Dicembre ’43, l’Italia “d’oro” di Cederle e dei suoi amici
Monte Lungo 1943. La storia di Giuseppe Cederle, celebrata da Corti nel “Cavallo rosso”. Un’Italia che si riscattò combattendo i tedeschi
Nei primi quattro mesi della campagna d’Italia, dal 9 luglio al 9 dicembre 1943, gli Alleati persero 100mila uomini, quasi tutti appartenenti ai reparti combattenti di prima linea. Data la scarsità di risorse era necessario reperire decine di migliaia di combattenti ovunque fossero disponibili ed è questo che rende così particolare la campagna d’Italia nella seconda guerra mondiale: un fronte secondario dove ci si batté con accanimento straordinario e dove furono convogliati reparti provenienti da ogni parte del mondo e, tra questi, cinque divisioni coloniali francesi e due polacche, ricavate, queste ultime, dai fuggiaschi liberati dai sovietici che avevano attraversato l’Asia e l’Europa.
Tuttavia il reparto più prestigioso, il più decorato nella storia dell’esercito americano fu il 442esimo reggimento, interamente composto, salvo gli ufficiali, da cittadini statunitensi di origine giapponese. Erano i Nisei, nome che deriva dall’essere immigrati di seconda generazione, differenziandosi da quelli della prima chiamati Issei. Più di 100mila nippo-americani erano stati rinchiusi in campi di concentramento, in base a provvedimenti dettati dall’isteria del dopo Pearl Harbor e da un razzismo inveterato. Nella guarnigione delle Hawaii, invece, erano presenti molti soldati di origine giapponese e, in base alle leggi contro la discriminazione, non si poteva trattare un militare diversamente da un altro. Per molti mesi i Nisei cercarono di costituire un reparto combattente e ci riuscirono nell’estate del 1943, quando vennero assegnati alla 34esima divisione americana Red Bull. I nippo-americani divennero subito popolari per la loro abilità nel gioco del baseball e i loro lanciatori si rivelarono di efficacia letale quando iniziarono a tirare bombe a mano sulle postazioni tedesche. Si provi a immaginare una carica alla baionetta di questi nippo-americani che gridavano “Banzai!” sostenuta dalla potenza di fuoco alleata e si comprenderà perché il valore dei Nisei è diventato leggenda.
Il compito che toccava alla V armata era davvero improbo. Era, innanzitutto, necessario occupare Monte Camino e le altre quote che dominavano la via Casilina; secondariamente bisognava occupare il Monte Sammucro e solo allora sarebbe stato possibile marciare verso Cassino, la chiave di tutta la Linea Gustav. Fu qui che gli americani si imbatterono in un nemico inatteso: un reparto italiano, nato dalle ceneri dell’8 settembre. Il suo comandante, tenente Rino Cozzarini, al momento dell’armistizio aveva radunato centinaia di soldati sbandati, inquadrandoli in un battaglione e riportandoli al fronte. Il 30 ottobre il reparto italiano andò all’attacco di Monte Massico. Gli italiani si batterono con slancio epico e, pur perdendo 200 uomini, inflissero dure perdite agli americani. Cozzarini fu decorato con la croce di ferro tedesca e morì nei pressi di Monte Lungo il 10 novembre successivo.
Ma anche altri italiani, dall’altra parte del fronte, stavano per entrare in linea. Erano “Gli ultimi soldati del re”, riprendendo il titolo di un libro autobiografico di Eugenio Corti. Era il Primo Raggruppamento Motorizzato: circa 5mila uomini, inquadrati nel 67esimo reggimento di fanteria, nel 51esimo battaglione d’istruzione allievi ufficiali bersaglieri e nell’11esimo gruppo d’artiglieria. A questi si aggiungevano reparti minori e servizi. Questa unità, armata con il solito materiale italiano alquanto scadente, aveva dimostrato entusiasmo e volontà di combattere e un addestramento non sufficiente per gli standard americani. Va aggiunto che la propaganda repubblicana in Irpinia, guidata da un giovane universitario, quell’Antonio Maccanico che sarebbe diventato uno dei personaggi politici più importanti della Prima Repubblica, negava dignità e legittimazione a quei giovani che erano destinati ad andare in prima linea di lì a pochi giorni. Numerosi avellinesi incoraggiavano i soldati a disertare e la tensione arrivò al punto di provocare scontri di piazza tra militari e civili.
