Il cavallo rosso di Eugenio Corti: un romanzo per l’uomo
Quarant’anni fa usciva un’opera che è “un vademecum per vivere il presente”. Un romanzo storico, tra le opere più significative della letteratura del Novecento. “La storia corale che ne emerge affascina perché tocca tutte quelle situazioni che la vita pone di fronte a ogni lettore: l’amore, la guerra, l’amicizia, la politica, la fede, il lavoro; al di là delle riduzioni che le ideologie hanno fatto nel secolo scorso, al centro c’è l’uomo e il suo desiderio di infinito”. Per fare memoria attraverso verità e bellezza
“«Quale bellicismo? Ah, perché tu credi che io… Ma se ho là in casa…» Alludeva a suo padre, inchiodato dalla precedente guerra sulla sedia a ruote. «No Riva, no, ti sbagli di grosso. Sai che questa è bella? Anche se, certo, una volta là non intendo fare l’imboscato, si capisce. Però io voglio andare in Russia per tutt’un altro motivo. È perché voglio rendermi conto, capisci? È per vedere».
«Per vedere?»
«Sì. Devo vedere cos’hanno effettivamente combinato i comunisti. Ecco perché ci debbo andare subito, prima che i tedeschi cambino troppo la realtà delle cose. Mi sono spiegato?». «Vorresti insomma parlarne poi in un libro?» Ambrogio era sempre piuttosto perplesso”.
Intorno agli anni Settanta, Eugenio Corti, brianteo d’origine, classe 1921, reduce della ritirata di Russia, con alle spalle già altre opere letterarie – I più non ritornano (1947), I poveri cristi (1951) e Processo e morte di Stalin (1962) –, si mette a scrivere quella che lui stesso definisce la “summa della sua vita”. Dopo undici anni di un lungo labor limae dà, infatti, alla luce Il cavallo rosso, un romanzo storico che si staglia senza dubbio tra le opere più significative della letteratura del Novecento. Come affermava Cesare Cavalleri, il suo editore, quest’opera “ha il respiro di Guerra e pace, l’inoppugnabilità del miglior Solženicyn, la tenerezza ctonia del cinematografo Albero degli zoccoli e, mi sia consentito aggiungere, la missione escatologica dei Promessi sposi”.
Un’epopea avvincente
La narrazione del Cavallo rosso, ambientata nell’Italia fra il 1940 e il 1974 e in alcuni dei più significativi luoghi nei quali si consumano le vicende legate alla Seconda guerra mondiale, prende le mosse proprio dalla decisione di Michele Tintori, uno degli alter ego di Corti, presenti nell’opera. Egli vuole essere mandato in Russia per vedere con i suoi occhi ciò che accade in quella terra senza Dio. Questo desiderio, come si evince dal dialogo riportato in apertura fra Tintori e l’amico Ambrogio Riva, traslittera le parole che lo scrittore brianzolo riporta nei suoi diari e, soprattutto, nelle lettere inviate ai suoi genitori prima di partire per la guerra. Corti, come ogni giovane della sua età è chiamato alle armi, ma sceglie di essere protagonista della storia, rispondendo a quel compito che, in fondo, in virtù della solida educazione cristiana, respirata in famiglia e dai maestri da lui incontrati, aveva sempre sentito di avere.
Dall’esperienza tragica nelle terre desolate e gelide della steppa del Don vissute da Michele-Corti, e da tutti i suoi coetanei per lo più brianzoli, lo scrittore costruisce un’epopea avvincente a tal punto da ‘incollare’ letteralmente folle di lettori fino all’ultima pagina, nonostante siano 1280. Il loro passaparola ha fatto in modo che a tutt’oggi quest’opera possa vantare ben trentasei edizioni e otto traduzioni, diventando un longseller. C’è da chiedersi: qual è la ragione di tanto successo? Potremmo riassumerla nella fusione di quelle che lui chiama le «sue due colonne»: la verità e la bellezza. Corti è totalmente fedele alla realtà; esattamente come afferma Michele, desidera ‘far vedere’ quello che ha vissuto e visto non solo in guerra, ma anche negli anni della ricostruzione del nostro paese.
