Quella preghiera di Eugenio Corti nel gelo della Russia

Ciascuno è incalzato dalla sua ProvvidenzaII tenente Corti sul fronte del Don annota il duro lavoro per realizzare ripari dal freddo. La situazione è disperata: rivolgersi a Dio per il futuro scrittore del “Cavallo Rosso” è la sola risorsa

Autunno 1942
Presso le buche già iniziate ne feci segnare altre, portando così il numero a quattro, vicine e parallele fra di loro. Segnammo inoltre il tracciato di una buca per il magazzino viveri e la cucina; di un’altra per il vestiario; di un’altra ancora per il magazzino pesante. Due buche per gli autisti e trattoristi e quattro piccole buche vicine e intercomunicanti per noi ufficiali. Per non scoraggiare gli uomini di fronte al troppo lavoro, segnavo il tracciato delle buche nuove solo quando le vecchie erano a buon punto.

Avevo adunato tutti gli uomini, nel gran freddo, e dopo che mi erano stati militarmente presentati (io che alla forma non ci tengo granché nelle situazioni ordinarie, nei momenti brutti ci ho sempre tenuto) avevo loro parlato con impeto, con calore: lottavamo per non morire. Presto, se non riuscivamo a metterci sotto terra, sarebbero cominciati i congelamenti, le bronchiti, le polmoniti. Qualcuno poteva morire. Non uno doveva morire per colpa nostra! Sarei stato inflessibile, feroce. Avessero fiducia, mi seguissero; garantivo in poche settimane di portar felicemente a termine l’impresa. Volti pensierosi, specie fra i vecchi la cui resistenza era in molti casi ormai all’estremo. Tuttavia cenni d’assenso dovunque. Fiducia assoluta.

Divisi l’intera batteria in squadre, al comando di sottufficiali e di graduati. E ci buttammo come demoni al lavoro. I picconi rimbalzavano sul terreno gelato come battessero sulla pietra. Continuamente si schiantavano i manici. Pedretti, il nuovo operaio di batteria, aveva impiantato presso il proprio autocarro un piccolo laboratorio apposta per riparare i picconi rotti.

Il freddo era soffocante. Giravo ininterrottamente da un lavoro all’altro, da una squadra all’altra di lavoratori e ora davo di piglio a un piccone, ora a un badile e sostituivo quello fra gli uomini che era più stanco. Giravo poi per l’accampamento perché gente non lasciasse il lavoro per mettersi intorno ai fuochi. Proibii che si accendesse, durante le ore di luce, anche un sol fuoco.

Ora dovevo soprattutto sorvegliare la cucina. Non lasciavo in pace neppure le “cariche speciali”. Nei ritagli di tempo liberi, furieri, magazzinieri, cucinieri ecc. dovevano essi pure saltare nelle buche e lavorare. E il lavoro progredì. Le buche, con le loro pareti di terra giallognola, cominciarono a divenire una realtà, lentamente.

Il freddo era mortale. Ci avvolgeva da ogni parte, ci stringeva in una terribile morsa. Soffrivamo per tutto il corpo, incessantemente. Non si poteva stare cinque minuti fermi in un posto. E così dal primo albore fino a tarda sera. E anche la notte era un terribile incessante tormento, specie per gli uomini che avevano solo tre coperte. Le tende erano diventate rigide come lamierini. La paglia buttata sopra s’era incrostata di neve e di brina, il vento l’aveva scomposta. Come immergervi le mani doloranti per rimetterla in ordine? Chi se lo sentiva? Così gli uomini dormivano le prime ore e passavano le altre a battere i denti, stretti gli uni agli altri. Per colmare la misura il rancio diminuì sensibilmente di quantità. Era assolutamente insufficiente.

Ah! Potersi accoccolare vicino a un fuoco, anche in mezzo al fumo, anche scaldandosi da un lato e dall’altro sentendo vivi più che mai i morsi del freddo! Ma un po’ di calore! Un po’ di calore! Quel freddo non era soltanto una gran sofferenza; era anche una per così dire anti-vita, era come la morte che avanzava lentamente. Mai avevo compreso così chiaramente come vita significhi calore! Poveri cari soldati! Come avrei potuto permettermi, dal canto mio, la minima esitazione, quando io come ufficiale avevo di che sfamarmi, e in brandina con sette coperte potevo sfidare il freddo?

Nelle batterie vicino alla nostra i lavori procedevano pure intensi, tuttavia di gran lunga meno che da noi e più disorganicamente. I soldati in attesa di avvicendamento non lavoravano: attendevano di partire da un giorno all’altro. Non temevano le punizioni: cosa erano esse di fronte al martirio di un lavoro in simili condizioni? Come mi aspettavo, ben presto anche i miei vecchi cominciarono a lamentarsi, a non voler lavorare, specialmente alcuni. Eravamo ancora ai primissimi giorni; pareva di lavorare chissà da quanto tempo! Ogni ora pareva un’eternità. Senza l’aiuto dei vecchi ben poco si poteva concludere. Cominciai a punire: non rigore e trattenute di stipendio, ma una, due, cinque e più notti di guardia. Sapevo bene che la punizione era feroce, ma ne andava della vita dei miei uomini. Piuttosto che tirarmi indietro ero pronto anche a uccidere. E i miei uomini lo sapevano. Durante i mesi di vita in comune la mia condotta era stata sempre lineare.

Dovetti adunarli di nuovo, parlare loro di nuovo: «Tante cose abbiamo superato insieme, non dovremo superare anche questa?». Nei nostri soldati il sentimento può moltissimo. E i vecchi, lamentandosi ad alta voce, tornavano a lavorare. Essi mi volevano bene. A volte, qualche vecchio soldato, vedendomi correre infaticabilmente da un luogo all’altro, si fermava appoggiato al piccone e rispettosamente mi diceva con semplici parole la sua ammirazione: «Se non fosse per voi, signor Tenente…». E i nuovi cominciarono a fare come i vecchi.

Quelle parole, di fronte alle quali allegramente mi schernivo, bastavano a ripagarmi di ogni sacrificio. Erano parole di gente semplice, senza ambizioni e secondi fini. Non mi facevo la barba, non mi lavavo più. Come i miei uomini, così anch’io, per tutta la durata del giorno (ormai molto, molto breve) non ci staccavamo dai lavori. Pregavo invece, insistentemente, lungamente: «Aiutaci o Signore. Siamo poveri uomini. Non permettere che il freddo vinca e ci faccia morire. Non permettere che per causa nostra qualcuno dei più deboli debba soccombere. Aiutaci o Signore».