti ideologici che consentono all’uomo di realizzarsi, anzi lo condannano all’inferno. L’uomo può sperare solo nella Provvidenza. Ma questo disegno buono di Dio sugli uomini, su ciascun singolo uomo, la Provvidenza, come si realizza? Non senza la risposta dell’uomo, non senza la libertà. La figura di Manno è, forse, la più significativa a questo riguardo. Come accennavo all’inizio, è lui che ragiona intorno al significato della Provvidenza:
In effetti un mezzo sarebbe “molto probabilmente” partito per Sesto entro un’ora; si trattava d’un altro triciclo, anche più sgangherato del precedente e appena requisito: l’insegna del suo ex proprietario, un lattoniere, era ancora visibile sotto una frettolosa mano di vernice. “La Provvidenza” pensò subito il giovane [Manno]: “Guarda, la Provvidenza mi viene incontro”. Non mancò tuttavia di chiedersi se, in così enorme sfacelo, fosse pensabile che la Provvidenza stesse davvero prendendosi cura d’un essere minuscolo come lui, e anzi del suo problema in fondo neppure vitale, di andare in licenza per un giorno… Ricordò quella frase del Vangelo: «Anche i capelli che ciascuno di voi ha sul capo sono contati», e si rispose con convinzione che la Provvidenza stava, né più né meno, prendendosi cura del problema d’un essere minuscolo come lui. Ma dei problemi di tutti gli altri allora, di quelli che erano morti schiacciati, o soffocati nelle cantine, o avevano persa la casa e i beni? […] Doveva dunque rispondersi che, quanto agli altri, la Provvidenza – la quale stava adesso prendendosi cura della sua licenza – aveva invece con indifferenza consentito che fossero uccisi? […] C’era – lui n’era convinto – una Provvidenza (un’azione conservatrice e promotrice di Dio) che presiede alle vicende degli astri e delle galassie (cos’era questo pulviscolo del nostro pianeta terra, se confrontato coi miliardi di miliardi di astri dell’universo?) e presiede anche, sulla terra, alla crescita del singolo filo d’erba e alla sua evoluzione nel corso dei millenni. Soltanto un essere privo d’intelletto potrebbe infatti credere che un organismo così straordinariamente complicato come un filo d’erba (“pensa anche solo alle “memorie” che dentro un minuscolo seme d’erba determinano il suo ordinato sviluppo individuale, e nei millenni l’evoluzione della specie in accordo con l’evoluzione di tutto il creato…”) solo un essere privo d’intelletto potrebbe credere che tutto ciò sia frutto del caos, e non opera di una Intelligenza. E che Intelligenza! Venendo poi agli uomini… Prima d’andare oltre l’ufficiale si chiese se fosse davvero il caso di fare tante riflessioni esistenziali nel mezzo d’una catastrofe come questa, e si rispose che sì: “Forse quando la vicenda che stiamo vivendo è più grande del consueto, o è particolarmente tragica, proprio allora dovremmo rinunciare a riflettere?”. Era dunque arrivato agli uomini. I quali sono gli unici, fra tutti gli esseri creati, che hanno la possibilità d’andare contro l’ordine posto da Dio nel creato: gli uomini sono cioè gli unici esseri veramente liberi, appunto perché sono liberi nei confronti di Dio. Questo stesso disordine, questo enorme disastro che gli stava sotto gli occhi, ne era una dimostrazione. Perché certamente Dio non aveva voluto questo male: bastava pensare alle parole di Cristo e anche solo del Papa, contro la violenza e la guerra. Dio aveva dovuto tollerare, ecco, aveva dovuto permettere questo male, e tutte le altre cattiverie e carognate che gli uomini fanno: e ciò per non andare contro la loro libertà. […] Ricominciamo: c’era la Provvidenza, cioè un’azione conservatrice e promotrice di Dio, nell’esercizio della quale egli si compiace di partecipare con amore anche ai casi delle sue creature più piccole (ai problemi del filo d’erba e al problema della licenza di Manno per esempio – come il giovane avvertiva così bene). E c’era la libertà umana che – unica – può andare contro l’ordine di Dio. Così stando le cose è grazia che al male si connetta la sofferenza, la quale trattiene in qualche modo gli uomini nello scempio ch’essi possono fare del creato e di sé stessi. Rimaneva il fatto che a Milano e altrove non pochi, del tutto innocenti, erano periti. A un tratto Dio non li aveva più protetti né aiutati, non aveva più potuto… Per non opporsi alla libertà dell’uomo, tutto ciò che Dio aveva potuto fare era stato di morire – in Cristo – con loro, innocente con gli innocenti, in modo da accomunare al proprio il loro sacrificio, sublimando quest’ultimo: Cristo e tutti gli innocenti con lui, compensavano il male compiuto dagli altri esseri liberi, in particolare da quelli che non accetterebbero mai di emendarsi… “Può venire per ciascuno l’ora del sacrificio: gli innocenti però non muoiono inutilmente, ecco il punto”; ciò ridava senso alle cose.
