L’opera di Corti, scrittore per vocazione
Eugenio Corti voleva essere scrittore. Già da studente avvertiva d’avere una missione da compiere. Allora non gli era chiara quale potesse essere, ma era certo che la storia e la Provvidenza gliela avrebbero indicata. Ecco subito evidenti la personalità dell’uomo e la sua fede. Nel diario in cui era solito appuntare ricordi, riflessioni, confidenze, il 16 febbraio 1941, all’età di vent’anni, scrive: “Fin da fanciullo, posso dire, ho sempre avuto il desiderio di scrivere qualcosa. Era un desiderio indefinito: ma in questi ultimi anni, esso è venuto acquistando caratteri ben determinati, specie dopo che mi sono convinto che quello dello scrivere è lo scopo della mia vita”.
Nel libro postumo Il ricordo diventa poesia. Dai Diari, 1940-1948 (Ares 2017) che raccoglie pagine inedite si possono conoscere le scelte compiute, le letture fatte, il metodo di lavoro che il giovane Corti intraprese per la sua formazione di scrittore. In quei numerosi quaderni, finora ignoti e tutti da studiare, si trovano anche le ragioni della passione per la Russia e i motivi. della decisione di partire per il fronte a qualsiasi condizione. Quando era in terza liceo, il 20 aprile 1939, annotò in una pagina: “Oggi non ho fatto che rileggere il romanzo di Rachmanowa: Studenti, Amore, Ceka e morte. È il diario di una studentessa russa al tempo della Rivoluzione: è di una potenza enorme e permeato di finezze psicologiche che fanno rimanere meravigliati. Perbacco! Verrebbe la voglia di dedicarsi addirittura a un movimento anticomunista. Se fosse successa la stessa cosa in Italia?”.
È il primo incontro con la Russia uscita dal 1917 e agli inizi del comunismo. La negazione della libertà, le violenze e l’impronta totalitaria impressionano il giovane che, una volta militare, vorrà andare a combattere proprio sul fronte russo. Non era la sua destinazione, ma brigherà per esserci. In Russia è testimone della distruzione fisica e morale del XXXV corpo d’armata italiano, nel quale era tenente d’artiglieria nella divisione Pasubio. È l’inverno 1942-1943. Accerchiati dall’esercito russo, gli italiani si ritirano e Corti, uno dei quattromila sopravvissuti su 30mila, assiste a ogni tipo di atrocità e di tragedie.
Il racconto della disfatta è contenuto nella sua prima prova narrativa, I più non ritornano, in cui lo scrittore pone al centro delle crude e strazianti descrizioni il mistero del male, in particolare, nella sua espressione estrema qual è la guerra. Il libro, pubblicato da Garzanti nel 1947, incontrò attenzione, successo di vendite e più ristampe (dopo Garzanti esce da Mursia e da Rizzoli-Bur; dal 2013 è entrato a far parte dell’Opera omnia di Corti edita da Ares). È il primo libro nella letteratura italiana a raccontare la ritirata di Russia e la tragedia dell’Armir sul fronte del Don. Lo lesse anche il filosofo Benedetto Croce per capire quanto il testo colpì pubblico e intellettuali.
Francois Livi, docente alla Sorbona e autorevole studioso di Corti osserva: “Questo diario è stato scritto per far aborrire la guerra. È la fedeltà assoluta alla realtà e alla verità dei fatti senza alcuna concessione a mode letterarie, nessuno sfruttamento dell’orrore”.
L’esperienza militare porta Corti a una seconda prova letteraria, I poveri cristi, pubblicato nel 1951 da Garzanti. È il racconto della campagna d’Italia, ovvero dell’esercito regolare italiano che agli ordini del re risale, dal giugno 1944 all’aprile 1945, la penisola insieme agli alleati inglesi e americani, incalzando i tedeschi. Corti, quale ufficiale fedele alla patria non ha abbandonato dopo l’8 settembre, è al Sud tra i ventimila soldati del Corpo italiano di liberazione e combatte non per odio ma con il desiderio di finire al più presto una guerra che “lacerava i corpi e le coscienze”.
È la sua guerra di liberazione. Appunta, giorno dopo giorno, le operazioni compiute. Il libro non replica il successo del precedente ma gli viene riconosciuto d’essere un “narratore che possiede più d’ogni altro la virtù lirica della narrazione” (Mario Apollonio, 1951). Anni dopo, Corti riprenderà in mano il testo che, completamente rivisto, diventa il romanzo Gli ultimi soldati del re (Ares 1994).
