Testimoni di un’epoca: intervista a Massimo Caprara ed Eugenio Corti
Incontro tenutosi giovedì 31 maggio 2001 a Bologna
Pier Paolo Gatta – L’incontro nasce dalla sorpresa che lo scorso anno è successa: due milioni di giovani davanti al Papa liberamente richiamati e colpiti da questa testimonianza. Nei giorni seguenti diverse personalità sono state chiamate a prendere posizione rispetto a quel fatto e tra queste Don Giussani, di cui leggiamo due frasi di una intervista che ci ha mosso per proporre questo incontro, per chiedere ai nostri ospiti di eccezione di poter intervenire in questo dibattito.
Chiede il giornalista: “Con CL ha incontrato i giovani degli anni delle ideologie, poi quelli degli anni delle utopie e ora degli anni del cinismo del mercato, quale dei tre periodi è stato più pericoloso?”. “Quello delle ideologie, un rischio presente dalla rivoluzione francese in poi”. Il giornalista insiste: “Perché?”. “L’ideologia sviluppa un fattore dell’esperienza della vita, del cosmo, della società umana facendola esorbitare dai suoi limiti e lo sostituisce al mistero che fa tutte le cose proclamando qualche suo aspetto a regola di vita o giustizia per l’uomo”.
Per approfondire questa provocazione, per guardare a questo giudizio abbiamo chiesto a Caprara e a Corti di testimoniare la loro esperienza. Li ringrazio fin d’ora della loro disponibilità che ci sembra il primo elemento di eccezionalità di questa serata, una disponibilità cordiale, amicale e li ringrazio perché sono qui per dire la loro esperienza che è stata partecipe di momenti decisivi della storia del secolo scorso dalla guerra in poi. Verranno intervistati da Respinti, giornalista di Tempi, un amico, che guiderà il dibattito e alla fine ci sarà la possibilità di qualche domanda dal pubblico.
Marco Respinti — Mai come in questa occasione il titolo è azzeccato: “Testimoni di un’epoca”.
Siamo di fronte a due personaggi non comuni — mi permetteranno di definirli così —, che hanno attraversato questo secolo difficile, il «secolo delle idee assassine» — come lo definisce la traduzione italiana del titolo della più recente fatica dello storico britannico Robert Conquest —, un secolo particolarissimo. In nostri ospiti di questa sera l’hanno attraversato non esponendo tesi e teorie, ma vivendolo profondamente, in maniera propria, come essi stessi ci racconteranno.
Alla mia sinistra Massimo Caprara, che per vent’anni, a partire dal 1944, è stato segretario personale di Palmiro Togliatti e che ha rotto con il Partito Comunista Italiano nel 1969, in occasione dell’invasione sovietica della Cecoslovacchia. Per questo, come avrà modo di raccontarci, è stato testimone e protagonista di primo piano di una delle vicende più importanti e forse cruciali della storia del nostro Paese. Caprara, giornalista professionista, è autore di volumi straordinari di cui consiglio vivamente la lettura. Personalmente, ho imparato qualche cosa in più di un’epoca che, per ragioni anagrafiche, non ho vissuto in prima persona. I suoi libri sono infatti strumenti straordinari per penetrare bene quegli avvenimenti, per entrarvi guidati per mano da chi li ha vissuti, per fare breccia in un mondo che non è mera archeologia, che non riguarda solo il passato, ma che ancora è di eccezionale attualità.
Alla mia destra, Eugenio Corti, nato e residente a Besana Brianza, uno dei cuori di quella straordinaria piccola regione del nord della Lombardia, la Brianza, definita da qualcuno la “piccola Vandea lombarda”, carica di una tradizione ricchissima di cui lo stesso Corti è grande testimone. Questa sera vogliamo lasciarci condurre da lui alla scoperta del significato e del contenuto di quel mondo particolare di cui egli a pieno titolo fa parte. Anche Corti ha pubblicato libri preziosi che invito caldamente a leggere, primo fra tutti (anche se non primo cronologicamente) Il cavallo rosso, affresco grandioso, secondo il genere letterario del romanzo, di un’epoca della nostra storia segnata da veri e propri punti nodali, e tale ancora una volta non come frutto di semplice studio, ma di vita vissuta.
Altri suoi titoli sono: Gli ultimi soldati del re, I più non ritornano e Il fumo nel tempio, una raccolta di saggi, questa, molto significativa. Sono questi gli amici di stasera, a cui cedo subito la parola. La mia funzione sarà solo quella di stuzzicarli a narrarci le loro esperienze. La prima domanda è per Massimo Caprara, invitandolo a sviluppare la risposta a partire proprio da quanto ha visto e vissuto personalmente. Qual è il filo di tutta la sua vicenda personale, quali sono stati gl’incontri che hanno segnato la sua esistenza, lui che per vent’anni è stato gomito a gomito con Togliatti, indubbiamente uno dei grandi protagonisti almeno di una certa parte della storia nazionale italiana?
Massimo Caprara – Vi ringrazio di essere venuti questa sera a questo incontro e di avermi invitato insieme a Corti; è un privilegio che voglio sottolineare, ci siamo conosciuti a Rimini, al Meeting di Rimini… Può sembrare strano ma mi trovo in qualche modo intimidito a raccontare me stesso. Vorrei rispondere alla tua domanda cominciando dalla mia carta d’identità. Sono stato prigioniero volontario per più di venticinque anni – non è un giorno – prigioniero volontario di un’ideologia e di una cultura, e in quella prigionia io ho militato con calore e con ardore, con convinzione. Questa prigionia non può essere dimenticata perché è una prigionia che lascia un segno, che lascia un deposito di memoria, la prigionia di una ideologia e una cultura autoritaria che si chiamò e si chiama comunismo ed era vissuta nella versione italiana, la versione togliattiana, cioè nella versione intellettuale. Devo dire che altra cosa è il comunismo, la nomenclatura del partito, vale a dire coloro che hanno diretto, hanno fondato, hanno diretto con compiti di responsabilità, altra cosa è l’elettore comunista che è entrato nel partito magari convinto di assolvere la sua più grande aspirazione di giustizia, libertà e invece ha trovato il contrario, l’ingiustizia, la non libertà, la mancanza anche delle cose fondamentali che riguardano la vita dell’uomo. Ma di questo comunismo che cosa ho vissuto?
