Un testimone della realtà contro l’ideologia
In occasione del centenario della nascita escono i diari inediti dello scrittore brianzolo che raccontò la ritirata di Russia.
Abbracciato con ferocia alla realtà. Questa è l’impressione che resta rileggendo l’opera di Eugenio Corti. E la pubblicazione, in occasione del centenario della nascita dell’autore del monumentale Il cavallo rosso, dei suoi diari inediti ne offre una conferma.
Ciascuno è incalzato dalla sua provvidenza (Edizioni Ares, 664 pag. 24 euro) propone diciassette quaderni di appunti scoperti dalla moglie di Corti, Vanda, riordinando le carte del marito ormai defunto e copiati dal nipote Mario.
Un ribollire di vita vissuta raccolta in oltre 650 pagine (frammentate da fotografie d’epoca dell’autore) divise in cinque parti: il periodo del collegio e dell’università, inaugurato con il primo diario iniziato il 18 novembre 1940, colmo dell’entusiasmo per l’avvio degli studi in Cattolica a Milano; la chiamata alle armi e la decisione di chiedere di essere mandato in Russia; i diari del 1942 che raccontano il viaggio verso il Don, i rapporti con i giovani commilitoni (personaggi già noti a chi abbia letto I più non ritornano); il ritorno in Italia dopo la terribile ritirata dal fronte russo (durante la quale persero la vita circa 26mila italiani sui 30mila inviati, esperienza che Corti racconta, appunto, in I più non ritornano) e la degenza in un ospedale militare di Bolzano; il ritorno alle armi dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, questa volta in Puglia a fianco degli Alleati, dopo un avventuroso viaggio verso sud (fatti che poi lo scrittore racconterà ne Gli ultimi soldati del re); infine, la fine della guerra, il congedo definitivo, il ritorno a casa dopo 55 mesi di vita militare, il difficile rientro nella vita normale, i disordini sociali e i timori di dover fare un’altra guerra “per difendere la famiglia”, poi la laurea, e perfino l’amore.
La materia prima
Nove anni di diari che, di fatto, raccolgono gran parte della materia prima sulla quale poi Corti avrebbe plasmato la sua opera di scrittore. Questi taccuini, unitamente a quelli pubblicati in I più non ritornano, di fatto, rappresentano per lo scrittore brianzolo quello che per un regista sarebbero le bobine girate sul campo: metri e metri di pellicola che riportano fedelmente, senza censure e con un linguaggio piano e descrittivo, la realtà così come si presenta ai suoi occhi. Il suo impegno, il suo compito è quello di conservarla e restituirla intatta. Poi, il lavoro di taglio e montaggio, porterà alla nascita di un capolavoro come Il Cavallo rosso. Ma il primo imperativo è restare legati alla realtà. Un dovere che traspare fin dai primissimi scritti del Corti soldato che si preoccupa di riscrivere i suoi appunti sulla ritirata dal Don «per rispettare in tutto la verità: al punto di poter giurare sul contenuto non solo dell’insieme, ma di ogni singola frase. (…) Ho fermato la penna quando m’accorgevo di non ricordare con sufficiente chiarezza una qualsiasi cosa ch’ero sul punto di scrivere, anche se ciò poteva nuocere al racconto».
Una fedeltà alla verità che, però, è soprattutto una grande fede nella realtà. Corti resta sempre ferocemente abbracciato ai fatti perché è certo che, al fondo, la realtà nasconde un disegno buono al quale bisogna affidarsi, non passivamente certo, ma osservando, investigando con tenacia i fatti. Se la verità esiste, insomma, è nella realtà, non nelle idee che si possono avere su di essa.
Niente politica
E, a questo proposito, colpisce che anche in questi diari, come già in quelli “russi” di I più non ritornano, Corti bandisca ogni tirata ideologica, ogni giudizio politico, pur trovandosi immerso nei travolgimenti della politica che si fa storia: «Infinite cose sono in questi giorni successe nel campo della politica e in quello militare. Ma di tutto questo e delle mie impressioni non parlerò, memore d’essermi ripromesso di non fare in questo diario nemmeno un po’ di politica».
Per Corti il confronto con la realtà è una questione umana, che interroga gli uomini al cospetto del loro destino, non beghe politiche. Lo scrittore brianzolo sottolinea l’irrinunciiabile serietà del proprio compito personale nei confronti della storia che non può essere nascosta dietro a una battaglia tra ideologie e schieramenti. Una posizione, questa, che in qualche modo richiama il Silvio Pellico delle Mie prigioni, Dostoevskij, o perfino Dante, dissidenti incarcerati, oppositori esiliati, ma che dalle traversie politiche hanno preferito trarre un percorso umano, una via «nel mezzo del cammin di nostra vita».
Il destino, si diceva. Che qui, fin dal titolo, assume i panni della Provvidenza. Tema cristiano, molto caro a Corti, che certamente ripercorre l’idea manzoniana dove Dio agisce attraverso gli uomini, non chiede mai una prova superiore alle possibilità dell’uomo e garantisce sempre i mezzi per assolvere al compito assegnato. Un’idea di bene che opera nella storia attraverso l’iniziativa degli uomini che si ritrova già in I più non ritornano e nel Cavallo rosso. Ma che qui fa come un passo ulteriore. La provvidenza è anche destino, il disegno di realizzazione intessuto nella vita che ciascuno vive ed è chiamato a scoprire, a far emergere in una fedeltà alla realtà. Ancora la realtà. Per il cristiano Corti la realizzazione e la felicità passano attraverso il reale, non nelle fantasie, nello spiritualismo, nei paradisi artificiali. Una realtà rischiosa ma da abbracciare, il che non pare poco in questa nostra epoca relegata nelle sicurezze apparenti e asettiche del virtuale.
(Maurizio Zottarelli, 05/06/21, Libero)