Una ritirata d’uomini e animali

Il Medioevo e altri raccontiEstate, autunno, inverno 1942 in Ucraina e poi più oltre, nelle terre dei Cosacchi in riva al Don: la nostra ultima interminabile avanzata, la ritirata tremenda. Noto che talvolta non io soltanto, ma tutti noi sopravvissuti li riandiamo in cuor nostro quei giorni. Specie d’inverno: quando più intenso è il freddo e anche nelle nostre contrade la terra, coperta di neve e ghiaccio, è spazzata dal gelido vento del nord, ci capita di fermarci a osservare.

Arrestiamo magari la macchina lungo una strada di campagna, guardiamo la neve, gli alberi spogli che conducono anche qui la loro dura lotta col gelo, senza che nessuno se ne curi. Ringraziamo Iddio d’avere a disposizione una casa riscaldata. Per la notte un letto con vere coperte, soffici, di lana: non un’unica copertina da campo di tessuto misto che il gelo dei trenta gradi sotto zero e la polvere di neve trasformavano in lamiera, e noi rannicchiati al piede di un albero o d’un povero muro, ce la stringevamo addosso, e sotto di essa battevamo i denti.

Non solo uomini
Il nostro è un ricordo soprattutto d’uomini e di fatti d’uomini, si capisce; anche gli sterminati paesaggi entrano nel ricordo quasi solo in funzione degli uomini: per gli animali, si direbbe, non c’è posto. Eppure nel corso di quelle vicende avemmo intorno anche animali: me l’hanno rammentato i boschi di Lesnoje, di cui ho parlato nel precedente racconto.

Là c’erano molti verdoni: in quella posizione, prima dell’avanzata, erano loro a destarci nei luminosi mattini di luglio, salutando coralmente il sole nuovo dalle vette degli alberi sopra le nostre tende e baracche. (“Svegliasi Evandro – al mattutino canto degli uccelli” pensavo allora, fresco di studi virgiliani, ragazzo com’ero.) È un ricordo minore questo dei verdoni: ma, partendone, rifletto che altre voci d’animali avemmo intorno, diversi altri casi; anzi rifletto con sorpresa che non furono pochi.

Anzitutto le quaglie. Non ci fu giorno, non una notte durante l’incessante avanzata che ci portò quasi al Volga, quasi in capo al mondo, in cui non giungesse alle nostre orecchie il rustico canto delle quaglie. Alle immense distese coltivate a grano e a girasole erano seguite senza soluzione di continuità distese parimente immense ma più selvatiche, in cui alle coltivazioni s’alternava a volte la steppa erbosa, incoltivata. Il cielo s’incurvava infinito, non disegnato se non raramente da nuvole, sulla terra infinita: e tra cielo e terra andava e veniva giorno e notte, interminabilmente, il canto sempre uguale delle quaglie, voce di quel sapore d’ignoto che avevamo intorno.

Non sempre incontravamo boschi in cui accamparci per la notte. In Ucraina i boschi crescono quasi solo sui terreni in declivio: dove c’è un brusco avallamento, ivi c’è anche un bosco, e s’estende esattamente sull’avallamento e non più in là: ogni paesaggio con declivi si trasforma così in una sorta di carta topografica a colori, richiama, voglio dire, le carte militari russe sulle quali i boschi sono appunto segnati con macchie color verde intenso. Ma infrequentemente il terreno è mosso in Ucraina: perciò a volte, la sera, parcavamo gli autocarri, trattori, cannoni della batteria nell’erba a lato della pista polverosa, alzavamo qualche tenda; due sentinelle si disponevano a vegliare il sonno di tutti, passeggiando fianco a fianco lungo l’accampamento, il moschetto con la baionetta inastata alla spalla.

Bestiole curiose
Le quaglie (mai che se ne mostrasse una) cantavano e cantavano tutt’intorno, vicino e lontano, e in quell’ora solitaria ci facevano compagnia e c’invitavano al sonno.