Per 25 anni, dal 1944 al 1969, sono stato membro del Partito comunista. Dal 1952 sono stato sindaco della città di Portici. Sono stato membro del comitato centrale e sono stato segretario del capo del Partito Comunista Togliatti per circa venti anni, facendo anche altri lavori, quindi che cosa ha significato per me la milizia politica?
Ha significato conoscere la maschera e il volto reale. Conoscere dei semplici ed anche fedeli militanti e anche dei capi, ho conosciuto persone non comuni, persone come Stalin, o invece come Quito, come Che Guevara. Ho conosciuto persone che avevano il volto dell’eroe come Che Guevara che è morto in modo eroico, in modo efferato. Che Guevara che è stato il più grande sequestratore e carceriere cubano. Che Guevara all’inizio, io l’ho conosciuto nel 1964, era ministro dell’economia, è stato anche procuratore generale. Quando vedo molti giovani che inconsapevolmente, non certo per loro colpa, portano la maglietta di Che Guevara mi rendo conto che portano la maglietta di uno dei peggiori carcerieri del mondo moderno. Le prigioni di Cuba sono state inventate da Che Guevara, le peggiori sevizie, le peggiori efferatezze sono state inventate dal medico Che Guevara.
Ho conosciuto Kruscev, ho conosciuto Mao Tze Tung, ho conosciuto anche De Gasperi; grande uomo politico fu Aldo Moro, ho conosciuto evidentemente Berlinguer. Ho conosciuto anche il giovanissimo D’Alema che era segretario della Federazione Giovanile Comunista, ho conosciuto anche Veltroni ma quello non conta perché evidentemente non vale niente… ma esiste.
Ho conosciuto anche Stalin, ma io non voglio, perché la mia esperienza è soltanto un’esperienza drammatica, non voglio che rimanga in voi l’impressione che la mia vita, la vita di un ex comunista, sia solamente di tragedia e di sangue. Ho conosciuto Stalin e ho avuto occasione di vederlo in modo grottesco, l’ho conosciuto nel 1950 perché Togliatti era in una dacia zarista che era diventata una dacia sovietica e conobbi lì Stalin. Precedentemente l’avevo visto non da vicino, nei congressi, a distanza. Nel 1950 mi accadde di vederlo da vicino, eravamo nella dacia di Barghidda, altra ex zarista, gli portai questo documento, c’era anche l’onorevole Iotti, era una delle prime uscite pubbliche che lei faceva col suo compagno.
Una mattina Togliatti aveva ricevuto una visita di due ufficiali dell’accademia, grandi ufficiali molto pittoreschi e imponenti, erano quelli che facevano la guardia al mausoleo di Lenin. Questi due ufficiali avevano detto a me e alla Iotti di aspettate fuori perché Togliatti doveva ricevere una persona importante, e Togliatti non diceva persona importante per avventura: era Stalin. Era il mese di marzo e faceva un freddo pungente e la Iotti uscendo dalla dacia infilò la sua pelliccia di zibellino che in effetti non era sua, era la pelliccia di zibellino che davano appena arrivava la compagna di un capo comunista alla stazione (un capo comunista non poteva viaggiare se non in treno). Appena arrivato alla stazione Togliatti era stato ricevuto con il grande tappeto rosso della guardia armata; Togliatti era un capo non soltanto del partito italiano ma un anche del partito internazionale comunista quindi un capo che nella graduatoria di potere era un capo come Stalin; la Iotti indossò questo zibellino perché lo davano quando una compagna arrivava e poi lo ritiravano quando partiva.
Intanto che camminavamo nel giardino ed io tremavo dal freddo perché ero uscito soltanto con la giacca, all’improvviso vidi venire una specie di monumento, un monumento che camminava ed era Stalin. In quel momento cominciai ad avere un freddo terribile da lacrimare gli occhi, io lacrimavo ma era il freddo. Stalin mi guardò ed equivocò, quando Stalin mi passò accanto mi diede una pacca sulla spalla perché non sapeva che piangevo per il freddo e non per l’emozione di averlo visto, e mi disse qualche cosa che non capii ma era qualche cosa particolare; sono stato l’unico comunista ad aver ingannato Stalin e a non essere stato ucciso!
Sono stato poi radiato, che non significa espulso, radiato significa essere accompagnato alla porta. Nel partito comunista non sono più tornato dal 1968. È per dirvi che tra i comunisti ho trascorso una vita e che del mio passato io non mi assolvo. Ho sentito molto, ho messo al netto responsabilità individuali e collettive e ne porto quindi il peso materiale e morale, io non mi assolvo, ma se non mi assolvo neanche ho deciso di fustigarmi, neanche ho deciso di assentarmi, neanche ho deciso di non esserci, ho deciso invece e ho il dovere della testimonianza. Io devo testimoniare e tra tutti i diritti che dà oggi il nostro paese io non posso avere il diritto di tacere, devo testimoniare; in questo modo realizzo non soltanto la mia funzione privata ma realizzo la funzione che mi detta il cuore e mi detta anche la mente. Non mi assolvo, per questo scrivo i libri, per questo parlo perché se discuto con voi questa sera è per questa ragione. Se avessero vinto queste elezioni sarei più preoccupato, non potrebbero certamente mandare i carri armati a casa, però… Il discutere per la mia vita significa anche che io voglio impedire che il passato venga rimosso: il comunismo e il post comunismo non è archeologia, evidentemente qualcosa appartiene alla nostra vita, alla vita di tutti.
