Brusadelli, direttore caduto in trincea

Eugenio Corti

A un mese dalla morte di don Giuseppe Brusadelli, con l’amicizia personale che ci legava a lui, e dopo le innumerevoli attestazioni di stima e di affetto giunte da ogni parte al giornale, riesce difficile parlarne con distacco obiettivo. Eppure dobbiamo provarci a farlo.

Nato, come sappiamo, a Colico, cioè al punto d’incontro tra le montagne comasche e quelle della Valtellina, ci sembra egli abbia incarnato molto bene il tipo “alpino” della sua gente: fu un prototipo dell’ufficiale alpino. Non è necessario dilungarsi a ricordare, a dei lettori comaschi, le caratteristiche delle truppe alpine: il nativo (e perciò interiore, non precedente da disciplina esterna) senso del dovere, che proviene loro da una concezione della vita intesa come lotta permanente per trarre il sostentamento da un ambiente duro e difficile; donde anche la loro pazienza e insieme combattività.

Precisamente queste caratteristiche nel corso dell’ultima guerra diversificavano tanto le truppe alpine dalle altre, al punto da suscitare entusiasmo perfino nei difficili alleati e addirittura nei nemici. Pur essendo così valido in senso militare, l’alpino era in sé uomo pacifico, e il meno bellicista che si potesse immaginare (in questo senso, come affermava don Carlo Gnocchi, era il soldato più cristiano fra tutti): una volta però coinvolto in situazioni difficili, anche le più tremende, non rientrava nella sua mentalità la fuga: quali che fossero le situazioni, egli semplicemente le affrontava.

Questo modo d’essere ci tornava di continuo in mente negli incontri con don Brusadelli, e ancor più nel leggere i suoi articoli: così intensamente permeati dal senso di milizia cristiana («militia est vita hominum super terram»). Gli stava a cuore la salvezza dell’uomo e della società cristiana in particolare, della quale si sentiva mastino di guardia (quante volte l’ha ricordato!); non si arrogava affatto la funzione di pastore (dimostrava anzi per i pastori – e in particolare per il Sommo Pastore – una fedeltà incondizionata, solida, in nessun modo incrinabile; e insieme un amore profondo); dove vedeva le pecore sbandarsi là accorreva, e si dava da fare per impedirne lo sbandamento.

Lupi fuorviatori
Lottava senza esclusione di colpi coi lupi fuorviatori del gregge, specie con quelli (i vari Zizola, La Valle, Gozzini eccetera: quante volte li ha attaccati!) cui la confusione dei tempi consente di annidarsi e camuffarsi in qualche modo all’interno del gregge stesso.

Lo guidava un’acutissima intelligenza delle cose, una grande cultura (era attento soprattutto alla produzione d’ambito francese, anche alla più recente: i suoi continui richiami a Gustave Thibon e alla Auclair!), un senso straordinariamente forte del trascendente e dell’ordinamento di ogni cosa a Dio (da quest’ultimo derivava la sua chiarezza nel percepire la graduatoria delle cose, quel suo fermo mettere al primo posto – malgrado la confusione moderna – la contemplazione che rendeva la sua voce così chiara alle anime contemplative, chiuse nei conventi o negli eremi. Sappiamo di cosa parliamo: conosciamo più d’una di quelle anime).

Affermazione lenta
L’affermazione come giornalista di don Brusadelli sul piano nazionale è stata lentissima – quale si addice a un comportamento schivo, alpino appunto, qual era il suo – tuttavia costante. Ultimamente più d’uno degli esponenti della nostra cultura non aveva difficoltà a considerarlo, per la centrezza dei suoi giudizi, il numero uno dei giornalisti cattolici: così ad esempio un giudice severo come Gabrio Lombardi (il quale al tempo del referendum sul divorzio aveva voluto incontrare questo prete che si batteva così indomitamente in quel di Como: e il sottoscritto gliel’aveva fatto incontrare nella propria casa, durante una serata che, per l’effervescenza di spirito di don Peppino, rimarrà per chi era presente indimenticabile).

Col crescere delle difficoltà nel nostro mondo don Brusadelli ha finito col diventare, un po’ alla volta, un punto di riferimento per molti, anche geograficamente lontani. Come chi scrive queste note ebbe modo di constatare al momento della sua morte, appresa per telefono durante un congresso nelle Marche cui partecipava quasi solo gente dell’Italia centrale: molti dei congressisti lo conoscevano, e non in modo superficiale, tanto che lo rimpiansero con parole veramente accorate.

Fu probabilmente la percezione dell’efficacia della propria lotta contro l’Avversario, a determinare don Brusadelli a un lavoro così massacrante (due articoli al giorno: l’editoriale e la nota dell’Ingenuo, ogni giorno, senza sottrarsi mai): era un lavoro quasi impossibile, che oltretutto lo costringeva talvolta ad essere approssimativo nell’espressione; ma non si curava di questo lui che, come alpino, badava alla sostanza e non alla forma. Non smise neppure dopo che, nella recente visita medica in America, il suo cuore era stato trovato in condizioni disastrose dopo i vari infarti subiti; cadde così, combattendo senza tregua, dentro la trincea.

Se vogliamo trarre dall’insieme della sua opera delle direttive di massima – necessario anzitutto per chi è rimasto o gli subentra nella trincea del suo giornale – ci pare di poter individuare nelle migliaia di articoli da lui lasciati due impegni fondamentali e costanti, i quali in un certo senso danno ordine e inglobano anche gli altri minori.

Anzitutto l’impegno nella lotta contro il maggiore dei pericoli che nel nostro tempo minacciano dall’esterno la società cristiana e l’intera civiltà: il pericolo comunista. «L’anticomunismo è, oggi, ancora la più importante, difficile, rischiosa impresa di un cattolico» è scritto nel suo editoriale del 4 febbraio 1977. L’impresa più importante dunque. Specifica poi subito: «In modi rinnovati, su posizioni conquistate e contro posizioni perdute, nella cultura e nelle organizzazioni democratiche» nonché «nelle nostre scuole, università, asili, cliniche, ospedali, associazioni di sport o di creatività varia, è all’anticomunismo che bisogna ricorrere, è il contravveleno che va applicato».

Crisi d’identità
L’altro suo costante impegno fu di far fronte al maggiore dei pericoli che minacciano il mondo cattolico dall’interno: la crisi cioè della sua identità. Egli a tale riguardo vedeva, con rara chiarezza, che a monte delle varie crisi che travagliano le organizzazioni cattoliche, e lo stesso partito cristiano (perciò anche la vita politica nazionale) sta la confusione dell’identità cattolica, provocata, magari in buona fede, dai mentori dei mass media che hanno travisato il Concilio Vaticano II.

Non è necessario precisare che, per quanto dura e senza cedimenti, la lotta di don Brusadelli fu comunque sempre una lotta di carità. Le sue durezze appartengono allo stesso ordine di quelle che s’incontrano nella sacra scrittura.

(29/01/78, L’Ordine)