La dottrina sociale “popolare” nel Cavallo Rosso di Eugenio Corti
A dieci anni dalla morte, ripercorriamo il capolavoro dello scrittore brianzolo facendoci guidare dalle intuizioni del suo amico monsignor Luigi Negri
Il 4 febbraio di quest’anno ricorrono i dieci anni della morte di Eugenio Corti e sono da poco passati i due anni della morte di mons. Luigi Negri (31 dicembre 2021). Erano legati da un’amicizia e da una grande stima reciproca. Dopo essersi incontrati durante la campagna referendaria sul divorzio, hanno poi proseguito insieme, sebbene percorrendo strade diverse, la battaglia che ritenevano necessario combattere, non contro qualcuno o qualcosa, non per affermare un’idea, ma per difendere la possibilità di vivere liberamente il cristianesimo e di comunicarlo a tutti gli uomini.
Uso questo termine “battaglia” così come lo ritroviamo più volte nello scambio epistolare intercorso tra i due. Ad esempio nel breve messaggio di ringraziamento, inviato da Negri allo scrittore brianteo, poco dopo la sua elezione a Vescovo di San Marino-Montefeltro, così si può leggere: «Mio carissimo Eugenio, grazie del tuo ricordo, pieno di verità e di una affezione a me e a quello che il Signore mi ha chiesto. Grazie della tua grande testimonianza […]. Continueremo la battaglia. Più di prima. Ti benedico e mi affido alla tua preghiera» (6 giugno 2005).
Battaglia comune
Una battaglia che ha avuto sicuramente tanti risvolti e, a seconda dei momenti e delle situazioni, forme e connotazioni differenti che qui non possono essere tutte prese in considerazione. Credo però si possa dire che, secondo due prospettive molto distinte, da scrittore appassionato di storia il primo, da teologo e studioso del magistero sociale il secondo, entrambi abbiano “lottato” perché la dottrina sociale della Chiesa potesse essere compresa in modo autentico e diventasse vera guida per l’agire dei cristiani nella società.
Tanti sono gli studi di Negri sul tema ma anche un’opera come il Cavallo rosso può insegnare molto sulla dottrina sociale della Chiesa. Il suo valore letterario è indubbio, così come quello storico. Si potrebbero aggiungere anche significative riflessioni sul suo importante valore filosofico, per la profondità con la quale tematizza i nodi cruciali dell’esistenza umana, basti citare quanto il filosofo Cornelio Fabro scriveva allo stesso Corti, in una lettera del 22 settembre 1986: «Posso dirle che se avessi potuto conoscere (ma non era ancora scritto) il suo Cavallo rosso al tempo delle mie riflessioni sulla filosofia dell’esistenza, avrei potuto allargare di più il mio orizzonte di osservazione». Tuttavia, è un romanzo che, affrontando pagine importantissime della nostra storia, questioni sociali e culturali estremamente nodali, – come ha evidenziato anche la mostra Il Cavallo rosso di Eugenio Corti. Le prove della storia, il lievito della vita, allestita durante la scorsa edizione del Meeting, ora diventata mostra itinerante –, offre un contributo importante in merito alla dottrina sociale ed è su tale aspetto che intendo qui soffermarmi.
Esperienza viva del popolo cristiano
Penso che, per meglio comprendere questo, sia utile fare una premessa che viene proprio dall’insegnamento di mons. Luigi Negri. In tante occasioni, in tanti suoi scritti, egli ha sempre sottolineato l’esistenza di un circolo virtuoso tra la dottrina sociale della Chiesa e l’esperienza viva del popolo cristiano. Secondo lui, non cogliere questo aspetto impedisce di comprenderne a pieno il valore, in qualche modo significa snaturarla:
«Stralciare la dottrina sociale della Chiesa dall’esperienza viva del popolo cristiano significa irrigidirla, farla diventare un’ideologia; un’ideologia analoga a quelle che hanno contrassegnato la modernità, delle quali ne condividerebbe la radicale prospettiva astratta e, soprattutto, l’incapacità di stare al passo coi tempi». Al contrario «la dottrina sociale della Chiesa è stata sempre singolarmente al passo con i tempi, perché ha sempre vissuto una forte circolarità tra teoria e pratica: il Magistero ha sempre illuminato l’agire cristiano, ma la pratica del popolo cristiano ha sempre contribuito ad approfondire e concretizzare l’insegnamento nella vita quotidiana, non smettendo mai di stimolare il Magistero ad aprire nuovi ambiti di riflessione» (Luigi Negri, Per un umanesimo del terzo millennio, ed. Ares).