Ma perché sono entrato nel Partito Comunista? Io ero molto giovane, e tutto è dipeso dall’incontro fatto con Togliatti. Ero uno studente universitario che per ventura (al primo anno di Università avevo invitato la sezione comunista napoletana a tenere una conferenza) venne chiamato da Togliatti a casa sua. La sua casa era molto modesta ed io sentivo venire dalla cucina il rumore dell’acciottolìo delle stoviglie, abitava con la sua prima moglie.
Per prima cosa Togliatti mi chiese: “che ne pensi di Vittorini?” Vittorini è un letterato, allora aveva appena scritto un romanzo importante che si chiamava Conversazioni in Sicilia. Togliatti mi chiese che ne pensavo di Vittorini, non di politica, ed io concepii l’errore che il partito comunista fosse un partito in cui si poteva fare anche della cultura e rimasi un’intera giornata a discuterne. Togliatti era una persona molto erudita, aveva studiato a Torino e a Genova. Aveva una cultura di tipo sabaudo. Io fui affascinato dall’idea di diventare giornalista, Togliatti propose a me, giovanissimo studente universitario, di diventare Redattore capo del giornale da lui fondato, Rinascita, e mi disse anche: “Dal momento che ti ho scelto come segretario di Rinascita sarai anche il mio segretario”.
L’unico elemento che il partito comunista non poteva tollerare – e questo Togliatti non me lo disse, lo capii – l’unico elemento che il partito non poteva tollerare era la chiesa cattolica. In quell’incontro del 1 maggio 1944 ebbi però una fascinazione intellettuale, Togliatti emanava un grande fascino intellettuale, fui animato da una passione culturale, da una passione antiborghese, da una passione in qualche modo utopica, da una passione immaginaria se volete, anche illogica, che è la passione del partito comunista, del politico. Badate, io non avevo motivi di essere iscritto al partito comunista per questioni di classe. Io provenivo da una ricca famiglia napoletana da sempre borghese e monarchica.
Fui comunista per motivi culturali e fui comunista con tanta convinzione che certamente aumentai di grado, perché l’ingresso fu facile nel partito comunista, ma non fu facile la rottura, è stato un processo lungo e doloroso, non lo auguro a nessuno, un processo in cui scopri di non essere stato uomo per lungo tempo, uomo con tutto quello che la parola uomo significa. Sono uscito quindi dal partito comunista nel 1968/69. Perché sono uscito? Io non sono tra coloro che pensano che l’ideologia comunista vada bene in generale però non vada bene la sua applicazione pratica. Non sono comunista perché penso che l’applicazione pratica sia assieme all’idea del comunismo sbagliata, irreale, impossibile.
Non è che il comunismo sia un bene e ce n’è uno cattivo e un altro buono, no, è sbagliato nel suo complesso, nella sua idea, nella sua ideologia, quindi anche nella sua pratica. Badate, se volete fare una torta buona non potete farla con le uova marce. Il comunismo è l’uovo marcio nel mondo moderno, certamente il comunismo vuole rispondere al grido di Spartaco, il grande grido di liberazione dell’uomo. Chi risponde al grido di Spartaco? Ci sono anche molti altri partiti, altre idee, modalità di pensiero. Il partito comunista però risponde nel modo peggiore, nel modo sbagliato. Dico che il comunismo è uno sbaglio per alcuni motivi gravi, evidenti. In primo luogo è sbagliato perché l’egualitarismo è un’idea che va assolutamente contro la libertà dell’uomo, l’egualitarismo dice che l’uomo è uguale dappertutto e con ciò fissa l’impossibilità dell’uomo di emergere, di esistere, di competere.
In secondo luogo il comunismo è sbagliato perché la tanto desiderata libertà collettiva asserita dal comunismo contraddice e confligge con la libertà individuale, l’uomo non è libero soltanto perché si dice che collettivamente è libero. È l’idea di “uomo collettivo” che distrugge l’esistenza e la possibilità di amore all’uomo singolo. Sono convinto che l’ideologia del comunismo, col suo odio di Dio, con il suo odio della trascendenza, che considera Dio come superbia e come dannoso è del tutto inaccettabile, è contraria alla speranza dell’uomo, è contraria alla verità dell’uomo. Io sono in fondo convinto, dolorosamente, che il comunismo sia conflittuale con l’essenza ultima dell’uomo, col senso estremo dell’uomo. Il mio itinerario è un itinerario in qualche modo, nonostante la mia esperienza, un itinerario positivo. Ho vissuto il male intellettuale, ma proprio perché ho vissuto il male ho ricevuto una spinta dal basso, dal fondo del mio male, un recupero, un desiderio di bene. Il bene è nato in me dal male. Non c’è altra spiegazione: il male vissuto coscientemente porta a un recupero, porta alla speranza della verità, basta non aver paura della verità.
C’è una grande persona da cui ho imparato a conoscere la verità, don Giussani. Don Giussani insegna che la verità è una lotta, è una decisione continua e la verità è un traguardo che spinge più in là. Ecco la chiave: don Giussani. Don Giussani insegna a non avere paura della verità, insegna una parola sintomatica, una parola rivelatrice, l’ha presa da un poeta italiano del ‘900, questa parola Giussani l’ha conosciuta attraverso Montale, attraverso le sue letture su Leopardi. Questa parola è “più in là”. “Più in là” significa una storia, un evento continuo che si rinnova ogni giorno, significa andare oltre l’effimero, andare oltre il mondano, significa andare là dove si avverte la sola speranza che ci può salvare, dove la speranza che salva genera una vita nuova. Grazie.
