Stalin, la tentazione di estirpare il male con la violenza
“Processo e morte di Stalin” di Eugenio Corti è un’opera teatrale sulla vera natura del comunismo. Attualissima a 70 anni dalla morte del dittatore (1878-1953)
Mosca, 1° marzo 1953, interno del Cremlino, di tarda mattina. Due guardie sono davanti all’ufficio di Iosif Vissarionovič Dzugasvili, 74 anni, un bolscevico di umili origini nativo della Georgia, che si è dato il nome di battaglia di Stalin (“l’uomo d’acciaio”). Da oltre un trentennio è il segretario generale del Partito comunista, in sostanza l’indiscusso capo dello Stato sovietico nato dalla rivoluzione del 1917. “Degno continuatore dell’opera di Lenin” (come lui stesso si definiva), Stalin sta preparando l’ordine di deportazione nella Manciuria orientale, più precisamente nel territorio del Birobidian, di tutti gli ebrei sottoposti al suo potere; non solo quelli che vivono nell’Unione Sovietica (circa tre milioni), ma anche quelli degli Stati satelliti dell’Europa orientale (particolarmente numerosi in Romania, dove i nazisti ne avevano deportati solo una minima parte).
Il motivo? Dirà ai suoi più stretti collaboratori, stupiti e increduli per questa scelta, dal momento che proprio gli ebrei occupavano molti posti di responsabilità nel partito: “Tutti gli ebrei russi non guardano forse alla Palestina, ormai? Chi di loro pensa più alla costruzione del comunismo? Non ci offende abbastanza questo? O forse dovremmo attendere addirittura che i nostri ebrei diventino fra noi la quinta colonna dello Stato di Israele?”.
Le sue parole non si discutono. “Io non dubito, né dubiterò”, cantano in coro le guardie. E aggiungono: “Chi può ormai più dubitare che il comunismo è la dottrina che sanerà i mali del mondo?”.
Così comincia la tragedia Processo e morte di Stalin, opera meno nota ma fondamentale dello scrittore e saggista brianzolo Eugenio Corti (1921-2014), autore del long seller Il Cavallo rosso (più di trenta edizioni in quarant’anni). Racconta gli ultimi giorni di vita del dittatore sovietico, immaginando che sia stato vittima di una congiura ordita dai suoi ex “fedelissimi: Beria, Bulganin, Caganovic, Crusciov, Malencov, Micoian, Molotov e Voroscilov, che effettivamente si spartiranno il potere alla sua morte. Lo sottopongono a processo e con l’aiuto di medici compiacenti lo faranno morire procurandogli un’emorragia cerebrale, che fu effettivamente la causa del suo decesso. Ma Stalin si difende, affermando che i suoi seguaci si comporteranno in maniera spietata esattamente come lui, se vogliono davvero difendere il comunismo. E infatti il primo ad essere eliminato, pochi mesi dopo, sarà Beria, il feroce capo della polizia segreta.
La stesura della tragedia risale agli anni 1960-1961 e fu subito ritenuta un capolavoro da Mario Apollonio, il maggior critico e storico del teatro del dopoguerra. Venne rappresentata a Roma il 3 aprile 1962 al Teatro della Cometa – proprio su suggerimento e con il patrocinio di Apollonio – dalla Compagnia Stabile di Diego Fabbri, con la regia di Orazio Costa, ma “mutilata” e ridotta a semplice lettura scenica, quasi per ridurne e affievolirne la potenza drammatica ed evocativa, in quanto forte denuncia dei crimini staliniani (milioni e milioni di vittime, “nemici del popolo” ed “elementi ostili ed estranei alla società”, come i kulaki, letteralmente fatti morire di fame). L’opera rimase in cartellone per quasi due settimane, con un buon successo di pubblico e giudizi favorevoli di almeno una parte della critica, ma fu pesantemente stroncata dalla stampa marxista o fiancheggiatrice del marxismo. Malgrado la destalinizzazione, non si poteva parlar male di Stalin e soprattutto del comunismo, peraltro in modo cosi chiaro ed esplicito. Ci fu quindi la censura, l’ostracismo, l’oblio, che crebbe con il passare degli anni, perché nel frattempo si era andata sempre più affermando in Italia l’egemonia marxista sul mondo della cultura in tutte le sue espressioni. La tragedia avrà fortuna solo negli ambienti della dissidenza russa e polacca.
Quasi mezzo secolo dopo, l’opera dell’autore de Il cavallo rosso è tornata ad essere rappresentata (24, 25 e 26 giugno 2011) al Teatro Manzoni di Monza. Questa volta un’ azione teatrale vera, molto efficace, non una scialba lettura scenica. Tutto esaurito e lunghi applausi al termine di ogni rappresentazione. A impersonare Stalin l’attore Franco Branciaroli, perfettamente nella parte di un uomo solo, stanco, tormentato dai fantasmi degli orribili massacri compiuti e accerchiato dai “lupi” e dai “maledetti cani” (così il dittatore chiama i suoi nemici interni, pronti a liberarsi di lui).
La regia è affidata ad Andrea Maria Carabelli, che in quell’occasione commentò: “Il personaggio ha dentro di sé tutta la tragicità del Novecento. È il massimo della coerenza. Lui ha applicato con rigore il comunismo, il suoi ideale. E non importa se per fare questo è arrivato persino a distruggere i legami familiari”. Per il regista “Stalin rappresenta la tentazione di ogni uomo. Perché la tentazione più grande non è tanto il male che compiamo, fosse anche fatto di milioni di morti, ma pensare che il male possa essere estirpato dall’uomo e dal mondo” con le nostre sole forze. Eliminare il male dalla società ignorando o combattendo Dio significa che “alla fine bisogna eliminare l’uomo”.
Il momento più drammatico e rivelatore della tragedia è nelle parole rivolte da Stalin alla nuora Olga Goliscéva: “La realtà siamo noi. Se la realtà storica non ci viene dietro, e quindi sbaglia, noi possiamo anche cambiare la storia”. Per Branciaroli, nella raffigurazione scenica di Corti “Stalin è convinto della possibilità di cambiare il mondo attraverso il marxismo. Il sangue versato lo reputa necessario. Ma la cosa non lo diverte. Lui uccide per ideologia, perché è un comunista. Lo ammette: più ci si avvicina al socialismo, più gli oppositori aumentano, più è necessario essere implacabili”.
Ci crede fino in fondo. E dopo di lui le cose non cambieranno, non si illudano i congiurati, i “fedelissimi” uomini del Politburo venuti nella sua dacia per arrestarlo e processarlo. Si devono arrendere al lucido ragionamento del loro capo: “Potete illudervi di fare a meno della violenza solo fino a quando rimarrà negli uomini il salutare terrore per le repressioni da me esercitate, ma non oltre”. Una profezia su cui riflettere soprattutto da quando, negli ultimi anni, in epoca putiniana, sono riapparsi i fiori sulla tomba di Stalin.
Negli anni del terrore staliniano l’ideologia che stravolgeva la società e la storia era il marxismo-leninismo, con le sue propaggini in Occidente, capaci di influenzare e orientare la politica e soprattutto la cultura. Oggi – in maniera più subdola e apparentemente meno lesiva della libertà e perciò più pericolosa – impera il nichilismo ecologista, frutto estremo del liberalismo più spinto. Ma, come sempre, l’ideologia quando ingabbia la realtà non può che produrre violenza e distruggere l’umano.
(Vincenzo Sansonetti, 05/03/23, Il Sussidiario)