Quel cavallo rosso che galoppa nella speranza
A quarant’anni dalla sua prima edizione, Il cavallo rosso di Eugenio Corti (Edizioni Ares, 1080 p., 24 euro) continua a parlarci, ed è ormai un dato di fatto che questo romanzo è un classico del Novecento italiano.
Non credete al luogo comune dell’autore cattolico marginalizzato in quanto tale: Cesare Cavalleri, il direttore delle Edizioni Ares che, coraggiosamente, nel 1983 pubblicò questo romanzo di oltre mille pagine, ha sempre rigettato con la sua consueta, garbata e affilata ironia, questa lettura del “fenomeno Corti”, e in generale della presunta nicchia in cui sarebbe stata discriminata la “cultura cattolica”.
Certamente, la mole stessa de Il cavallo rosso può intimidire; ma non ha sbagliato chi ha parlato del romanzo di Corti come dell’equivalente italiano e novecentesco di Guerra e pace, per l’ambizione di Corti di farsi non solo narratore, ma anche pensatore e interprete del suo tempo e dei travagli della storia e della patria. Per certi versi, Il cavallo rosso è anche, innegabilmente, l’omologo italiano di Vita e destino di Grossman. E’, infatti, una grande epopea che racconta fatti drammatici: l’esperienza italiana della campagna di Russia, cui Corti stesso partecipò, ritornando miracolosamente illeso (lui disse sempre, convintamente, per intercessione della Madonna), ma anche, per usare le parole stesse di Cesare Cavalleri “le vicende, in pace e in guerra, di alcuni giovani brinate, nell’arco di tempo che va dal 1940 al 1974. Lo sfondo culturale è quello della Brianza di quarant’anni fa, intrisa di cattolicesimo, di imprenditorialità e di splendide virtù morali innervate da un acuto senso del dovere”.
La provincia operosa
Il racconto si radica dunque in quella Brianza operosa e cristiana, i cui abitanti lo scrittore definiva “paolotti”. Il termine, che i nostri tempi moderni e secolarizzati intendono ormai spregiativamente, indica i cristiani dalla fede semplice e salda, come nei paesini brianzoli o anche bergamaschi e nelle campagne in generale, e viene, al contrario, usato da Corti con viva simpatia, dato che egli stesso, con un filo di ironia, si metteva in quel novero. E forse, nonostante quel contesto sociale e storico sia passato, inevitabilmente, e ci sembri morto e sepolto, qualcosa sopravvive, sotto le apparenze luccicanti e un po’ mendaci del permissivismo e del progresso; e, in ogni caso, era anche giusto consegnare alle generazioni che verranno il ricordo del passato da cui discendono.
Il romanzo è scandito in tre parti: Il cavallo Ross, Il cavallo livido (entrambi simboli tratti dall’Apocalisse) e L’albero della vita. Il racconto procede secondo due movimenti: il primo è ascendente e culmina negli eventi del 1948; poi, la narrazione si ripiega e digrada, evocando, metaforicamente, l’onda della storia, che prima sale imponente, si colma di speranze, “poi s’increspa e cade nello sciabordio della risacca” (Cavalleri).
Una delle parti forse più interessanti de Il cavallo rosso si trova nelle ultime pagine del romanzo: ci troviamo tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, quando la contestazione giovanile è esplosa e tutto un mondo di valori e tradizioni sembra sul punto di essere spazzato via. Ma si fa presto a dire “contestazione” e “Sessantotto”: però un conto è parlarne a Milano, Roma, nelle metropoli; per chi vive nella provincia, nei piccoli centri, invece, sa ben che l’onda lunga del movimento giovanile è arrivata a volte in ritardo di anni: poche decine di chilometri, possono significare molto.
E così troviamo, nel Capitolo IV della Parte Settima, Pierello, un uomo semplice, nel senso migliore del termine, che si interroga sulla piega incomprensibile che ha preso la vita del figlio Taddeo, di cui era stato tanto orgoglioso sino a pochi anni prima, quando studiava in seminario: “Poi, chissà come, gli si era rivoltata completamente la testa (…). Ma che cosa gli ha preso a questi ragazzi, io mi chiedo. Addirittura in tra hanno abbandonato il seminario… E prima erano tutt’e tre bravi bravi ragazzi, tra i meglio del paese. Poi si sono come incarogniti. E anche a certi preti giovani cosa gli è preso, me lo sai dire tu? (…) Che brutto lazzarone! (…) Eppure, alla fine toccherà a me, a noi, di pagare la macchina che lui ha bruciato. Perché lui, il signor student, non guadagna una lira: anzi a noi ci tocca di pagargli anche gli studi” (pp. 1049-1050). Difficile trovare una più vera e immediata rappresentazione di quella contrapposizione tra generazioni che ha segnato tanta parte delle famiglie italiane nella seconda parte del XX secolo, e, per certi versi, anche se in forme e per motivi diversi, continua a farlo.
Il messaggio
Agli antipodi di Pierello, il personaggio di Michele (in cui i riferimenti autobiografici di Corti sono evidenti): scriverà un libro sulla sua esperienza in Russia, ma, dopo un primo successo, verrà emarginato dall’establishment culturale. Poi, una notta in cui Michele è lontano da casa per un guasto all’auto, l’adorata moglie Alma, che gli va incontro, muore in un incidente provocato dallo sbandamento di una vettura guidata da un tossicodipendente.
Sulla morte di Alma si chiude il romanzo, in apparenza un’epopea di perdenti, perché anche la verità può, per qualche momento, eclissarsi e sembrare sconfitta, pur restando intatta e vera, e riemergendo sempre con forza. E in tale senso va inteso il messaggio di speranza che Il cavallo rosso ci consegna.
(Silvia Stucchi, 29/06/23, Libero)