Giuseppe Cederle
Se questa era la situazione sul fronte interno si può immaginare quale sforzo abbiano fatto quei 5mila giovani per andare all’assalto di postazioni presidiate dai tedeschi. Tra essi c’era un giovane ufficiale, Giuseppe Cederle, nato a Montebello Vicentino il 16 agosto 1918. Ottimo studente, portato al lavoro di educatore dei giovani, avrebbe voluto diventare sacerdote, ma la guerra non glielo permise. Fu invece l’occasione per condurre un vero e proprio apostolato in un mondo difficile come quello militare dove la bestemmia e la pornografia erano diffuse ovunque. Un’anima pura come Giuseppe ben difficilmente poteva adattarsi a un clima da caserma. Eppure Cederle continuò la sua opera educativa portando una trentina di allievi ufficiali all’adorazione del Santissimo Sacramento. Il 6 dicembre tutti i reparti del Primo Raggruppamento Motorizzato, dopo giorni di marcia nel fango, giunsero ai posti assegnati per l’imminente offensiva. Il loro obiettivo era Monte Lungo, situato, con Monte Rotondo, fra Monte Maggiore e il Sammucro. Le notizie ricevute dagli americani circa entità e piazzamento delle forze tedesche erano del tutto vaghe e il tiro dell’artiglieria non centrò le postazioni tedesche che rimasero intatte.
Alle 6.20, mille italiani andarono all’attacco, approfittando della copertura offerta dalla stessa nebbia che aveva ostacolato il tiro delle artiglierie. Inerpicandosi sulle pendici del monte giunsero a quota 253, all’estremità sud di Monte Lungo. Ora dovevano scendere lungo il crinale del monte e prendere quota 343; fu quello il momento in cui le mitragliatrici tedesche aprirono il fuoco, falciando i nostri uomini a dozzine. Giuseppe Cederle guidava un plotone di esploratori fino a quota 343. Poco prima di attaccare aveva detto ai suoi: “Animo, animo ragazzi. Prima di pigliar contatto con il nemico, attingiamo alla nostra fede la forza e il coraggio per essere i degni figli e gli strenui difensori d’Italia. Su, facciamoci tutti il santo segno della croce e recitiamo tutti insieme l’Ave Maria”. Cederle prese a correre sulle rocce del Monte Lungo all’attacco delle forze tedesche. Il sottotenente avanzava sotto il tiro nemico ma, durante l’assalto, fu colpito dall’esplosione di una granata. Cadde a terra e, alzatosi ancora tramortito, si rese conto di aver perso il braccio destro. Passò qualche istante, poi il giovane raccolse le forze e immediatamente riprese ad incitare i compagni, urlando: “Ho dato un braccio alla Patria. Non importa, avanti per l’onore dell’Italia!”. Con il braccio sinistro tirò fuori dalla sua giubba un tricolore e fece per lanciarsi di nuovo in avanti, quando venne falciato da una sventagliata di mitragliatrice.
La battaglia di Monte Lungo si concluse quella sera. Alla fine, vennero contati 47 caduti, 151 dispersi e 100 feriti, tutti tra la fanteria combattente. Il danno maggiore non venne dalle perdite subìte, sia pur gravi, ma dal crollo della fiducia nei propri mezzi. Il 15 dicembre, tuttavia l’offensiva riprese. Alle 9.15 gli italiani andarono nuovamente all’attacco a Monte Lungo e questa volta raggiunsero e conquistarono quota 343. Con la conquista di Monte Lungo tutto il sistema difensivo della Linea Bernhard venne scompaginato e distrutto. A Cederle, il cui corpo riposa nel Sacrario militare di Mignano Monte Lungo, fu concessa la medaglia d’oro al valor militare, la prima della guerra di liberazione.