La dottrina sociale della Chiesa non nasce, infatti, improvvisamente con la Rerum novarum di Leone XIII, ma è l’espressione di un popolo che ha vissuto un’esperienza di comunione, un’esperienza positiva di società, a partire dalla Verità della Rivelazione che ha investito il tempo e la storia, senza cancellare i limiti dell’uomo, ma favorendo la nascita di una umanità nuova, di una società imperfetta (a differenza di tutte le forme di perfettismo tipico delle varie utopie moderne) ma contrassegnata da un rispetto per la persona e per le sue dimensioni fondamentali, prima fra tutte la libertà, che non ha eguali in nessun’altra civiltà.
Contro il progetto totalitario
Di fronte al progetto ateistico di costruzione di una società anticristiana e, inevitabilmente antiumana, sviluppatosi nel corso della modernità, con modalità sempre più radicali e aggressive, come ha spiegato spesso Negri, si è reso sempre più necessario procedere a una rielaborazione teorica dell’esperienza positiva di uomo e di società, maturata lungo i secoli cristiani, giungendo alla formulazione di una vera e propria dottrina. «La Chiesa ha incominciato a definire la dottrina sociale opponendo, a un’antropologia e a una società del potere, un’antropologia e una società della verità» (Luigi Negri, La storia e il cammino della Chiesa. Fondamenti, storia e problemi, ed. Ares).
Dalla Rerum novarum, alla Centesimus annus, fino a documenti più recenti, come la Deus caritas est di Benedetto XVI, per citarne solo alcuni tra quelli che sono spesso stati oggetto di studio approfondito da parte di mons. Negri, si è sviluppata e continua a svilupparsi un patrimonio culturale e teologico fondamentale, utile non solo per i cristiani, ma per tutti gli uomini.
Tuttavia, occorre tenere ben presente che «la Chiesa non ha resistito al progetto totalitario della modernità contrapponendo all’ideologia mondana, nazionalista, materialista, marxista, fascista ecc., un’ideologia di valori religiosi; non ha affermato un’ideologia democratica invece di una totalitaria; un’ideologia umanistica invece di una di carattere rigorosamente scientifico. La Chiesa, fin dai tempi di Gesù, non ha accettato il confronto ideologico, perché ha sempre rappresentato un’alternativa esistenziale. La resistenza all’ideologia è sempre stata la vita del popolo cristiano, che mangia e beve, veglia e dorme non più per sé stesso, ma per il Signore» (Luigi Negri, Il cammino della Chiesa. Fondamenti, storia e problemi, ed. Ares).
Del e per il popolo
Ecco Il cavallo rosso è proprio il racconto di questo popolo. E’ un romanzo popolare perché, allo stesso tempo, é «un romanzo del popolo e un romanzo per il popolo», secondo la formula del professor Lorenzo Ornaghi, intervenuto in un importante convegno di qualche anno fa, dedicato a Corti, “L’eredità lasciata dai padri. Eugenio Corti: un maestro per i nostri giorni”. “Del popolo” perché racconta la vita di un popolo, “per il popolo” perché, oggi più che mai, può risultare uno strumento di educazione del popolo, quasi un’esemplificazione concreta dei molti aspetti, principi, pratiche della dottrina sociale: «un’eccellente convalida storica […] della dottrina sociale della chiesa», prendendo a prestito l’espressione di Michele, personaggio del Cavallo rosso, uno degli alter ego di Corti nel romanzo.