Marco Respinti — Tante, fra quelle pronunciate, sono le parole che vorrei tornare a sottolineare. Quel «non mi assolvo» che continuamente torna… Non è la prima volta che odo Caprara pronunciare a viso aperto questa frase, ma tutte le volte che capita è come se un brivido sempre diverso mi corresse lungo la schiena. Perché è esattamente il contrario di quello che il mondo in cui siamo immersi ci vorrebbe insegnare a fare sempre e costantemente: essere immotivatamente indulgenti con se stessi e autoassolversi per non aver mai (nemmeno in ipotesi) commesso il fatto o per non essersi nememno accorti di esso. Ma, come ci dice Massimo Caprara, occorre tenere sempre presente la storia — quella che stasera egli ci ha brillantemente sintetizzato —, anche quella storia personale che pesa sempre sulle nostre vite e che però proprio per questo è la condizione indispensabile onde poter pronunciare sulle cose non la parola “fine”, ma la parola “inizio”. Dal racconto di Caprara credo di capire che autoindulgenza e autoassoluzione siano solo gli alibi che ci permettono d’ignorare, di sfuggire alla storia, anzitutto e soprattutto quella personale.
Ecco ora la parola a Eugenio Corti, perché anche lui, a partire dalla sua storia personale, dalla narrazione dei fatti che ha vissuto, ci racconti una vicenda diversa e complementare a quella di cui è stato protagonista Massimo Caprara. Mi piacerebbe che egli partisse dalla tradizione popolare della sua Brianza con cui abbiamo cominciato: in che modo quella tradizione di cui egli è figlio e di cui si sente orgogliosamente erede ha contribuito a formare quei giudizi di valore sulla realtà di cui poi l’Eugenio Corti narratore e saggista ha infuso tutti i suoi libri, in particolare a fronte di un fatto così dirompente, così lacerante, così apparentemente svuotante di significato come è quello della seconda guerra mondiale, vero scontro fra titani — i totalitarismi — di cui ci ha parlato, almeno per un aspetto, Massimo Caprara? Quindi, in che maniera il peso di quella stessa tradizione, di cui poi egli ha saputo con il tempo approfondire in prima persona tutte le ragioni, ha aiutato Eugenio Corti a comprendere, a giudicare e a guardare con così tanta originalità quei fatti drammatici?
Eugenio Corti – Presentandomi non posso che riferire una storia molto più terra terra di quella che abbiamo sentito adesso. Caprara ha vissuto ad uno dei livelli più alti il dramma del ventesimo secolo. Io ho vissuto viceversa a livello della gente comune della gente di tutti i giorni. Molto in breve, quando io sono partito per la guerra uscivo da un ambiente cristiano, era l’ambiente cristiano del mio paese, l’ambiente di cui vi ha parlato Marco Respinti. La Brianza è una terra che occupa la parte settentrionale della provincia di Milano, quella meridionale della provincia di Como e quella meridionale della provincia di Lecco. È una popolazione sì e no di un milione di abitanti che ha però delle caratteristiche sue; è una popolazione bianca, come si suol dire, i briantei definivano se stessi in termini dialettali perché la loro cultura è una cultura popolare cristiana, si definivano “paolotti” che è un termine che usato dagli altri era di dispregio, usato da loro, da me che sono “paolotto”, è un termine che vuole essere distintivo – io poi l’ho cercato anche nei romanzi nei libretti che erano in voga senza riuscirci, è un termine che i giovani non conoscono neanche più.
Nella nostra zona, che è una parte della diocesi di Milano, la diocesi di S. Carlo Borromeo, si era fatta sentire con particolare efficacia la cultura di S. Carlo, l’impostazione di S. Carlo che, come sapete, nel 1500 dopo il Concilio di Trento era stato il personaggio maggiore, quello che aveva avviato la riforma dell’ambito cattolico. La riforma del Concilio di Trento non è stata una controriforma come vuole la cultura dominante, che la contrappone semplicemente a quella protestante, è stata una riforma autentica del mondo cristiano e si è fatta sentire in tutto il mondo cristiano.
Praticamente il Concilio di Trento è stato un grandissimo recupero, purtroppo non ha potuto raggiungere le zone del nord Europa che ormai si erano staccate dalla comunità cristiana cattolica. Si è fatta sentire in particolare nella nostra terra attraverso un processo secolare, sul quale non mi soffermo, e che comunque è stata una cultura che adesso è in lento dissolvimento, soprattutto sotto la pressione della televisione. È una cultura popolare separata dalla cultura delle classi dirigenti che da noi, come del resto in Italia, era di impostazione liberal-massonica – una impostazione importante che ha portato all’unità d’Italia; comunque la nostra non era quella cultura lì, era diversa. L’industrializzazione da noi è partita prima che in qualsiasi altra zona d’Italia, tanto è vero che la prima Associazione degli Industriali non è stata quella di Milano o di Torino ma è stata quella di Monte Brianza.
Era una terra che era più povera delle grandi pianure e che ha subito recepito questo fatto nuovo dell’industrializzazione. Gli industriali che sono arrivati in Brianza venivano dal mondo francese alcuni, nella maggior parte dal mondo tedesco o svizzero tedesco. Pochi hanno dato l’avvio, poi sono state avviate immediatamente le attività industriali e sono stati gli operai di Milano a diventare piccoli industriali o grandi industriali. Questi qui, una volta diventati industriali, hanno surclassato completamente la cultura dei proprietari terrieri ma non sono stati assorbiti dalla cultura della classe dirigente, non sono diventati liberal-massoni ma si sono conservati “paolotti”.