Nel 1962 esce la tragedia Processo e morte di Stalin. Corti cambia genere per entrare nel dramma di uno scontro tra il dittatore sovietico e i membri del Politburo che decidono la condanna del leader perché temono d’essere le possibili vittime e perché non sopportano più le atrocità del regime. I fatti si svolgono il primo marzo 1953. Il dramma va in scena a Roma nel 1962 con la Compagnia Stabile di Diego Fabbri. Resta in cartellone pochi giorni e poi viene ritirato e bandito per ragioni ideologiche.
Una vera operazione di censura che Corti racconta nel Cavallo rosso (da pagina 1.158). Un duro colpo per lo scrittore. Seguono anni di silenzio e di studio. Sta maturando l’idea del Cavallo rosso che inizia a prendere forma nel 1972. Ci vorranno però 11 anni di lavoro, prima di portare il testo all’amico Cesare Cavalleri di Ares, dopo il rifiuto di Garzanti.
Cavalleri racconta: “Quando, finalmente, mi decisi a leggere il manoscritto rimasi folgorato. Un capolavoro. Gli scrissi una lettera entusiasta, scusandomi d’averlo fatto attendere, commosso fino alle lacrime. Il cavallo rosso l’avrei pubblicato io. Da quel momento il Cavallo diventa una nostra testa di serie”. La prima edizione va presto esaurita. Oggi continua ad essere ristampato ed è tradotto in otto lingue.
Di che si tratta? È la narrazione di oltre trent’anni di storia italiana (dal 1940 agli anni ’70) collocati nel contesto europeo. Diviso in tre parti – dai titoli Il cavallo rosso, Il cavallo livido, L’albero della vita – racconta la Brianza investita dalla guerra, dalla liberazione e della ricostruzione. Nel giugno 1940 a Nomana (Besana) tre giovani sono inviati sul fronte russo dove vivono la guerra e la ritirata. Il cavallo rosso dell’Apocalisse e il suo cavaliere seminano morte. Il male dilaga.
Nel secondo atto sono di scena la presenza italiana in Africa, l’8 settembre, i fuoriusciti politici, i gulag e la perdita dell’identità umana, la resistenza in Lombardia. L’ultima sezione parla del ritorno alla libertà dove il protagonista Michele Tintori, uno dei tre partiti da Nomana, lotta per la dignità umana tra non poche difficoltà e incomprensioni. Nel 1974 s’impegna nella campagna contro il referendum sul divorzio.
Definito romanzo epico, protagonista è la gente comune con i suoi valori profondi e dai comportamenti modellati dalla fede cristiana. Una fede che, dove si manifesta, cambia le relazioni: accade in Brianza ma anche nel gulag, nelle prove della guerra.
Il cavallo rosso è stato presentato come “il romanzo del trionfo cristiano, del trionfo del bene sul male nella luce eterna di Dio”.
Restano ancora tre opere La terra dell’indio (1998), L’isola del paradiso (2000) e Catone l’antico (2005) definiti “romanzi sperimentali”. Il primo e il secondo parlano di due utopie finite male: le riduzioni (reducciones) dei Gesuiti in America latina e l’ammutinamento dell’equipaggio del Bounty del 1789.
È sempre la storia a occupare la narrazione per mostrare quanto il desiderio di solidarietà, di armonia e di felicità arriva sempre a fare i conti con i limiti dell’uomo, le sue passioni, il male. Le riduzioni vengono distrutte dall’avidità dei conquistatori, il “paradiso del buon selvaggio” degli ammutinati sull’isola Pitcairm si corrompe per disordini, gelosie, invidie.
L’ultimo lavoro è ambientato nella Roma precristiana. Catone è l’uomo dei valori morali che perde la sua battaglia. La Repubblica cede il passo all’impero. È l’imponderabile, il mistero, il senso della storia. Le grandi domande che hanno accompagnato sempre Eugenio Corti.
Sulla personalità dello scrittore sono preziosi tre altri libri che raccontano i sentimenti, gli affetti, la religiosità, la quotidianità dello scrittore: Io ritornerò. Lettere dalla Russia 1942-1943 (2015), Il ricordo diventa poesia. Dai Diari, 1940-1948 (2017), Voglio il tuo amore. Lettere a Vanda 1947-1951 (2019).
Giovanni Santambrogio, 2021, Il Besanese supplemento al no. 254)