Innanzitutto questo romanzo, attraverso le immagini che ci offre del tessuto sociale dell’Italia, dalla Seconda guerra mondiale fino all’inizio degli anni Settanta, dettaglia e rende in modo concreto e sperimentabile il principio per il quale «la famiglia, comunità di persone, è la prima società umana» (Giovanni Paolo II, Lettera alle famiglie, Gratissimam sane). Non esiste l’individuo astratto, quello esaltato da tanta filosofia e cultura moderna, per il quale il rapporto con gli altri non può che essere originariamente e inevitabilmente conflittuale. Invece, proprio come insegna la dottrina sociale, l’uomo è un animale sociale, la sua natura è originariamente sociale. Pio XII diceva: «Gli individui non ci appaiono slegati tra loro quali granelli di sabbia; ma bensì uniti in organiche, armoniche e mutue relazioni» (Pio XII, Lett. enc. Summi pontificatus). Allo stesso tempo, tutti i principali personaggi del Cavallo rosso hanno una grande dignità personale e ciascuno è chiamato a giocare personalmente la propria libertà, a vivere il dramma dell’esistenza da protagonista, ognuno secondo una strada singolarissima. Essi incarnano quello che Giovanni Paolo II diceva a riguardo dell’uomo quando affermava che, per la sua dignità, non può essere considerato «un semplice elemento e una molecola dell’organismo sociale» (Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus).
L’arte indirizzata a Dio
L’importanza di questa libertà personale può essere compresa meglio prendendo in considerazione il tema dell’educazione, centrale nelle pagine del romanzo ma direi molto sentito da Eugenio Corti anche nella vita. Il popolo cristiano non nasce meccanicamente e non sono le circostanze a definirlo ma l’educazione. Certamente è la famiglia il primo contesto educativo ma non l’unico. Infatti nel libro anche la Chiesa e la scuola, in modo sussidiario alla famiglia, svolgono un ruolo fondamentale. La responsabilità educativa della Chiesa, attraverso le figure e il ruolo dei sacerdoti, nelle pagine del romanzo, emerge nel modo con il quale essa accompagna, sostiene e aiuta l’uomo a stare di fronte alla realtà, nella vita quotidiana come nelle tremende e tragiche esperienze della guerra, dei lager e dei gulag.
C’è una pagina molto bella e straordinaria nella sua semplicità: don Mario, una di queste figure di sacerdoti, invita Manno, uno dei giovani protagonisti, a fare una lezione ai ragazzi dell’oratorio sull’arte, perché, come egli prova a insegnare loro, «l’arte indirizza a Dio» in quanto «è l’universale nel particolare», riesce cioè a esprimere la verità, la bellezza, l’ideale dentro il particolare. Però i ragazzi più piccoli, non impegnati nella lezione, lasciati senza nessuna guida, compiono un’azione malvagia, prima infierendo su un cane e poi tirando i sassi anche contro un pover’uomo che aveva provato a difendere l’animale. Il male è dentro l’uomo, quello stesso male che nelle pagine successive si mostrerà in tutta la sua drammaticità nella guerra, emerge già nell’esperienza apparentemente banale di quei ragazzini. L’educazione serve perché l’uomo impari a rivolgere la propria libertà verso il bene. Manno, quasi a consolare don Mario, infatti, gli dice: «Erano quelli piccoli, non hanno ancora avuto il tempo d’essere educati, di essere formati».
Nazismo anticristiano
Nelle situazioni quotidiane come di fronte alle grandi vicende della storia, la Chiesa, proprio attraverso la dottrina sociale, è chiamata ad aiutare l’uomo a riconoscere quale sia la strada che favorisce davvero il bene comune e lo ha fatto in modo emblematico e profetico davanti alle tragedie dei totalitarismi, tanto che «la sola voce del Papa [Pio XI] ha saputo denunciare lo stato effettivo delle cose prima ancora che degenerassero negli spettacoli atroci dei lager e dei gulag». (Luigi Negri, Per un umanesimo del terzo millennio, ed. Ares).
