Dimmi se la guerra ha un senso
Lo scrittore brianzolo Eugenio Corti, protagonista della tragica ritirata di Russia del 1942/1943, ha vissuto il mistero del male guardando negli occhi Dio e l’uomo
“Non era possibile – noi lo sentivamo – che cose enormi come quelle che stavamo vivendo dipendessero dall’arbitrio di pochi piccoli uomini. Erano castighi all’intera Umanità, quelli. Solo Dio può castigare l’Umanità. Così si spiega la guerra”.
Fronte orientale, 16 gennaio 1943. Con questa coscienza Eugenio Corti, ufficiale di artiglieria, ventidue anni ancora da compiere, gli studi di Giurisprudenza interrotti dalla guerra, arranca verso le linee amiche. L’offensiva sovietica ha spazzato via i giorni dell’avanzata italiana e, dal 19 dicembre 1942, nella morsa dell’inverno russo si snodano in ritirata i resti di un esercito: una colonna di soldati allo sbando, mal equipaggiati, senza viveri né munizioni né armamenti pesanti, assediati dal gelo e dal fuoco nemico.
I sopravvissuti del settore in cui si trova Corti porteranno nelle gambe e nel cuore ventotto giorni di marcia per sfuggire all’accerchiamento.
Il tragico Don
L’esperienza segna per sempre Eugenio Corti (1921-2014): fin nei suoi ultimi giorni allo scrittore pareva di ritrovarsi di notte nell’inferno di neve della ritirata, con i piedi congelati e la gola dolorante, a gridare ordini per strappare i suoi uomini alla morte. E ogni inverno riviveva le marce senza fine a decine di gradi sotto lo zero, le scarpe fradice di neve, le notti all’aperto, la coperta irrigidita dal gelo sulle spalle, negli occhi i volti dei compagni rimasti a migliaia ai bordi della pista di neve, destinati a diventare in breve mucchi di stracci e carne congelata.
E ogni giorno il soldato scrittore ringraziava la Madonna per la vita che gli aveva concesso di riportare a casa, per il letto e le coperte che lo attendevano a sera. Quella tragica epopea lo conferma nella vocazione di testimone della verità, intessendo la sua prima opera, I più non ritornano, e pagine epiche del suo romanzo capolavoro I cavallo rosso.
La cruda contabilità delle vite ingoiate dal fronte russo inquadra la tragedia: su 229.000 soldati dell’Armata italiana in Russia, 74.800 muoiono in battaglia e in prigionia; su circa 55.000 prigionieri italiani, ne tornano a casa solo 10.030. Nel settore di Corti sul Don, dei 30.000 soldati accerchiati, escono dalla sacca in 4.000, e solo 1.000 di loro riescono ancora a camminare.
Nella ritirata si leva di tanto in tanto l’imprecazione contro chi aveva voluto quella guerra: “Porci! Figli di cani!”. Lo riferisce il diario del giovane ufficiale, che pure vede nei responsabili di una vicenda tra le più atroci della nostra storia militare degli “strumenti qualsiasi nelle mani della Provvidenza”.
A Corti, figlio della fede vissuta della Brianza cattolica, si impone una riflessione che vada al fondo dell’orrore. E della speranza, perché anche l’anima non vada in ritirata. Per lo scrittore è essenziale spiegare e testimoniare l’abisso del male, ma questo non serve a evitarlo: “Se noi fossimo arrivati a salvarci, e avessimo trovato modo di far capire agli altri, e specie ai responsabili, cosa è la guerra, le guerre in futuro, contro ogni umana logica, ci sarebbero state ugualmente”.
Il posto del male assoluto
Una profezia di drammatica attualità: nelle stesse zone dell’Ucraina si combatte oggi, come ottant’anni fa. E oggi come ieri gli addetti ai lavori fanno appello a spiegazioni storiche e politiche, ma non è la ricerca delle responsabilità o la misura delle forze in campo a far luce sulla bestialità del combattere.
