Eugenio Corti, un pensiero e un linguaggio di cose
«Quella del Cavallo Rosso è una lingua – e prima un pensiero – di cose, mai però scontate, che spalancano il lettore al senso pieno della realtà», con questa prospettiva critica il card. Angelo Scola, arcivescovo emerito di Milano, ha aperto i lavori della quarta edizione del «Premio internazionale Eugenio Corti». Pubblichiamo di seguito la sua Prolusione incentrata sul grande romanzo di Eugenio Corti (foto) appena giunto alla 35a edizione.
La biografia letteraria di Eugenio Corti propone uno sguardo singolare sulla realtà. Il punto di partenza di ogni suo scritto sono sempre le cose. Anche quando si tratta di narrare sentimenti, emozioni e pensieri dei protagonisti, l’autore lo fa attraverso uno sguardo privilegiato alle cose, nel tentativo di proporre tutti gli aspetti della densità del reale.
L’ordito sul quale è tessuta la trama del Cavallo Rosso, per citare il suo romanzo più famoso, è una cronaca dettagliata, quasi la trascrizione letteraria di un diario.
In un’intervista Corti parlò così dell’umanità descritta dal suo romanzo: «I Briantei sono un popolo di artisti e paolotti, quella che narro è la mia realtà culturalmente emarginata e con una religiosità cristiana popolare» (1). Infatti nel Cavallo Rosso, come nella biografia di Eugenio Corti, emergono solidi capisaldi dell’esperienza umana genuinamente illuminati dalla fede: affetti (famiglia) e lavoro.
I personaggi, nelle loro diverse sfaccettature, incarnano il «tipo umano» di quelle terre che vive appunto un’intensità di affetti e una solidità di valori ma li esprime con sobrietà e pudore. Un esempio per tutti. In una delle letture da me fatte per conoscere meglio il mondo di Corti, mi sono imbattuto in una frase che era sulla bocca di sua madre Irma: «Sem chi per vütass». E vi ho riconosciuto una affermazione che era sempre anche sulla bocca di mia madre. Tra la gente della Brianza e quella del nostro lago la contiguità non è unicamente geografica.
Quella del Cavallo Rosso è dunque una lingua – e prima un pensiero – di cose, mai però scontate, che spalancano il lettore al senso pieno della realtà. Penso, per esempio, alle pagine, intrise di lirismo, dedicate alla recita serale quotidiana del rosario (p. 49). Domandiamoci: cosa può dire questo affresco del nostro passato, dominato da una particolare visione di cattolicesimo popolare, al nostro presente sentito ormai dai più come un’epoca di post-cristianesimo? Prima di rispondere a questa domanda, conviene sottolineare il carattere totalizzante che quella visione cristiana della vita possedeva. Il fattore che meglio lo mostra è la dimensione affettiva dell’esistenza. Soprattutto pensando al rapporto di Corti con la moglie Vanda (cfr Voglio il tuo amore – Lettere a Vanda 1947-1951) o a quello di Michele – insieme ad Ambrogio, il secondo alter ego dell’autore nel romanzo – con Alma, ma anche ai rapporti familiari o alla trama solida di relazioni nel paese di Nomana.
Per illuminare ancora un poco la questione faccio riferimento a un passaggio del secondo capitolo della quinta parte del Cavallo Rosso. Siamo nel Lager 74 di Oranchi, prevalentemente femminile, in cui le donne sono sottoposte a un ritmo di lavoro massacrante – tagliare e dirozzare tronchi – oltre che a essere sessualmente schiavizzate. Michele, assetato di informazioni sui lager, riesce a dialogare, in uno scarso francese, con una donna che era stata membro del partito social-rivoluzionario inizialmente coinvolto con la rivoluzione bolscevica ma poi di fatto annientato dai vincitori. La donna era ancora piena di odio sia nei confronti dei bolscevichi, sia nei confronti di un gruppo di prigioniere, ridotte a dei fantocci di stracci e rivelatesi poi come suore, che non rinunciavano ad offrire il proprio aiuto alle donne più in difficoltà.
Mi interessa sottolineare il finale di quel colloquio che è bene riportare alla lettera: «A questo punto l’interlocutrice fu colta, con notevole ritardo, da un sospetto: “Io ho fatto la rivoluzione”, dichiarò con un orgoglio che al sottotenente riusciva davvero incomprensibile. “Voi non sareste per caso fascista?”. “No, per niente”. La socialrivoluzionaria annuì approvando: “Socialista allora?”. “No, sono cristiano”. “Cristiano? Cosa significa?”» (p. 698).