Senza retorica, ma in modo da farne percepire chiaramente l’importanza, ritroviamo nel Cavallo rosso tale giudizio della Chiesa sulla verità dell’uomo e sulla disumanità dei sistemi totalitari. I giovani, senza un tale aiuto, avrebbero rischiato di essere facili prede della propaganda. Invece, proprio per l’educazione ricevuta, per esempio, Ambrogio e Michele (altri due importanti personaggi del romanzo), sebbene l’ideologia dominante e i successi del momento dei regimi totalitari avrebbero potuto spingerli ad avere una posizione diversa, assumono un atteggiamento di condanna del nazifascismo: «Che il nazismo potesse ora impadronirsi davvero, tutt’a un tratto, dell’Europa – come le sue attuali strepitose vittorie militari facevano temere – era per Ambrogio e per i suoi compagni di scuola, se pur in confuso, una prospettiva così intollerabile che essi non accettavano nemmeno di prenderla in considerazione». Tale rigetto era maturato, sottolinea Corti, grazie al «giudizio ripetuto dal papa Pio XI», «per il quale i nazisti erano da ritenersi veri e propri anticristi».
Operai e padroni
Anche il tema del lavoro può essere riconosciuto come una delle tematiche fondamentali della dottrina sociale che trova una significativa esemplificazione nelle pagine del Cavallo rosso. E’ un romanzo industriale, come lo ha definito lo stesso Corti, non solo perché si raccontano le vicende dei Riva, famiglia di imprenditori tessili, e lo sviluppo della Brianza, ma anche perché viene messo a tema il problema sociale connesso al lavoro in tutte le sue dimensioni. In modo particolare si evidenziano due prospettive per farvi fronte: da una parte quella ideologica, per la quale necessariamente, secondo una lettura marxista, non può esserci soluzione della questione sociale, se non attraverso la lotta di classe; dall’altra invece quella ispirata dal cristianesimo, per la quale solo la cooperazione tra lavoratori e datori di lavoro, solo il riconoscimento della dignità della persona dell’operaio e, quindi, della responsabilità di tutti, possono contribuire a una società più giusta.
A questo riguardo c’è un brano che vale la pena citare per intero, quello nel quale sono gli stessi operai dell’imprenditore Gerardo Riva a ribellarsi alla logica dell’inevitabile lotta di classe propugnata dalla propaganda comunista:
«Una sera davanti alla fabbrica di Gerardo un attivista della “camera del lavoro” d’Incastigo, salito in piedi su un tavolino, invitò gli operai a non votare per il partito cui appartenevano anche i padroni; affermava e ripeteva (in buona fede, essendo marxista) che gli interessi degli uni erano inconciliabili con quelli degli altri: gli riusciva irritante constatare che gli operai pensavano precisamente il contrario. Terminò con grida di “Abbasso i padroni – I padroni a piazzale Loreto” e simili. Un operaio in tuta chiese allora la parola, e balzato a sua volta sul tavolino: “Ho da dire anch’io qualcosa a proposito dei padroni” asserì in dialetto. Era un giovane molto attivo, tornato dalla prigionia in Germania; Luca, ch’era presente, si fece inquieto: possibile che quello avesse abboccato alla propaganda dei rossi?
“Voglio dire una cosa sola” esclamò l’operaio alzando la voce: “quando io stavo in Germania, e la mia famiglia, come voi sapete, s’è trovata nel bisogno, l’aiuto non gliel’hanno dato i sindacati, ma il padrone. Se siamo uomini, queste cose dobbiamo ricordarle” gridò “non dobbiamo dimenticarle”. E dopo essersi guardato attorno alquanto, in attesa di possibili contradditori, balzò giù dal tavolo, mentre parecchi dei presenti convenivano, e anzi qualcuno applaudiva.