Allora questa cultura qui, che era quella del popolo, è diventata quella della classe dirigente e tutta questa zona è diventata bianca. Da questa cultura partivo io; ho fatto il ginnasio e il liceo in un collegio di preti a Milano, tra l’altro all’avanguardia sotto il profilo dell’impostazione culturale. Poi poco prima dello scoppio della guerra mi ero iscritto all’Università Cattolica e avevo fatto anche un trimestre. Il mio primo trimestre dell’università prima di andare sotto le armi. Poi sono andato sotto le armi, io, di impostazione cristiana, perché lo era il mio mondo e lo erano soprattutto i miei genitori. Mio padre era stato una figura classica di quel tracciato culturale che vi ho accennato, era di origine popolare, poco più che operaio, poi era diventato dirigente tecnico in un’industria con venti operai, poi era riuscito ad acquistare questa industria e man mano l’aveva portata avanti, aveva fondato il Partito Popolare nel paese – era il periodo delle fondazioni del partito popolare – la prima sezione dell’Azione Cattolica.
Vi potete immaginare da che ambito venivo fuori io, cattolico convinto, ma anche la caratteristica della nostra gente era di essere cattolica di impostazione culturale popolare non per semplice tradizione ma proprio per convinzione, secondo il “la” ricevuto da S. Carlo e trasmesso attraverso quattro secoli. Nei riguardi del comunismo io seguivo l’indirizzo di Pio XI, il Papa che c’è stato prima dello scoppio della guerra, che tra l’altro era uno dei nostri, di Desio, un paese della Brianza. Avevo intenzione di fare lo scrittore, ma il mio desiderio non veniva dalla Brianza ma da una scoperta che avevo fatto da ragazzino, quando ho incontrato Omero. I testi di Omero ci sono stati distribuiti nel primo e nel secondo anno del ginnasio, vale a dire nel primo e secondo anno della scuola media oggi. Io non sapevo neanche che esistesse Omero, quando mi sono trovato davanti questi testi ho cominciato a leggerli e ho scoperto tutto il bello, era qualcosa preparato per me, fatto per me, un’eredità che mi era stata lasciata da uno che l’aveva messo in scena 2700- 2800 anni prima proprio per me e ho avuto la sensazione fortissima che questo poeta del passato, Omero, aveva fatto una cosa veramente straordinaria, aveva trascinato nel mondo una quantità enorme di bellezza. Io dovevo seguire quella stessa strada. Fin da ragazzino avevo avuto l’idea di fare lo scrittore.
Quando c’è stata l’invasione della Russia da parte di Hitler, Mussolini aveva deciso di partecipare, di inviare un corpo di spedizione, un corpo d’armata al fronte russo. Io ero stato chiamato alle armi all’inizio del ’41 dopo aver fatto due mesi di università, ho fatto il corso ufficiali e nel frattempo c’è stata questa grossa novità degli italiani che partivano per la guerra in Russia. Avevo fatto quei pochi mesi di università e avevo conosciuto una ragazza che era una matricola come lo ero io. Era la Nilde Iotti, che allora era molto carina, e cercai di abbordarla un po’ ma mi mise subito a posto con frasi dure, severe: “ma guarda qui quelli che perdono tempo e vogliono farlo perdere anche agli altri”.
Durante i mesi dell’Università feci però una scoperta importante. Volendo fare lo scrittore frequentavo la biblioteca e nella biblioteca dell’università ho trovato una rivista che aveva come direttore Emmanuel Mounier. Mounier era il braccio destro in politica di Jacques Maritain, del grande filosofo Maritain e, parlo prima della guerra ma questo è valso anche subito dopo la guerra, Maritain era l’esponente numero uno, era veramente il capo della cultura cattolica francese, la quale contava nella prima metà del secolo personaggi grossissimi anche in letteratura. In questa rivista Mounier diceva che c’è un giudizio negativo sul comunismo russo, un giudizio che viene dai fascisti, dai nazisti e dai demoplutocrati capitalisti inglesi e americani.
Questo giudizio secondo Mounier sarebbe sbagliato, perché in realtà i comunisti russi sono più cristiani di noi. È stato un colpo piuttosto forte, ho cercato di approfondire più che potevo in quei due mesi di università ma non ero convinto che avesse ragione Mounier piuttosto che mio padre e mia madre e il mio popolo, però se questo era il portavoce di Maritain bisognava andare a vedere cosa succedeva. Io che ero contrario alla guerra ho fatto subito la domanda di partire volontario per il fronte russo, soltanto che i fascisti erano parolai con la guerra, “medicina dell’umanità”, ma poi in realtà anche chi voleva andare alla guerra volontario non lo mandavano e infatti non sono riuscito a partire…
Poi ho scoperto una possibilità; che chi riusciva a piazzarsi tra i primi dieci della graduatoria al corso ufficiali – ed io ero sottufficiale all’artiglieria di Moncalieri – poteva poi chiedere come assegnazione un reggimento a sua scelta; ne poteva chiedere tre e uno dei tre gli sarebbe stato dato e allora cominciai a studiare come un pazzo per potermi piazzare nella graduatoria e ci riuscii; c’erano quattro reggimenti di artiglieria io ne chiesi tre e mi assegnarono ad uno di questi tre che mi portò nel mio viaggio al fronte russo. Sono partito dalla stazione di Bologna nel marzo del 1942 e il mio intendimento era di parlare con i russi per vedere cosa era stato realmente il comunismo, allora si diceva che i nazisti avrebbero distrutto i comunisti e se non fossi partito io non avrei più potuto conoscere questa ipotesi di liberazione dell’uomo che era il comunismo. Mi rendevo conto che c’era stato un tentativo di riscatto dell’uomo fatto al di fuori della liberazione di Dio e contro la liberazione di Dio e volevo vedere che frutti aveva dato, anche perché circolavano voci di eccidi di milioni di persone in Russia.