Il cavallo rosso
La nobile figura di Cederle ha ispirato Eugenio Corti per quello che è uno dei personaggi più belli del Cavallo rosso e cioè Manno. In una delle pagine più epiche e commoventi del Guerra e pace italiano, Corti così descrive la morte di Manno, ferito a entrambe le mani durante l’assalto a quota 343.
“Su di giri” l’incoraggiò Manno; e volgendosi anche agli altri a portata di voce: “Non possiamo lasciare le cose a mezzo. Dobbiamo dare la prova che siamo decisi a riscattarci, a uscire dalla palude, non dimenticatelo”. A tali parole l’allievo, emozionato, mormorò qualcosa. “Cos’hai detto?” gli chiese Manno. “Ho detto” rispose quello “che voi per noi siete come una bandiera” (….) S’udì l’ordine di ‘fuori!’. Il tenente lo ripeté con forza e si buttò avanti, con le mani fasciate protese come quelle di un pugile; tutti gli altri dietro, mentre intorno e in mezzo a loro ricominciava il finimondo. Presero a correre su per la salita rocciosa come pazzi, come invasati: dov’erano quelle maledette postazioni tedesche? Dov’erano? Uno, due ragazzi caddero. Altri, pur indenni, si buttarono a terra terrorizzati, uno batteva letteralmente i denti per la paura. “Avanti, cosa fai lì? Su in piedi. Avanti. Avanti”. Gli allievi correvano sparando disordinatamente coi mitra, gridavano: “Savoia! Savoia!”; Manno correva tra i primi, protendendo le mani fasciate: “Italia” urlava con quanta voce aveva in corpo: “Italia! Italia!”. Cadde improvvisamente in avanti, urtò col frontale dell’elmetto contro il suolo roccioso, quelli che gli erano più vicini udirono distintamente il cozzo del metallo, ma in quell’inferno non si fermarono.
Aveva perso coscienza. La riprese dopo poco (…). Andava perdendo rapidamente sangue, se lo sentiva per tutto il corpo. “Una raffica” realizzò “è stata una raffica. Dio! Dio!”. Per lui era finita, non aveva più scampo (…). Che cosa orrenda, inammissibile! Ma dov’erano adesso i suoi? La buriana tremenda continuava, gli parve di sentirli gridare poco più avanti (…) Però a lui cosa importava ormai? Per lui era venuto il momento di morire, di morire! (…). No, no, no, non può accadere a me! Non a me! A me no! Sì invece, gli stava accadendo proprio questo. Tanti e tanti altri soldati erano morti, e adesso toccava a lui. Ma allora come avrebbe potuto assolvere il suo compito? Quale compito? Malgrado l’affanno del momento ebbe a un tratto un’illuminazione, anche se, sul principio, molto confusa: la Provvidenza forse l’aveva tenuto in serbo proprio per… per questo? L’aveva destinato a… collaborare all’inizio della risalita, al recupero dell’Italia dalla palude? Nooo… Eppure… Se era così, non gli rimaneva che suggellare la sua opera di trascinatore col sacrificio della giovane vita. Per grazia di Dio lo percepì improvvisamente in modo chiaro, perfetto. … Ma allora già da tempo Dio stava predisponendo il recupero dell’Italia! Quanta pena si dava Dio per le cose degli uomini! “Grazie, Signore Iddio” mormorò Manno col suo ultimo fiato “grazie”.
Sentì, non con l’orecchio della carne ormai, ma coi sensi dello spirito, un principio di fruscio: gli tornarono in mente, come da molto lontano, le parole dell’allievo: “La bandiera!”. Spalancò gli occhi dello spirito per vederla: ma non era la bandiera che frusciava, erano le ali del suo angelo: lo vide in faccia per la prima volta e gli sorrise, mentre intorno a lui si produceva il grande capovolgimento”.
(Alberto Leoni, 04/12/23, Il Sussidiario)