Scoprimmo che son bestiole curiose: spesso infatti qualcuna s’avvicinava all’accampamento, a quell’intrusione nell’ambiente che noi costituivamo; affatto invisibile, si avvicinava poco alla volta sempre di più, forse voleva saggiare le ruote degli autocarri infossate nell’erba, tentare col becco il lembo di qualche tenda, finché magari capitava tra i piedi d’una sentinella: allora, per non essere travolta, scattava in volo con un frullo improvviso, singolarmente rumoroso nella notte, facendo fare alla sentinella un balzo indietro; si tirava al seguito qualche imprecazione, poi qualche risata. (Nelle tende noi sentivamo le prime, e tendevamo l’orecchio, poi le seconde e ci rilassavamo.)

Nella seconda posizione sul Don (ci eravamo spostati di furia dalla prima posizione a que- sta per un’improvvisa infiltrazione nemica: quella che fu poi contenuta dalla famosa carica del Savoia Cavalleria a Isbuscenshij, e anche – in minor parte – dal fuoco di sbarramento delle nostre artiglierie trasferite urgentemente sui due bordi della falla), nella seconda posizione sul Don, dicevo, avemmo come vicino un criceto.

Non ci sono solo le grandi vicende, le battaglie, le fatiche tremende nella vita del soldato: passati i giorni di fuoco tambureggiante coi pezzi che arrivavano a sparare, contro ogni regola, addirittura l’uno al di sopra dell’altro, tanto ampio s’era fatto il settore di tiro, sopravvenne la stasi, per noi l’ozio. Ci guardavamo intorno pigramente: lo schieramento della batteria era a cavallo di un campo di grano non mietuto e della steppa: il criceto aveva la sua tana a un tiro di sasso dalle nostre tende, nella steppa d’erbe rade, irte. Da principio lo scambiammo per un grosso topo (ignoravamo l’esistenza della sua specie), ciononostante nessuno gli tirò un colpo di moschetto, perché aveva una simpatica abitudine: se qualcosa lo insospettiva, sedeva sulle zampe posteriori e rizzando quanto più poteva il tronco, le zampine anteriori protese in avanti, guardava alla fonte dei suoi sospetti: insomma – come dicevano i soldati – «faceva l’ometto».

Molti si divertivano a farglielo fare apposta, battendo ripetutamente un piede sul terreno, o fischiando verso di lui, oppure gridandogli: «Recluta!» «Macaco!», e sempre lui si rizzava in quella bizzarra postura, tanto che divenne un’inflazione. Se sparavamo coi cannoni invece, al primo colpo, vibrando la terra come sotto un’enorme mazzata, il presunto topo si buttava a capofitto nella sua tana: «Come noi quando saltiamo nelle postazioni», eh?» dicevano compiaciuti i soldati (quelli che avevano il tempo di badargli), e non ne faceva capolino che dopo, ben dopo, cessato il fuoco.

Oltre che per questi motivi, per un altro nessuno gli sparò quando ancora lo ritenevamo un topo: per quella distesa immensa di spighe di grano che si piegavano non mietute verso terra, e s’avviavano a marcire: ci faceva confusamente piacere che qualche creatura, almeno quel grosso topo, vi attingesse contro la fame. La bestiola in effetti v’attingeva abbondantemente, riempiendosi di frumento le guance fino a farle scoppiare, e portava la sua piccola messe con frequenti viaggi alla tana, certo per ammucchiarvi la scorta invernale: dal che ci rendemmo conto definitivamente che non era un topo. Ciascuno disse allora la sua: prevalse l’errata opinione che fosse una “marmotta di pianura”; la definizione era suggestiva e finimmo con l’adottarla. Tanto è vero che gli uomini si fermano volentieri alla superficie delle cose e, quand’è appena un po’ suggestiva, perfino delle parole.

Noi e le costellazioni
Poi venne l’autunno. Al criceto nessuno faceva più caso. Sullo sterminato paesaggio, piatto tutt’intorno, a basse ondulazioni solo verso il Don (lontano, in una concavità del terreno, si scorgeva un tratto ceruleo del fiume) il sole picchiava sempre meno. La sera dal rettilineo orizzonte di sud-est salivano lentamente a screziare il cielo notturno costellazioni nuove, diverse da quelle estive. Stravaganti costellazioni (ma da troppo tempo noi non abbiamo più familiarità con le stelle) che ci davano a volte un sottile senso di sgomento.