Quando prima di partire ho cercato un testo che mi desse un’idea più completa del comunismo, non l’ho purtroppo trovato. I fascisti avevano la possibilità, citando notizie reali e fatti realmente accaduti, di scrivere libri e di fare veramente propaganda contro il comunismo, ma non se ne erano neanche curati. Io ero partito senza preparazione, come tutti gli italiani che allora consideravano il nazismo come una variante di destra del fascismo, quindi un fascismo un po’ più rigido, più coerente e basta. Invece era completamente diverso. Il nazismo si è manifestato ai miei occhi come un fenomeno assolutamente demoniaco, un fenomeno che odiava e distruggeva l’uomo. Mi è venuto in mente il discorso che ci aveva fatto il professore di filosofia in terza liceo a Milano. In quell’epoca lì c’era da studiare nella storia della filosofia le varie concezioni del mondo, quindi c’era la concezione fascista prima di tutto; poi c’era la concezione marxista a cui noi non avevamo dato importanza perché ci era stata messa davanti una storia che era sommamente tragica e vera; poi c’era la concezione liberale e la concezione cristiana, anzi, le concezioni cristiane della storia, che non ricordo neanche più perché nella realtà non ho più ritrovato.
Fra le concezioni cristiane della storia c’era la concezione agostiniana, che invece nella mia esperienza al fronte è venuta fuori in una maniera straordinaria. S. Agostino dice che tutta la storia dell’uomo da quando l’uomo abita la terra è stata una continua alterna sovrapposizione di due città – con città intendeva società – la città terrena e la città celeste (la celeste è la società di Dio). Che cosa intendeva con la città celeste?
Erano le società che gli uomini mettevano insieme per convivere. Società a livello comunale, provinciale, statale, lui ha vissuto negli ultimi anni dell’impero romano quindi a livello del mondo di allora. Mentre la città terrena era la società di quelli che indipendentemente dalle loro idee di partenza, che possono essere buone o possono essere cattive, inevitabilmente vogliono costruire una società senza fare spazio alla rivelazione, senza fare spazio a Dio, sia nelle idee della costruzione sia nella vita della società. Questi che costruiscono la città terrena inevitabilmente seguono i limiti del principe di questo mondo. Anzi, io mi ricordo che il professore di filosofia che peraltro era un prete, diceva: “quali sono gli attributi del demonio?”.
Allora qui veniva fuori che il suo primo attributo è che è omicida, omicida fin da principio, il secondo è che è menzognero e padre di menzogna, il terzo scimmia di Dio, e poi altri attributi minori. Il professore diceva che chi vuol costruire una città senza fare spazio a Dio, anche se parte dalle migliori intenzioni di questo mondo, non può essere che omicida, menzognero e scimmia di Dio. Poi c’erano gli altri, quelli della città celeste, i quali erano quelli che credevano in Dio e nel costruire la città si ispiravano alla rivelazione e tentavano di fare posto a Dio. Io come studente di liceo queste cose qui le ho studiate ma non ci credevo, cos’è questa storia della città del principe di questo mondo? La società omicida?
Non avevo realizzato la realtà di questo discorso che viceversa poi mi è venuto fuori durante l’esperienza in guerra. Io ero l’ultimo ufficiale, in Russia avevo la mia batteria e avevo conosciuto un soldato che aveva passato l’inverno coi russi, tagliato per le lingue, che aveva imparato il russo in modo perfetto; allora io andavo con lui nei paesi per tentare di parlare con la gente. I russi non volevano parlare con noi perché erano convinti che avrebbero vinto i comunisti, non i nazisti. Ne erano convinti non per scelte politiche, tanto è vero che all’inizio, quando le forze italiane arrivavano nei paesi durante la prima avanzata, i contadini russi andavano loro incontro col pane e col sale e li consideravano liberatori dal comunismo. Non tutti i russi erano così, ma la stragrande maggioranza. Però erano convinti che avrebbero vinto i comunisti per l’enorme sproporzione di mezzi.
Però i russi sono sostanzialmente chiacchieroni; io mi ero reso conto di questo e sono riuscito a spingerli a parlare. E io chiedevo loro: “Di tutte le esperienze che avete fatto dal ‘17 al ’42, qual è quella che vi ha toccato di più?”. Erano in prevalenza contadini dell’Ucraina e davano tutti la stessa risposta: quello che li aveva scioccati di più era stata l’immensa e disperata fame che aveva fatto seguito all’espropriazione della terra da parte dei comunisti nel ‘29-30.
“Noi stessi abbiamo coltivato di meno, perché ci hanno portato via la nostra terra”, dicevano, “e in conclusione c’era stato un prodotto inferiore perché comunque i comunisti avevano deciso di portare via tutta la produzione agraria dalla campagna per farla confluire nelle città, dove si stava costruendo il comunismo. Noi ci siamo trovati senza più grano e abbiamo dovuto consegnare anche parte del miglio, che era indispensabile alla nostra sopravvivenza”.
“Allora cosa avete fatto?”, chiedevo io. “Abbiamo mangiato tutto quello che c’era, e poi abbiamo mangiato i cani e i gatti”. “E poi?” “Poi abbiamo mangiato l’insalata selvatica che cresce in mezzo all’erba”. “E dopo?” “Dopo abbiamo mangiato i nostri piccoli figli morti”. E la giovane donna che mi raccontava fugge via in lacrime. In conclusione non c’è una famiglia in cui i comunisti non abbiano ammazzato qualcuno e se per caso non l’hanno ammazzato, l’hanno portato via, l’hanno deportato. All’inizio io non ci credevo, ma alla fine i deportati si sono rivelati essere stati milioni. I comunisti non solo ammazzano gli altri, ma ammazzano anche il loro popolo. Ecco cosa avevo scoperto del tentativo di riscatto dell’uomo fatto al di fuori della liberazione di Dio e contro la liberazione di Dio, cercando di verificare ciò che Mounier affermava, cioè che i comunisti russi sono più cristiani di noi.