Indagare il senso della guerra significa per Corti chiedersi quale sia il posto di quel male assoluto nell’economia della salvezza collettiva. Del resto proprio per capire – per capire fino in fondo – lui, ufficiale di leva e scrittore, aveva chiesto di essere assegnato al fronte russo: aveva sperimentato la presenza del Dio incarnato in ogni piega del reale e voleva vedere il comunismo realizzato, studiare i frutti di un mondo senza Dio. Nel travaglio della ritirata trova ogni conferma: ogni particolare – anche il più tragicamente inumano – è sotto lo sguardo di Dio.
Gli è chiaro sin dai giorni drammatici della sacca, come annota nel diario: “Mai l’uomo sarebbe arrivato a volere la guerra, se gli fosse stato possibile non volerla. Così, perché essa non si produca, bisogna che gli uomini nel loro insieme non la rendano inevitabile accumulando davanti a Dio colpe su colpe. La quali a un certo punto diventano valanga, che si muove, e investe, e travolge”.
Una lettera all’amico Giorgio Bruno Barresi, riportata nel diario della ritirata, spiega che il senso della guerra come castigo al disordine morale si può comprendere solo nella prospettiva della salvezza: il “Bene assoluto” non può volere la guerra ma, avendo creato l’uomo libero, Dio consente che questo commetta il male e si allontani da Lui. Tuttavia nell’ordine provvidenziale “l’uomo, sperimentando i frutti sempre più terrificanti che il suo allontanamento da Dio produce, viene con sempre maggior forza chiamato e stimolato al ravvedimento (cioè al bene)”.
Costi testimonia che “Dio nel Suo amore – pur senza mai violentare la libertà umana – interviene in molti momenti determinanti della storia: sia del singolo, che delle collettività, insomma nella Storia, al fine di aiutare gli uomini, e di fare della storia una storia di salvezza”.
Il mistero della sofferenza
Il dramma del vivere però rimane intero, perché agli uomini che scelgono di opporsi a Dio resta la libertà – “malefica (=facitrice di male)” – di fare la guerra. E’ questo mistero ad apparire castigo: Dio è così innamorato della libertà dell’uomo da non fermare la sua mano neppure quando semina orrore e morte. E’ in gioco la vita, insomma, quella raccontata e quella del lettore, chiamato come ogni essere umano a scegliere tra il bene e il male: Corti scrive per dare testimonianza, ma ancor di più per muovere al bene.
Così la considerazione più rilevante con cui lo scrittore si congeda dall’amico Barresi svela il senso di ogni cammino umano, tra la neve della ritirata di Russia o sulle nostre strade. E’ il cuore della vicenda: “Come cioè Dio recuperi la sofferenza degli uomini, soprattutto degli innocenti – crocifisso al pari di Cristo innocente -, la quale sofferenza pertanto non va affatto sprecata (dunque quei morti non sono morti per niente)”.
Nasce dalla stessa radice la preoccupazione che muove l’azione caritativa del valoroso cappellano alpino don Carlo Gnocchi, consumato dal pensiero che il dolore innocente dei piccoli mutilati della guerra vada sprecato, perché “non diretto all’unica meta nella quale il dolore di un innocente può prendere valore e trovare giustificazione: come Cristo crocifisso” (Pedagogia del dolore innocente).
Per il beato Gnocchi, che Corti è stato amico, ogni sofferenza, “in forza della grazie battesimale”, può farsi offerta per la salvezza dell’uomo e del mondo. Di più: “Il dolore degli innocenti, nella misteriosa economia cristiana, è anche per la manifestazione delle opere di Dio e di quelle dell’uomo: opere di scienza, di pietà, di amore e di carità”.
Perché in Dio nulla, neppure ciò che nasce dal male, si perde.
(Paola Scaglione, dicembre 2022, Il Timone)