Vennero i primi giorni di vento, soffiava dal Volga, dalla Siberia, noi scavammo all’interno delle tende, così da spostare in basso, fuori della sua portata, i nostri giacigli. Una notte, improvvisamente, si aggiunse al rumore del vento un indistinto clamore, dapprima lontano. Chi di noi non dormiva, tese l’orecchio, trattenne il respiro a meglio ascoltare: il clamore aumentò, infine ci passò sopra e poi si spense. Non sapevo proprio a cosa attribuirlo; più tardi nella notte, e con lo stesso andamento, quel singolare strepito si ripeté: proveniva, mi spiegai finalmente, da schiere di anitre migranti.

Gli animali partivano, se ne andavano… Ma perché gridavano tanto? Tre giorni e tre notti durò il passo delle anitre: infine si fece esiguo, passarono le ultime sparute schiere, sempre a forma di V o in riga obliqua, e tutte passandoci sopra gridavano: sembrava salutassero sgraziatamente noi che restavamo.

Quindi fu la volta dei ragni: una migrazione dei ragni davvero non me la sarei aspettata. Cominciai a notare delle ragnatele su ogni cosa che sporgesse dal terreno: sulle reti mimetiche dei pezzi, sui fili delle nostre linee telefoniche, sugli irregolari pali e paletti che le reggevano, sulle erbacce più alte, sulle spighe di grano che ancora non s’erano piegate. Innumerevoli erano quelle ragnatele, e di giorno in giorno, si sarebbe detto d’ora in ora, aumentavano. Che fenomeno era mai questo?

Una notte di plenilunio
Potei spiegarmelo durante un’ispezione notturna alle sentinelle (uno dei miei compiti, e non sgradito: un’occasione per scambiare qualche frase meno convenzionale coi soldati). Era una notte di plenilunio; uscito dalla tenda alzai gli occhi verso l’alto: per la luce della luna le costellazioni quasi non si vedevano.

Mi apparve invece uno spettacolo nuovo, inusitato: miriadi e miriadi di fili di ragno, non più lunghi d’un braccio e resi argentei dalla luna, navigavano paralleli nell’aria, tenui, portati dalla brezza. Sopra ogni filo navigava un minuscolo ragno. A quel modo, che a me sembrava, e mi sembra, tanto precario, la minima creatura eseguiva la sua migrazione: verso quali luoghi? Abbandonava comunque quella terra dall’inverno tanto inclemente.

In ottobre fummo trasferiti più ad ovest: i rifugi che con intenso lavoro ci eravamo preparati per l’inverno, passarono ad altri. Ci ritrovammo in un grande bosco (la nostra terza posizione sul Don, l’ultima), in cui gli alberi stavano perdendo le foglie. Foglie dai colori malinconici: il giallo, il ruggine, il rosso delicato: sembravano cadere con rimpianto.

Affrontammo coi picconi il terreno per scavarci nuovi ricoveri, da un giorno all’altro il gelo si avventò su di noi, la punta dei picconi cominciò a rimbalzare sulla terra ghiacciata come su pietra, il loro manico ci si spezzava frequentemente tra le mani: dovemmo costituire una squadra che non lavorasse ad altro che a preparare nuovi manici per i picconi.

Come Dio volle le buche furono pronte: le coprimmo con tronchi e tronchetti d’albero, sopra di questi i rami tagliati, sopra i rami uno strato di paglia ancora munita della spiga di grano (andammo a prenderla con gli autocarri in un campo sul quale dall’estate erano rimasti i covoni mietuti, abbandonati). Sopra la paglia accumulammo la terra, e su questa – era ormai novembre – venne a posarsi la neve.