Una fede a tutto campo
La fede connota l’impegno a tutto campo di Michele con la realtà. E’ come la linfa che nutre la sua persona, in ogni sua espressione. E lo stesso si potrebbe dire della gran parte della sua gente. Senza poter entrare, in questa sede, nelle vicende italiane e soprattutto nell’impegno politico dei cattolici, prima durante e dopo il fascismo, la risposta di Michele alla compagna social-rivoluzionaria rivela la nota specifica e preponderante di tale impegno in quegli anni. Eugenio Corti la fa sua con convinzione, come si vede molto bene nelle ultime cento pagine del libro legate all’interpretazione del ’68 e al referendum sul divorzio (1974). Indirettamente però ciò rivela un dato che ancor oggi, quando si cerca di affrontare la crisi del cristianesimo (attribuire la parola crisi alla Chiesa esigerebbe qualche decisiva precisazione), gioca un ruolo importante. La cosiddetta crisi della Chiesa non è cominciata nel post-concilio per continuare nel ’68 e sfociare in quel cambiamento d’epoca di cui ha parlato papa Francesco. Senza sminuire la prospettiva del cattolicesimo descritto da Corti bisogna riconoscere che tale crisi è iniziata ben prima e soprattutto ha attraversato, in crescendo, tutti i decenni del Ventesimo secolo, per farsi pienamente evidente nei nostri anni.
Dalla modernità il pensiero dominante aveva già catturato le fasce intellettuali della società. Pian piano, soprattutto con l’imporsi del sistema industriale, aveva finito col catturare anche le fasce popolari.
Corti individua nel nazismo e nel marxismo i fattori scatenanti il crollo del cattolicesimo popolare: «Il comunismo è obiettivamente, il maggior pericolo che la civiltà abbia corso nel nostro secolo. L’altra ideologia ugualmente carica d’errori che, sempre nel nostro tempo, ha tentato il predominio mondiale, il nazismo, anche se era per certi aspetti più demoniaca e più efficiente, non costituiva un pericolo altrettanto grande. Perché era meno universale, e inoltre con molto minori possibilità di presa. Ad indirizzarmi allo studio serio del comunismo (io sono dottore in legge, ma ho studiato molto più comunismo che legge) è stata la mia esperienza diretta della tragica realtà russa» (2). Senza entrare in questa sede nell’analisi di Corti su questi due fenomeni che hanno funestato il cosiddetto Secolo breve, e non solo, è necessario fare spazio a un altro dato di fatto che ci riguarda da vicino. Come è avvenuto in altri momenti della storia della Chiesa, anche questa crisi è partita dall’interno della Chiesa stessa.
Per documentare sinteticamente questo giudizio, si può dire che da tempo il «collante» delle masse, in larga maggioranza ancora impegnate con la Chiesa, si riduceva a ritualismo e generosità. Solo una minoranza era in qualche modo consapevole del senso cristiano del vivere, del «per Chi» agire. Certamente lo era Corti. Di questo senso (significato e direzione) del vivere si era nutrito con il latte materno. Perciò, con altrettanta naturalezza, sapeva che lo scopo del suo lavoro era tutto racchiuso in quel «venga il Tuo regno» imparato fin da bambino: «Io prego sempre Dio che – mentre sono in vita – non mi conceda la soddisfazione del grande successo, perché a tale riguardo sono debole, e cederei con facilità alle tentazioni dell’orgoglio. Così sono grato al Signore che con la crisi della ditta paterna, mi abbia sottratto al pericolo di farmi un costume della ricchezza. Se noi continueremo a cercare il Regno di Dio, tutto ciò che ci occorre, ci sarà dato con sufficiente abbondanza, come è accaduto finora». (3) «Se noi continueremo a cercare il Regno di Dio»: questa motivazione non sarebbe stata sulla bocca della gran parte dei praticanti di quel tempo.
Anche la loro dedizione alla parrocchia e al paese non derivava in maniera cosciente dalla pratica domenicale. Piuttosto si sovrapponeva a essa. Quest’ultima, d’altra parte, era per i più esito di un costume ereditato meccanicamente in famiglia, certo importante, ma scarsamente consapevole della sua forza cattolica. Mi riferisco al valore omnicomprensivo della celebrazione eucaristica. Essa infatti ha a che fare con tutti gli aspetti della realtà, con tutti i rapporti e le circostanze in cui ogni donna e ogni uomo si imbatte. Solo a queste condizioni cambia l’io e lo rende «preda» del fascino di Gesù Cristo.