“Perché” si fece allora avanti un operaio anziano, rivolgendosi al sindacalista “venite qui a parlare di piazzale Loreto? Perché dovremmo uccidere il padrone o chiunque altro? Sempre di uccidere si deve parlare? Cosa siamo diventati, bestie feroci?”.
Quando Gerardo riseppe, poco più tardi, l’episodio ne rimase toccato; nei giorni seguenti i figli lo udirono ripetere più d’una volta: “Abbiamo degli operai (“delle maestranze” egli diceva) migliori di noi”, e: “Per questa gente dobbiamo trovare il modo di fare di più…”».
Gerardo si preoccupa della propria azienda secondo una prospettiva che rifiuta di considerare il profitto come l’unico criterio da perseguire nell’organizzazione aziendale, anche a costo di sacrificare la vita degli operai. Egli, in altre pagine, a volte suscitando persino la perplessità dei propri familiari, ritiene fondamentale creare nuovi posti di lavoro. Una prospettiva direi generata da un atteggiamento, forse anche diffuso, come poteva accadere nella Brianza dell’epoca, che traduce davvero in pratica, nel concreto della storia, la visione della Rerum Novarum e dei successivi sviluppi della dottrina sociale.
Impegno in politica
Infine, un’ultima considerazione. L’impegno in politica è anch’esso presentato come una prospettiva che non può essere trascurata nella vita del cristiano. Viene così descritto l’impegno dei cattolici nelle battaglie politiche: le elezioni amministrative del 1946, le politiche del 1948 e il Referendum sul divorzio. Sebbene le elezioni siano state un apparente successo, quasi trionfale, per il mondo cattolico, è mostrato, con una certa amarezza, come il processo di secolarizzazione, nei decenni a seguire, si attui inesorabilmente diventando progressivamente sempre più invasivo, favorito soprattutto dalla televisione. Fino ad arrivare a mettere appunto in discussione la famiglia con la negazione del valore del vincolo matrimoniale, generata dal divorzio. La legge crea, infatti, costume di vita contribuendo a sua volta a rafforzare quella nuova mentalità laicista destinata a diventare dominante, sempre più lontana dalla concezione cristiana dell’uomo e della società.
Queste pagine risultano, per tanto, anch’esse particolarmente utili perché mostrano come gli stessi cristiani e la stessa Chiesa, a volte per il quieto vivere, altre per paura, oppure per ignoranza, abbiano rinunciato a farsi sentire o siano finiti per essere influenzati dalle stesse ideologie mondane. Sono pagine molto significative perché aiutano a capire quanto siano importanti la dottrina sociale e una sua adeguata comprensione per impostare correttamente una concezione della società veramente rispettosa della persona umana. In altri termini, aiutano a comprendere quanto possa essere importante la dottrina sociale per non conformarsi alla mentalità del mondo.
Non si è mai arreso
Sebbene la società cristiana, già allora, risultasse profondamente in crisi, tuttavia, non c’è in Corti nessuna forma di rassegnazione. Sono pagine, infatti, dove non prevale il pessimismo o una visione nostalgica del passato, quanto l’importanza di assumere un atteggiamento consapevole, critico nei confronti delle derive nichilistiche della cultura contemporanea, ma al tempo stesso costruttivo e battagliero.
Anche in questo particolare lo spirito di battaglia di Corti, seppure i caratteri e i temperamenti fossero molto diversi, tende a somigliare a quello di mons. Luigi Negri. In un recente convegno, svoltosi in suo onore a San Marino (raccontato su Tempi da Rodolfo Casadei), mons. Giampaolo Crepaldi, Vescovo emerito di Trieste, ha infatti ricordato che Negri «non era un uomo scoraggiato, era un uomo combattivo; non era un uomo che si era arreso, ma continuava ad andare avanti», perché – e questo vale anche per Eugenio Corti – era sostenuto dalla convinzione che Cristo è «ancora in grado di illuminare e animare in senso pieno la presenza e l’azione dei cristiani nella società».
(Giulio Luporini, 04/02/24, Tempi)