Topi da compagnia
Il grano mescolato alla paglia attirò le arvicole: i piccoli topi di campo, lindi e puliti per fortuna, agresti, non schifosi come i nostri topi di fogna. Ne convennero in numero sempre maggiore: la superficie della neve intorno ai ricoveri era disseminata delle loro caratteristiche orme e tutte dirette in un senso, verso i ricoveri, non una in senso inverso. Presto in ogni ricovero ci furono dieci, venti, trenta topi agresti per ogni soldato; stavano sopra le nostre teste, nello strato di paglia, squittivano con letizia o con ira, vi si muovevano, facendo spesso sfarinare la terra su di noi.

Dovevamo tenere il pane chiuso nelle gavette, perché le arvicole scendevano a mangiarlo: non erano aggressive, anzi paurose, ma attirate dall’odore del pane, nelle loro ricerche ci passavano sulle coperte e durante la notte anche sulla faccia. «E pensare che a casa davo un calcio al gatto quando mi veniva tra i piedi» si pentiva qualche soldato. Finimmo col rassegnarci alla compagnia delle arvicole.

Fuori dei ricoveri ogni cosa era ormai irrigidita dal gran gelo, i rami spogli degli alberi erano coperti di brina, tutti gli animali se n’erano andati o stavano rintanati nei loro rifugi invernali: solo qualche gazza dalla lunga coda era rimasta in giro, e svolazzava gracchiando per l’accampamento in attesa dei rifiuti della cucina. Vi balzava sopra non appena i cucinieri li mettevan fuori, perché in pochi minuti il gelo li avrebbe resi duri come pietra. Allora sì che le gazze si lamentavano! Arruffavano le piume, insistevano a colpire il mucchio gelato col becco, finalmente volavano su qualche ramo, in attesa – lunga attesa in quel freddo – del rancio successivo.

Durante la ritirata non avemmo a che fare con animali selvatici (non avremmo comunque avuto tempo per loro), ma con quelli domestici: i cavalli e i muli che marciavano freneticamente con noi, nelle nostre colonne tutte appiedate per mancanza di benzina. Tiravano le slitte cariche di feriti, o portavano i feriti sul dorso: anche due ciascuno i muli più forti. Era entrata in loro una sorta di compartecipazione alla nostra fatica, al nostro dramma.

Non dimenticherò mai i due cavalli spettrali attaccati alla slitta ferma prima di Ticho Surashaja, ne ho già scritto altrove: dalla slitta i feriti imploravano il conducente di non abbandonarli, il conducente si sforzava di far ripartire i cavalli, ne tirava uno per la cavezza: dei due scheletrici cavalli dal pelame incrostato di ghiaccio, uno sembrava sul punto di cadere, agonizzava in piedi, gli occhi, nella povera testa affranta, esprimevano un affanno inenarrabile; l’altro, quello sollecitato dal conducente, tentava invano di ripartire con sforzi disperati e illusori. Noi passavamo, molti cercavano di non guardarli, li lasciammo indietro…

E l’enorme mulo che salvò la vita al mio amico tenente medico la notte che entrammo in Cercovo? Quasi tutti gli altri muli e cavalli ormai erano morti: di piombo o schegge, o freddo e fame, ma soprattutto di fatica; solo i più forti marciavano ancora con noi, con le nostre frenetiche schiere sempre più ridotte. Quella notte il termometro toccò i 47 gradi sotto zero, il vento c’investiva da destra, avevamo l’intero fianco destro coperto di ghiaccio, anche il mulo aveva il grande fianco destro peloso coperto di ghiaccio; m’era riuscito di far salire il mio amico dietro un altro ferito che già stava sul mulo, a volte l’ani- male, nel procedere, barcollava.

Compagno fedele
Io mi tenevo alla sua sinistra perché mi riparasse un po’ dal vento, mi sembrava d’essere vile, a farmi in quel modo aiutare anch’io dalla povera bestia; il conducente la incalzava a procedere: guai se l’animale si fosse fermato, impuntato come fanno talvolta i muli: i due uomini ch’egli portava non sarebbero scampati alla morte. Il mulo non si fermò, al contrario: estenuato com’era, sembrava conscio quanto noi dell’importanza del suo sforzo, era un animale fedele, non venne meno al suo compito.