Marco Respinti — A Massimo Caprara e a Eugenio Corti vanno i nostri, e i miei, più sinceri ringraziamenti per queste loro testimonianze, per molti aspetti autenticamente commoventi.
Al pubblico, che ora rivolgerà alcune domande ai nostri ospiti, vorrei permettermi di suggerire speciale attenzione per due espressioni emerse nel corso di queste testimonianze. La prima è «più in là»: con essa, Massimo Caprara ha indicato la sua non come una storia dimenticata, ma come un passato che attiene profondamente al presente, un andare oltre l’effimero, oltre il mondano, andare là dove si avverte la sola speranza che ci può salvare. La seconda è la parola «bellezza», una bellezza che Eugenio Corti ha imparato ad amare in Omero e di cui traboccano anche i suoi libri.
Domanda – Abbiamo sentito il racconto di un periodo storico nel quale le ideologie hanno avuto un significato particolare. Che cosa persiste di quel tempo nel tempo attuale? E che suggerimenti date a gente che studia, a gente giovane, nel rapportarsi con l’ideologia?
Massimo Caprara – Io Le rispondo così: senza memoria non credo sia possibile operare il bene, senza il male che c’è stato nella nostra vita non è possibile introdurre il bene. La memoria è perciò fondamentale. Ricordare non significa soltanto ricordare con dolore e passione, ricordare significa riconoscere quello che costantemente è presente nell’uomo, oggi. L’uomo non è ancora al centro dell’universo, non è ancora compiuta immagine di Dio e può essere ancora ingannato senza che gli altri si alzino a difenderlo. Don Giussani cosa consiglia? Che cosa chiede? Che cosa in qualche modo intima? Don Giussani chiede che ci sia vita nel presente. Io credo che un modo per non rispettare l’uomo sia vivere altrove, assentarsi, non essere presente e don Giussani ci indica che la vita è la scoperta di Dio nel mondo attuale, nel presente, nell’ontologia dell’uomo.
Io penso che il comunismo sia veramente fallito ma, come Lei, personalmente temo che non sia morto e temo – potrei sbagliarmi – prima di tutto perché ci sono ancora paesi che sono comunisti, grandi paesi come la Cina, tanti paesi che ancora adesso continuano ad arrestare sacerdoti, ad arrestare persone, a perseguitare coloro che vogliono pensare liberamente. Che cosa c’è oggi in Russia, in quella che era l’Unione Sovietica? C’è prima di tutto un grande massacro, un popolo intero, un genocidio, è il massacro dei Ceceni. E chi c’è oggi a capo dell’Unione Sovietica? A capo della Russia? C’è Vladimir Putin, ma chi è Vladimir Putin?
È un ufficiale del KGB, cioè la Polizia Politica dell’Unione Sovietica. E quello che mi stupisce è che l’Occidente è impotente contro Putin. L’Unione Europea, l’Occidente ha accettato di essere impotente, perché? L’Unione europea certamente esiste, l’Unione europea ha restituito il voto ai deputati russi della Duma nonostante l’eccidio della Cecenia. E perché in fondo tutto questo avviene? Forse sappiamo solo noi di Putin? Forse sappiamo solo noi delle armi nucleari che ancora esistono nell’Unione Sovietica? Io credo di no. Il comunismo e la prevalenza degli interessi materiali di fronte all’uomo sta nel fatto che noi, il mondo occidentale, ha scelto di tacere di fronte a questi massacri. In questo scelta di tacere vediamo il retaggio comunista, qualcosa che ancora ci fa ritornare a quello che è stato il comunismo, il mancato rispetto dell’uomo. E se devo dire la verità, non sono affatto contento, non sono affatto sicuro che quello che facciamo sia la restaurazione giusta, la restaurazione vera, perché alla fine noi abbiamo accettato di tacere sulla Cecenia. Accettiamo di tacere, vedete i telegiornali, perché ci sono ancora interessi, c’è ancora il petrolio. La Cecenia è massacrata e lungo la Cecenia passa l’oleodotto per portare il petrolio all’Occidente. Cioè passano interessi materiali, interessi capitalistici che possono essere chiamati in altro modo, ma il comunismo vive ancora in questo disprezzo, in questa sopravvalutazione degli interessi materiali, in questa sopravvalutazione del petrolio che è ancora la negazione dell’uomo e in fondo anche la negazione di Dio.
Domanda – Mi ha colpito il momento della sua conversione, del suo abbandono. Vorrei che Lei approfondisse cosa vuol dire il tentativo del riscatto della sua persona.
Massimo Caprara – Il riscatto è un processo lungo e doloroso. Vorrei raccontarvi un episodio su come si può essere comunisti, su come sono stato comunista. Voi sapete che il 18 aprile 1948 segnò la sconfitta elettorale del Partito Comunista Italiano. Il PCI fu sconfitto non soltanto dal partito della Democrazia Cristiana, ma soprattutto fu sconfitto dai Comitati Civici e dall’Azione Cattolica. Il Papa, Pio XII, aveva chiamato a raccolta nell’arena elettorale perché fosse sconfitto il comunismo, e la campagna elettorale cambiò quando Pio XII disse che la posta in gioco era o con Cristo o contro Cristo.
