All’inferno e ritorno. La Russia di Corti
La guerra e l’immediato dopoguerra negli appunti inediti dello scrittore cattolico che combatte sul fronte del Don. Vocazione letteraria e fiducia nella Provvidenza divina da cui sarebbe scaturito l’affresco narrativo del Cavallo rosso.
«Ricordi stenografati», li definisce Cesare Cavalieri nella prefazione. Appunti, rapide annotazioni su quaderni di scuola a righe per fissare nomi, circostanze e molte riflessioni personali attorno ai «fatti accaduti giorno per giorno, ora per ora». Fatti di guerra e di pace. Li lega tutto lo slancio poetico di un ragazzo di 21 anni che va al fronte dei Don, anzi, che ha caparbiamente brigato per aggregarsi all’Armata italiana in Russia, e che vede scorrere dai finestrini del treno un mondo nuovo: «Sbuffando, lentamente, la lunghissima tradotta cominciò ad arrampicarsi per le montagne della Slovacchia, verdissime». Che cerca di comunicare la sua ingenua ammirazione a una ragazza polacca o decide di regalare l’intera scorta materna di cioccolata e ciambelline a «un fanciulletto scarno e macilento». Non sa ancora che cosa l’attende: la fame, il freddo, la disfatta. Eugenio Corti, sottotenente ventunenne il 10 giugno 1942, va in guerra e s’inebria di paesaggi e di visioni: la vallata della Sava, «caselle civettuole nel verde, col tetto molto spiovente». La pianura ungherese, il lago Balaton: «Lo costeggiammo per tutta la sua lunghezza lungo la costa sud-orientale. Ville, villini, villette su tre, quattro, cinque file, tutte diverse, tutte con un nome di donna, tutte con il loro giardino cintato di rete metallica e ricco di pini». Quando lo sguardo coglie la targa con il nome di sua madre, «Villa Irma», per il giovane ufficiale può essere soltanto un benevolo segno del destino.
Ciascuno è incalzato dalla sua Provvidenza è, non a caso, titolo scelto dalla moglie di Corti, Vanda di Marsciano, per i diari di nove armi cruciali nella vita dell’autore de Il cavallo rosso, nato cento anni fa nel 1921 e scomparso nel 2014. Riempiono 650 pagine, coprono tutto il periodo della guerra e il primo dopoguerra, dal 1940 al 1949; e saranno nelle librerie da martedì 18 maggio per i tipi di Ares, editore dell’opera omnia del romanziere e saggista cattolico.
Suddiviso in vari faldoni, il memoriale era custodito nello studio della casa di Besana Brianza, ed è stato una sorpresa anche per Vanda Corti che quasi mai osava varcare la soglia del sancta sanctorum del marito e, tantomeno, mettere mano al suo scrittoio o ai suoi scaffali: «Li ho trovati dopo la sua morte, quando ho riordinato le sue carte per consegnare materiale d’archivio alla Biblioteca Ambrosiana che me l’aveva richiesto – spiega -. Non li avevo mai letti e ho deciso di tenerli con me ancora un po’». Senza prevedere di pubblicarli. Finché il nipote, Mario Vismara, aiutato da un amico, Carlo Crespi, non ha provveduto a trasferire i quaderni al computer per agevolarne la lettura. Ed è apparso subito chiaro che la Provvidenza ci aveva di nuovo messo lo zampino.
Se Il cavallo rosso è uno dei capisaldi della letteratura bellica del Novecento, 17 quaderni finora inediti che Vanda Corti ha infine deciso di affidare alle stampe ne sono il prezioso brogliaccio segreto. Dispiegano la materia prima sulla quale è stata plasmata da Eugenio Corti almeno la prima parte della sua opera più celebre, che si sviluppa in un arco temporale più vasto, dal 1940 al 1974. Svelano i protagonisti reali cui sono ispirati i personaggi del libro. Ma, raccomanda ancora Cavalleri, l’editore, «Sono pagine da leggere in autonomia».
Se Il cavallo rosso fosse un film i diari ne sarebbero comunque un ricco spezzone di girato integrale, il canovaccio senza tagli e senza aggiustamenti, per quanto più conciso del monumentale romanzo autobiografico pubblicato nel 1983, quelle 1.280 pagine che hanno conquistato centinaia di migliaia di lettori, replicandosi in quasi quaranta edizioni e otto lingue, lituano e giapponese inclusi. Ora che sono tra le mani di Vanda, i taccuini restituiscono alla compagna di tutta la vita, incontrata nel 1947 e sposata nel 1951, la coerenza intatta di un ragazzo che la guerra trasformava in giovane uomo, senza alterarne la fede, i progetti, le convinzioni, i valori, gli obiettivi: «Il suo destino, come sapeva fin da bambino, era di diventare scrittore – racconta la moglie, fiera di averne assecondato la vocazione -. Quando ci siamo conosciuti, all’Università Cattolica, il giorno del suo ultimo esame prima della laurea, aveva già pubblicato il suo primo libro, I più non ritornano».
Ristampato da Ares, dopo la prima edizione (Garzanti) del 1947, è il resoconto dei ventotto tragici giorni di accerchiamento vissuti nella sacca di Arbusov, sul fronte russo, nell’inverno 1942-43, prima dell’interminabile ritirata attraverso il deserto di neve e ghiaccio. Molto più di una cronaca, un’eco ai racconti di guerra di Aleksandr Solzenitsyn, allora capitano d’artiglieria dell’Armata Rossa sul fronte di Brjansk. I ricordi erano ancora freschi, ma Corti aveva distrutto parte degli appunti originali per precauzione, perché non cadessero in mani sbagliate e finissero per essere strumentalizzati: «Non volevo – rammentava dopo – che, dalle considerazioni sui tedeschi, numerose nei miei scritti, il nemico traesse motivi di propaganda».
Non c’era stato alcun intento politico nella loro stesura, il giovane militare era stato spinto verso il fronte russo più dalla curiosità di «conoscere questi popoli e queste terre cui ho intenzione di dedicare l’opera letteraria che sarà lo scopo della mia vita», aveva scritto l’anno prima dell’agognata partenza. Per capire come i comunisti potessero collocare Marx al posto di Dio. Poco o nulla delle sue impressioni è andato perso. «Durante la ritirata, nei momenti di tregua avevo raccolto su foglietti di fortuna i fatti accaduti giorno per giorno, ora per ora – ha raccontato alla sua biografa, Paola Scaglione (Parole scolpite, Ares) -. Basandomi su quelli, verso metà febbraio 1943 (cioè appena tornato) ho cominciato a scrivere il diario della ritirata, concludendolo entro quattro mesi dagli ultimi episodi che riferivo».
Terminata la convalescenza, dopo il ricovero all’ospedale di Bolzano, la caduta di Mussolini e l’armistizio, lo scrittore soldato riprese la strada, stavolta verso sud, per risalire da Lecce con gli Alleati. Fedele al re, ma soprattutto al Regno di Dio, la sua penna alternava note di vita militare a considerazioni sulla natura umana e sulle giovani donne che il destino non trovava per lui. Vanda, con le sue lunghe trecce, spunta alla fine del diciassettesimo quaderno, pure lei incalzata dalla Provvidenza. È lì per assecondarlo, a costo di ristrettezze, nella sua vocazione: «Il suo impegno era quello, e mi piaceva. Avevo un marito che faceva lo scrittore».
(Elisabetta Rosaspina, 16/05/21, Il Corriere della Sera)