Il cavallo rosso di Eugenio Corti
«Il cavallo rosso» di Eugenio Corti (Edizioni Ares) è il più bel libro che io abbia letto sull’ultima guerra. Forse il migliore, in assoluto, libro di guerra, fra le tante mie letture di questo genere.
Conosco i classici della prima guerra: da Bacchelli a Soffici a Puccini. Ma Corti che chiama la sua opera «romanzo» ha scritto una vicenda umana, senza retorica; con lui viviamo i racconti tante volte ascoltati dai reduci dei vari fronti; «Il cavallo rosso» narra i calvari della nostra gente di paese, di tanti amici delle nostre famiglie non più ritornati dalla Russia; di tanti giovani che avevano nel cuore la mamma, la Chiesa, il parroco, la ragazza e magari il gioco della morra e tante speranze: tutto bruciato nel terribile freddo della ritirata.
Scorrono le pagine della lettura — sono 1276 – e senza accorgerti senti il viso bagnato di lacrime. Eppure non è un libro triste, quello di Corti, perché mai senti la rassegnazione, anzi è un libro pieno di felicità; è la fede che illumina i cuori dei protagonisti che sostiene la volontà di lottare, di vivere anche in momenti disperati, quando sembra che ormai tutto sia finito.
Erano giovani di Azione Cattolica quelli, che nel romanzo di Corti, affrontavano i sacrifici della guerra di Russia e d’Africa; quelli dell’Azione Cattolica degli anni trenta e quaranta, poveri di mezzi e ricchi, ricchissimi di virtù.
Grazie Corti per averci fatto vivere, nelle tue pagine la nostra vita di giovani cattolici, di aver descritto con i protagonisti del romanzo il sentire delle nostre anime entusiaste.
Grazie Corti, per la tua rappresentazione spassionata di russi e tedeschi, di italiani del Sud e del Nord; tanto lontana dalla faziosità e dalle imbecillità della cultura ufficiale.
I recensori ed i critici di regime — a proposito cosa faranno ora? — non hanno parlato di questo libro.
Che importa? Ne parlano i fortunati lettori, che non sono pochi, stante la settima edizione in mie mani.
Quei lettori che non dimenticheranno più Ambrogio, Manno, Michele, come non hanno dimenticato Natascia e Pietro di Guerra e pace.
E, da friulano, il grazie anche per aver ricordato il nostro don Caneva, il costruttore del Tempio di Cargnacco, dove riposano i resti dei tanti caduti di Russia.
P.S. – La nota era già in tipografia quando su il Gazzettino di domenica 15 settembre appare una intervista a don Caneva. Racconta don Caneva: «… io gli racconto di quando ero in prigionia in Russia, nel campo di Crinowaja, della fame che abbiamo patito, degli episodi di cannibalismo a cui abbiamo assistito, quanto c’era chi sfondava il cranio ai morti per prelevarne il cervello». Michele, uno dei protagonisti de il Cavallo rosso» vive la stessa terrificante esperienza di don Caneva, proprio a Crinowaja.
Altro che romanzo, dunque quello di Eugenio Corti: è il terribile racconto di una tragedia che ha travolto i nostri giovani amici, che ha travolto mio cugino Fiorello che ricordo buono, sempre sorridente, anche lui del 21, la classe di tutti i protagonisti de «Il cavallo rosso». La zia Jole che a settembre ha compiuto novant’anni, ancora l’attende e quando mi incontra mi ripete: Alfeo si sae nuie di chei puars frùs in Russie? Nò, no savin nuie, gnagne, ma lor dal alt dal cìl a sàn dùt. A sòn, di sicùr, a gjoldi cui Signor.
(Feo di Beàn, settembre 1991, La Panarie)