L’assenza massiccia di questa consapevolezza le cui cause cominciano da lontano (modernità) è stata purtroppo il terreno fertile su cui ha attecchito la crisi della forma di cattolicesimo popolare descritta da Corti. Nel Fumo del tempio, raccolta di articoli, interviste, brevi saggi che ben illustrano il pensiero del nostro autore, il giudizio sul mondo cattolico è acuto e coraggioso, ma bisognoso di essere meglio articolato, soprattutto per gli anni successivi al ’68.
E’ un compito che Corti ha lasciato a noi. Pensiamo, per esempio, alla crisi della proposta educativa ai giovani. Un’educazione che aveva alle spalle il clima culturale appena descritto ha incontrato purtroppo il radicalismo sessantottino. Col suo duplice obiettivo di rivoluzione sociale e di rivoluzione sessuale, esso ha offerto un ambito di coinvolgimento più convincente. L’associazionismo cattolico giovanile, che fino a quel momento era ancora un fatto di massa, si è sostanzialmente dissolto come neve al sole. La stessa cosa possiamo dire per gli intellettuali cattolici e, entro certi limiti, per il clero e per i religiosi oltre che per le famiglie cristiane. Il ’68 infatti – rapidamente sparita la volontà di superare la società dei padri con la sua ipocrisia e l’incapacità di favorire la libertà – ha trovato presto i suoi corifei non solo nella «repubblica delle lettere» ma in tutti i campi del sapere, soprattutto in quelli legati all’antropologia. L’intellighenzia cattolica ha pertanto subito pesanti emarginazioni (Corti cita Apollonio). E’ noto che Padre Gemelli, non a caso un convertito, aveva fondato l’Università Cattolica proprio anche per superare questo stato di cose.
Il cavallo rosso, un classico
Il caso singolare di Eugenio Corti non può, in ultima analisi, essere compreso se non partendo dalla sua diretta esperienza di «membro» – per usare la sua espressione – della «repubblica delle Lettere». L’indubbia emarginazione subìta, ben evidente dalla difficoltà di trovare un editore per Il Cavallo rosso è sufficiente a dimostrarlo, fino al momento in cui Cesare Cavalleri e l’Editrice Ares, intuendo la portata del romanzo, si sono fatti carico del grande lavoro di pubblicare l’opera omnia di Corti. Tuttavia il successo di pubblico ottenuto urge alla domanda sul valore oggettivo di questo romanzo a cui tutte le altre opere di Corti, anche quelle non strettamente letterarie, per finire girano intorno.
Con Il Cavallo rosso siamo di fronte a un romanzo che non perde col passare del tempo la sua forza perché continua a parlare all’uomo di oggi? Per usare un termine tecnico, Il Cavallo rosso è un romanzo «regionalistico» nel senso che parla a un pubblico circoscritto nel tempo e nello spazio oppure tocca le corde dell’esperienza umana universale? E’ per così dire un classico della letteratura contemporanea italiana? Una prima notazione in proposito, da non sottovalutare, riguarda un dato importante: il romanzo di Corti ha avuto edizioni specifiche per le scuole ed è divenuto uno tra i volumi di consigliata lettura scolastica. Un secondo dato è il numero delle edizioni e delle traduzioni che ha ricevuto.
Certamente questi sono ancora dati esteriori. E’ però fuori dubbio che Il Cavallo Rosso possiede un carattere universale. Ha la sua forza nel far parlare le cose e farlo con un coinvolgimento personale e diretto con i lettori.