A tema c’è la Storia con S maiuscola, quindi la Guerra, la Resistenza, il Comunismo, e la volontà di leggere le cause e gli effetti di quegli avvenimenti sull’uomo. Lo scrittore brianteo non inventa nulla e, qualora riporti episodi e situazioni non vissuti in prima persona, si preoccupa sempre di verificarne l’attendibilità oltre che di studiarli rigorosamente.
«Ogni pagina deve incantare»
La verità è il primo fondamento del suo romanzo e di tutta la sua poetica; egli cerca di afferrarla e di «renderla con forza», soprattutto una volta salvatosi miracolosamente, la notte di Natale del 1942, nella valle della Morte, ad Arbusov, quando decide che avrebbe informato tutta la sua vita seguendo il secondo versetto del Padre Nostro. Ma essere scrittore per il Regno, vale a dire per la verità, significa anche saperla mostrare agli altri, pertanto, come afferma alla sua biografa ufficiale Paola Scaglione, «è indispensabile anche la bellezza, ogni pagina deve incantare». Corti si sente responsabile di mostrare il Bello attraverso l’arte della scrittura.
La sua è una scrittura che diventa arte. Lo aveva compreso bene a scuola fin dalla quinta elementare quando si è trovato fra le mani il testo di Omero, l’Iliade: pur non conoscendo lo scrittore, leggendo le sue pagine, rimane conquistato dal fatto che quell’autore trasformava in bellezza tutte le cose di cui parlava e per questo desidera assomigliargli.
Il cavallo rosso, con una semplicità disarmante, mostra dei valori preziosi in modo meraviglioso, complici di questa bravura sono certamente le doti innate alla scrittura, ma, non da ultimo, i diversi modelli letterari a cui si ispira e i maestri con i quali durante la sua vita è entrato in contatto, come Mario Apollonio e Cornelio Fabro. La storia corale che ne emerge affascina perché tocca tutte quelle situazioni che la vita pone di fronte a ogni lettore: l’amore, la guerra, l’amicizia, la politica, la fede, il lavoro; al di là delle riduzioni che le ideologie hanno fatto nel secolo scorso, al centro c’è l’uomo e il suo desiderio di infinito.
Sarebbe un errore non ricordare che Eugenio Corti è un cattolico scrittore, che non ha paura di giudicare la storia, che non scende a compressi, che denuncia il male, eppure non c’è in lui nessun fine di convincere qualcuno al suo credo, alla sua visione; egli ci risparmia le lezioni di «moralismo sull’assurdità della guerra o sulla necessità della fratellanza», al contrario ci parla dell’uomo e non esclude nulla di quello che può capitargli nella vita. Corti ci prende per mano, un po’ come Virgilio fa con Dante nell’accompagnarlo attraverso i mondi ultraterreni fino a condurlo alle porte del Paradiso. Analogamente Il cavallo rosso termina proprio con la certezza che esiste un mondo che abbraccia tutte le miserie umane. L’autore, dunque, scolpisce parole vere, belle, utili per affrontare la sfida che ogni giorno la realtà ci pone davanti e nello stesso tempo ci mostra la sua via. Così, nel 1942, aveva scritto ai suoi genitori: «domani a questa guerra, come a tutte le guerre, seguiranno rivolgimenti e contrasti. Io non vorrò restarmene neghittosamente fuori parteciperò anch’io in favore della Religione, della Famiglia, dello Spirito, di tutte quelle cose insomma in cui voi m’avete educato e nelle quali fermamente credo». Michele ha davvero scritto un libro come gli chiedeva l’amico; un libro che dopo quarant’anni è ancora fresco e attuale, un vademecum per vivere il presente.
(Elena Rondena, 21/07/23, Centro Culturale di Milano)