Nel 1948 vinse soprattutto questa domanda, i comunisti furono battuti non dal fatto che bisognava scegliere tra America o Russia, bisognava scegliere tra Cristo o contro Cristo. Però io ho anche una esperienza personale su come era possibile allora essere contorti, ambigui, ambivalenti. In via delle Botteghe Oscure un giorno, prima del 18 aprile del 1948, nel mese di marzo o aprile, prima di Pasqua si presentò un sacerdote e chiese se poteva benedire il palazzo di Botteghe Oscure. Io ero al secondo piano, il piano della segreteria del partito, Togliatti non c’era e in quel momento essendo io segretario del partito in assenza di Togliatti, fui raggiunto dalle guardie di Botteghe Oscure che mi chiesero se poteva benedire.
Questo sacerdote era l’assistente ecclesiale dei Comitati Civici, cioè dei nostri nemici. È stato coraggioso quel prete, quel sacerdote che è venuto da noi a chiedere se poteva benedire Botteghe Oscure. In quel momento non ascoltai la voce di Togliatti, ma ascoltai la voce di mia madre che faceva benedire ogni anno, ogni volta che era Pasqua, e mi dissi che se mia madre faceva benedire la nostra casa perché non fare benedire questa casa? Non fui coraggioso io, fu coraggioso quel prete. E mi insegnò che io comunque avevo interesse a restare nel registro dei battezzati. Questa è una cosa che tra l’altro ho letto in Guareschi, un racconto di Guareschi nel quale un comunista in un certo momento aveva parlato con altri comunisti e comunque lui stesso aveva detto “ma io ci sto nel registro dei battezzati, ci voglio rimanere”.
Che cosa è che mi ha convinto a uscire dal partito comunista? Vi racconto un altro episodio. Nel 1964 uscì un libro intitolato 1937. Lo sterminio dei dirigenti polacchi. Nel 1937 i dirigenti del partito operaio polacco, del partito comunista furono uccisi e questo libro diceva che anche Togliatti aveva responsabilità in questo eccidio. Noi credevamo che questa fosse una menzogna perché Togliatti si trovava in Spagna, combatteva a Barcellona, non era presente in Polonia. Scoprimmo invece che Togliatti c’era, nel 1937 era stato trasportato con un aereo per pochi giorni a Mosca e aveva firmato l’ordine di uccisione dei capi del partito operaio polacco. Togliatti c’era, era responsabile. Allora noi chiedemmo spiegazioni a Togliatti, mi ricordo che lo vidi a Ferrara, perché sua madre viveva a Ferrara, e gli chiesi come aveva potuto così subdolamente firmare l’uccisione dei capi del partito operaio polacco accusati di essere dissidenti e come poteva continuare a dire che Gramsci, così diverso da lui, era stato il suo maestro. Togliatti rispose in modo glaciale, come era solito: “Gramsci sarebbe morto”.
Io pensai che invece lui aveva deciso di sopravvivere ma aveva sepolto la sua vita sotto una montagna di fango e di orrore, era il fango del Partito Comunista dell’Unione sovietica. In quel momento scattò in me la molla che mi fece sentire uomo, non potevo essere come Togliatti ma dovevo essere assolutamente contro Togliatti. Scattò allora la mia fuoriuscita dal partito comunista.
Marco Respinti — Nel 1994 ebbi un incontro che non scorderò mai, un incontro con uno dei più grandi filosofi contemporanei; non tomista perché proprio questa definizione non l’amava, preferendole quella di “filosofo di san Tommaso”: Josef Pieper (1904-1997). Morì due anni dopo, ma nell’occasione in cui lo incontrai in Germania tenne una conferenza intitolata Speranza e storia esattamente come il titolo di uno dei suoi libri più belli, più affascinanti, più importanti, pubblicato (in italiano) venticinque anni prima. A novant’anni, Pieper ripeteva con una freschezza straordinaria a dei giovani che non avevano la stessa sua freschezza il nesso esistente fra storia e speranza. Riempiva dei giovani, non pieni come lui, di speranza: una speranza che al novantenne Pieper dava ancora la straordinaria forza di (come afferma il Vangelo) «gridare sopra i tetti» il bene delle cose.
Questa speranza Pieper la rintracciava nella storia, nella sua storia, nella storia che si era trovato gratuitamente a vivere e di cui era stato posto protagonista. Quell’incontro con Josef Pieper mi è tornato alla mente stasera perché proprio di storia abbiamo parlato assieme ai nostri amici; di storia e di storie colme di speranza. Qualcuno ha detto che la rivoluzione, cioé l’ideologia, non riuscirà a trionfare completamente fino a quando non distruggerà tutte le nonne… È un’immagine, certo. Ma l’idea è che esistano protagonisti della storia che nella storia si fanno carico della memoria, di una memoria vivente. Si può distruggere tutto, si possono anche sterminare milioni e milioni di persone, ma se resiste il legame vivente con la memoria di ciò che almeno una volta è stato stringentemente vero (e quindi può esserlo ancora), la speranza tornerà sempre a risorgere.
Questa sera i nostri ospiti, in realtà i nostri amici Massimo ed Eugenio, ci hanno sovente ricondotti al termine “madre” e con questo ci hanno parlato di un legame profondo con una figura ineliminabile nella vita di ciascuno, la quale si fa portarice di una storia antica, antichissima, eppure concreta, reale, per nulla intellettuale. È la storia che fonda la speranza: la storia che ha “tenuto a casa” Caprara e Corti, oppure che “a casa” li ha riportati sapendo trarre da sotto le macerie quello che neppure l’ideologia più violenta riesce a distruggere. Tra le tantissime cose che Caprara e Corti sanno insegnarci, personalmente stasera trattengo almeno questa. Sperando — altrimenti sarebbe solo una serata sprecata — di riuscire a restare fedele, come lo sono stati e lo sono loro, a dei fatti e a degl’incontri, scavando dentro i quali scopriamo motivi di speranza veri. Oserei dire incarnati.
(appunti non rivisti dagli autori)