I più non ritornano
Questi versi starebbero bene in epigrafe al libro di Eugenio Corti, I più non ritornano (Milano, ed. Garzanti, I947). E’ il diario di ventotto giorni d’accerchiamento russo nell’inverno I942- 43, e vi è riflessa, – come dice l’autore, – la storia della fine del XXXV Corpo d’armata, chiuso in una sacca e pressoché completamente annientato. Di oltre trentamila italiani che lo componevano, circondati sulle rive del Don, giunsero fuori dalla sacca poco più di quattromila, di cui almeno tremila congelati o feriti.
Siamo vissuti per più di un secolo esaltandoci e commovuendoci alla storia e alla leggenda del disastro della Beresina e della famosa ritirata. Dopo aver letto questo tremendo libro, quel lontano episodio di guerra non diventa, no, insignificante, ma si riduce molto nelle sue proporzioni.
Si narra che Stendhal, durante la ritirata del I8I2, non perdesse un istante la sua imperturbabilità e si presentasse ogni giorno, rasato accuratamente, a rapporto del suo superiore. Il tenente Eugenio Corti non ha certo potuto in quel mese di fughe e di orrori pensare a farsi la barba (anche perché le lamette dei rasoi servivano ai medici per amputare gli arti incancreniti), ma ha conservato una tale intrepidezza d’animo e acutezza di visione e di giudizio, che ha potuto narrare minuto per minuto le fasi della spaventosa rotta.
Stendhal avrebbe amato questo libro, spoglio assolutamente di retorica e di letteratura, e tutto fatto di notazioni secche, precise, concrete. Eppure quando, a lettura finita, l’opera di questo testimone diretto e partecipe ci sta tutta davanti come un’immagine sola di dolore e di spavento, ci si domanda se, oltre ad essere un prezioso documento per la storia, essa non sia anche un’opera d’arte. L’esperienza di vita in essa narrata e descritta s’è immedesimata con la parola a tal punto, s’è così compiutamente tradotta nell’espressione, che anche una lieve preoccupazione di rifinitura letteraria sarebbe stata un di più, avrebbe dato fastidio, impedito questa diretta e angosciante presa (come se lo ghermisse) sull’animo del lettore.
Libri come questo, – e così l’altro di Aldo Bizzarri, Proibito vivere, e l’altro di Primo Levi, Se questo è un uomo, – andrebbero adottati – con opportune e intelligenti riserve di lettura, – nelle scuole, dove si leggono ancora le stinte noterelle dell’Abba. Imparando cosa soffrirono e come morirono quelle torme di uomini in fuga, senza più consistenza d’esercito, ridotti agli istinti primordiali, con solo qualche alterna ripresa di ragione e di sentimento, di generosità e di altruismo, imparerebbero ad avere in orrore la guerra.
Nessun antidoto sarebbe più efficace alla criminosa propaganda, alla folle esaltazione (chi non ricorda la formula “libro e moschetto”?) che ha dato per frutti questa rovina, questa degradazione, questa vergogna.
Con attenzione però, e dopo avere ben meditato questa frase di Eugenio Corti, che è un credente: “Come avrebbe potuto l’uomo arrivare a volere la guerra, se gli fosse stato possibile non volerla? Così, perché essa non venga, bisogna che gli uomini non se ne rendano colpevoli innanzi a Dio. Pensiero demaistriano.
(Francesco Casnati, dicembre 1947, Vita e Pensiero)