(E. Corti, Il cavallo rosso, ed. Ares, Milano 2023, pp. 531-532)
Questa, che può sembrare una riflessione formulata in modo teorico, in realtà diventa poi esperienza concreta, vissuta in prima persona dallo stesso Manno, verificata con il proprio sacrificio, quando, durante la battaglia di Montelungo, viene colpito a morte:
Per lui era venuto il momento di morire, di morire! Qui, col viso contro la roccia, non gli restava altro, nient’altro sulla terra che morire! […] Ansimava. Ciao vita, ciao Colomba, ciao a ogni cosa… No, no, no, non può accadere a me! Non a me! A me no! Sì invece, gli stava accadendo proprio questo. […] Ma allora come avrebbe potuto assolvere il suo compito? Quale compito? Malgrado l’affanno del momento ebbe a un tratto un’illuminazione, anche se, sul principio, molto confusa: la Provvidenza forse l’aveva tenuto in serbo proprio per… per questo? L’aveva destinato a… collaborare all’inizio della risalita, al recupero dell’Italia dalla palude? Nooo… Eppure… Se era così, non gli rimaneva che suggellare la sua opera di trascinatore col sacrificio della giovane vita. Per grazia di Dio lo percepì improvvisamente in modo chiaro, perfetto. Ecco dunque il perché di quella barca pronta per lui in Africa, e poi l’invio in Albania, e… ma allora già da tempo Dio stava predisponendo il recupero dell’Italia! Quanta pena si dava Dio per le cose degli uomini! «Grazie, Signore Iddio» mormorò Manno col suo ultimo fiato «grazie».
(E. Corti, Il cavallo rosso, ed. Ares, Milano 2023, pp. 579-580)
Manno muore e, negli ultimi istanti della sua vita, si abbandona fiducioso a Dio. Il sacrificio viene letto dallo stesso Manno come utile anche alla stessa vita politica e sociale, la rinascita dell’Italia, non però perché realizza un progetto di liberazione ideologico ma perché, come nel suo ragionamento intorno alla Provvidenza aveva già intuito, partecipa alla misteriosa opera di redenzione realizzata attraverso la Croce di Cristo, nella prospettiva della risurrezione.
Quella di Corti è pertanto una lettura della storia del Novecento che io definirei antropologica: al centro vi è l’uomo con la sua domanda di verità. I personaggi, sia quelli storici sia quelli inventati o verosimili, incarnano in modo singolare e realistico, dentro le circostanze della propria esistenza, la domanda di significato sulla propria vita, che non può prescindere dall’interrogarsi sull’origine del male e sulla propria responsabilità, sulla misura da seguire per vivere: quella imposta dal potere dominante o quella di Dio che, cristianamente, prende il nome di Provvidenza. Una lettura antropologica quindi che sfocia inevitabilmente in una prospettiva teologica. Potremmo dire che, come per Augusto del Noce – che lo stesso Corti considerava una delle menti più significative della cultura italiana – anche per lo scrittore la storia del Novecento è una storia filosofica. Certo una filosofia, come per la grande tradizione classica e medioevale, che sfocia naturalmente, con la domanda su Dio, in teologia. Cornelio Fabro considerava, infatti, Il cavallo rosso «un poema spirituale», capace di raccontare la «passione di una umanità cristiana, non prometeica», e lo definiva «il romanzo del trionfo del bene sul male, ma non qui sulla terra […] bensì nella luce eterna di Dio, che non conosce tramonto».
La prospettiva della vita eterna è quella di un compimento, certamente secondo una trasformazione difficilmente immaginabile, di questa vita, non la sua negazione: «Troveremo una felicità duratura: quella che tutti cerchiamo sempre anche qui sulla terra, perché appunto per essa siamo costruiti». Così padre Rodolfo spiega la vita eterna a Gerardo nel Cavallo rosso in pagine toccanti e commoventi nelle quali si afferma la possibilità di ritrovare in Paradiso le persone amate perché l’amore è un bene e in Dio si trova ogni bene. Come ha avuto modo di evidenziare il card. Angelo Scola, proprio commentando le pagine di questo romanzo, l’opera di Corti può aiutare a correggere «l’errore oggi purtroppo assai diffuso anche tra cristiani: separare la vita terrena dalla vita eterna, come se fossero due realtà, mentre sono un’unica cosa».