In questo senso è un romanzo storico nel senso pieno del termine. Mi sembra utile ricordare qui la differenza che Alessandro Manzoni introdusse tra il lavoro dello storico e quello del poeta (il termine è usato in senso lato) nella sua celebre Lettre à Monsieur Chauvet: «Perché infine che cosa ci dà la storia? Degli eventi che non sono, per così dire, conosciuti che dall’esterno; ciò che gli uomini hanno fatto; ma ciò che hanno pensato, i sentimenti che hanno accompagnato le loro decisioni e i loro progetti, i loro risultati fortunati e sfortunati, i discorsi coi quali hanno fatto o cercato di fare prevalere la loro passione e la loro volontà su altre passioni o altre volontà, per mezzo dei quali hanno espresso la loro collera, effuso la loro tristezza, in una parola hanno rivelato la loro individualità: tutto questo e qualcos’altro ancora è passato sotto silenzio dagli storici; e tutto questo è dominio della poesia. […] Tutto ciò che la volontà umana ha di forte e misterioso, tutto ciò che la sventura ha di religioso e di profondo, il poeta può indovinarlo, o, per dir meglio, può vederlo, comprenderlo ed esprimerlo». (4)
E’ significativo in proposito che Corti, una volta divenuto sottotenente e chiamato alle armi, abbia fatto di tutto per essere assegnato al fronte russo. E questo, come lui stesso dice, per «vedere di persona la “società degli uomini nuovi” comunisti, il mondo nuovo intorno al quale Stalin aveva costruita una cortina di ferro allora quasi invalicabile. Ho visto e sono rimasto terrorizzato per il resto della mia vita. Non credo che uno possa fare oggi lo scrittore – possa cioè rendere conto del mondo nel quale si trova a vivere – se non ha sperimentata la realtà…». (5)
Per ricordare i cent’anni della nascita di Eugenio Corti abbiamo fatto irruzione qua e là nella sua opera di letterato e di scrittore, soprattutto nel singolare romanzo Il Cavallo rosso. Abbiamo osato, anche da incompetenti, esprimere qualche giudizio di carattere letterario. Terminerò facendo riferimento alla conclusione del romanzo. Quasi a sorpresa l’autore chiude il poderoso volume con la morte di Almina, moglie di Michele. Siamo nella settimana precedente al referendum sul divorzio del 1974. Michele è impegnato a sostenere la posizione, guidata da Gabrio Lombardi, del Sì all’abrogazione della legge. E lo fa con la passione e la totalità che lo caratterizzano. A notte avanzata, dopo uno dei tanti incontri organizzati battendo capillarmente il territorio della Lombardia, telefona alla moglie Almina per avvisarla che ha avuto un guasto all’auto a Dervio, perciò dovrà passarvi la notte, in attesa del meccanico l’indomani mattina. Alma decide di raggiungerlo immediatamente in piena notte con la Fiat 125 del padre, ma nel viaggio un giovane alla guida di un’auto sgangherata, sotto l’effetto di stupefacenti, urta la 125 che, dopo violente sbandate, finisce nel lago e la giovane donna muore.
«Mentre, rotolando lentamente sott’acqua, la macchina col corpo senza vita d’Almina precipitava giù giù verso il fondo del lago, la sua anima e i due angeli custodi [il suo e quello del marito] affiorarono insieme nell’al di là» (p. 1273). La scena è centrata su una delle dimensioni portanti dell’esperienza umana, l’amore narrato secondo tutte le sue declinazioni: da quella nuziale a quella degli affetti familiari che si dilata alla grande famiglia del paese. Indimenticabile in questo senso l’incontro di Almina con Marietta delle spole, la sua bambinaia, la prima che le si fa incontro in Paradiso. E’ una pagina intensa, che veicola la potenza letteraria della fede. La forza di questo inaspettato finale contribuisce a documentare il respiro universale di tutto il romanzo. Cercare sempre il regno di Dio resta l’orizzonte adeguato anche ai nostri tempi. Permette di comprendere tutte le implicazioni – antropologiche, sociali e di rapporto col cosmo – necessarie per vivere e testimoniare il bene della fede in Cristo alle donne e agli uomini di oggi. Confusi ma sempre ultimamente esposti a lasciarsi attrarre da Gesù. Cercare sempre il regno di Dio illumina, tra l’altro, l’errore oggi purtroppo assai diffuso anche tra cristiani: separare la vita terrena dalla vita eterna, come se fossero due realtà, mentre sono un’unica cosa.
Se Dio è amore, Gesù ci chiede di entrare in questo amore che è unità, verità, bontà e bellezza. Amare in Cristo nonostante tutti i nostri limiti e peccati: per questo i nostri angeli custodi sono sempre al lavoro con noi e per noi. Come l’Angelo Custode di Michele con cui si chiude il romanzo: «“Beh, io devo tornar giù [da Michele]” disse con un mezzo sospiro, “il mio posto è ancora là”, e schiuse le ali per lanciarsi nel tragico mondo degli uomini» (pagina finale, 1274).
Note
1 Dall’intervista pubblicata nell’ottobre 1988 sui Quaderni della Brianza a cura di Camillo Ravasi.
2 Ibidem.
3 Lettera a Vanda del 9 dicembre 1993
4 A. Manzoni Lettre à Monsieur Chauvet sur l’unité de temps et de lieu dans la tragédie, 1820.
5 Dall’intervista citata.
(card. Angelo Scola, 15/09/21, tratto da Studi Cattolici 728)