Lo scrivere, il tempo & la misericordia
Lo sguardo azzurro trapassa il verdeggiare del giardino nell’estate briantea e si affaccia lontano. Si posa oltre i monti che fanno da sfondo alla finestra del suo studio: «Per la mia sorte faccio affidamento soprattutto sulla misericordia di Dio: non vedo altra possibilità di salvezza».
Eugenio Corti è un impasto di concretezza lombarda e fede salda come roccia. Il suo bilancio di scrittore è lusinghiero: I più non ritornano, diario della ritirata di Russia pubblicato nel 1947, ha raggiunto la sedicesima edizione ed è stato tradotto in inglese e in francese, così come il romanzo sulla guerra di liberazione in Italia, Gli ultimi soldati del re. C’è poi la potenza di evocazione drammaturgica della tragedia Processo e morte di Stalin, l’ampia saggistica sul comunismo e sul mondo cattolico, la forza narrativa dei racconti per immagini, La terra dell’indio e L’isola del paradiso. E c’è Il cavallo rosso, il romanzo maggiore, giunto in Italia alla diciottesima edizione, a poche settimane dalla stampa della sesta traduzione, quella in giapponese.
Ma, sopra ogni altro esito, c’è l’affetto di quanti, dopo aver letto le sue opere, gli scrivono, chiedono di incontrarlo per attingere al tesoro della sua sapienza di vita indicazioni sull’esistenza e sulla storia. Lui, 83 anni di pacata eleganza, sorride e scuote il capo: la rassegna delle sue opere non fa che radicarlo nella strada di sempre. In una prospettiva realistica confronta il pur rilevante successo dei suoi libri e i dati di vendita di quelli sostenuti dall’industria editoriale: «Certo, ci sono tanti che conoscono Il cavallo rosso e sono affezionati al romanzo; a questi io sono enormemente grato, però c’è molta gente in Italia che ne ignora l’esistenza… e ciò serve a ridimensionarmi».
È comunque un altro traguardo a determinare la sua prospettiva: «Io sono vicino alla conclusione della carriera non solo come scrittore, ma anche come uomo; il pensiero del successo non mi tocca, non può toccarmi: che cosa mi porto dietro nell’aldilà? Se mai è più importante, da questo punto di vista, il fatto che molti testimoniano che i miei libri possono fare bel bene, che fanno loro del bene: questo è il patrimonio che potrà essere utile anche nell’aldilà». Ma soprattutto – ed è presenza ricorrente nelle parole di Corti – c’è la misericordia, attesa con incrollabile certezza.
La serenità è il tratto dominante in quest’uomo dallo spirito combattivo ed energico, mitigato appena dalla saggezza degli anni che passano, da sempre orientati al tempo che resta.
Nel nostro tempo, comunque, rimane la risposta positiva dei lettori alle opere di Corti, al Cavallo rosso, in particolare, che il cardinale di Lione, Philippe Barbarin, in una recente intervista al settimanale francese “Famille Chrétienne”, ha definito «un affresco impressionante», accostandolo alle «grandi epopee» della letteratura come I miserabili, Guerra e pace, I fratelli Karamazov, Il rosso e il nero.
Da più parti Il cavallo rosso è stato indicato come il maggior romanzo del ventesimo secolo e Richard Brown, editor della oxfordiana Family Publications, ha dichiarato: «Sono convinto che Il cavallo rosso verrà considerato un giorno come un’opera spartiacque per la comprensione del ventesimo secolo e come uno dei più grandi lavori di letteratura cristiana».
È l’aspetto che preme allo scrittore: «Quello che a me più interessa è che il romanzo si ponga come una presenza significativa nella cultura, con la funzione di mostrare quale sia stata la realtà del XX secolo».
Dunque il valore del romanzo si collocherebbe sul piano storico prima che su quello letterario? Corti ricorda, certo, un giudizio diffuso tra i suoi lettori e che risuona in tutte le lingue in cui Il cavallo rosso è stato tradotto: «È il più bel libro che abbia mai letto!». E precisa: «Stando ai lettori, ciò che definisce il valore del romanzo è la bellezza della pagina. La prima dote, dunque, è la bellezza; in parallelo – in contemporanea – c’è la verità. È fondamentale che il libro sia bello, altrimenti i lettori non procedono. Poi il fatto che sia un romanzo storico li aiuta a inquadrare la verità sulla storia».
Il compito della vita
Ripercorrendo il proprio percorso letterario, Corti considera: «Quando un autore si accinge a scrivere un libro, spera che questo raggiunga la massima perfezione Anch’io lo avevo sperato e, quando sono arrivato a licenziare Il cavallo rosso, ho avuto la percezione di essere giunto a quel traguardo. Lo stesso è accaduto per I più non ritornano e per Processo e morte di Stalin. Una sensazione diversa, non così totale, l’ho avuta per Gli ultimi soldati del re, considerando la perfezione letteraria di certe pagine».
Proprio nel romanzo sulla guerra di liberazione in Italia si trova il passo che lo scrittore ama maggiormente e che riconduce tutta la sua opera nella prospettiva del tempo che resta: «Tra tutte le mie pagine quella che mi piace di più è quella degli Ultimi soldati del re che riporta la riflessione sulle farfalle. Mi pare che lì si trovi il messaggio più importante che posso lasciare: dalla bellezza e dalla felicità inconscia della farfalla si risale alla bellezza e alla felicità che c’è in Dio, perché anche il modo in cui è fatta una bella farfalla è sufficiente a dimostrare l’esistenza di Dio».
È qui il senso di tutto il suo lavoro, l’essenziale che rende completa l’esistenza. Già, la pienezza del vivere: che cosa ha a che fare questa con il bisogno di scrivere? È per potersi esprimere, perché la vita sia realizzata? Eugenio Corti ribadisce con decisione che no, non si scrive per dire di sé: «A ogni uomo è assegnato da parte del Creatore un compito: fondamentale per ciascuno è individuare il compito al quale è chiamato. Io sono stato messo al mondo per fare lo scrittore e devo fare lo scrittore, perché il compito che mi è stato assegnato è questo. La pienezza di me è la realizzazione del mio compito. Certo, c’è una soddisfazione fondamentale quando si vede che il lavoro rende e che non si sta sprecando il tempo».
Lo scorrere dei giorni è preoccupazione costante. E se Corti non scrive per il successo che dà il mondo, pure l’affetto di tanti lettori che cercano la sua amicizia si rivela un sostegno prezioso: «C’è la sensazione di non avere buttata via la vita e che quindi vale la pena ancora di impiegare lavorando questo pezzetto di vita che rimane. Spero che Dio mi dia il tempo per terminare ciò che ho in mente di scrivere, anche se, con l’avanzare degli anni, non ho più le risorse per un libro intero. Ora per me è fondamentale finire il mio terzo racconto per immagini, quello riguardante la vita di Catone maggiore». Il timore di sprecare il tempo lascia spazio all’entusiasmo per il progetto: «Si sta rivelando veramente buono. Se Dio continuerà a tenermi la mano sulla testa, per la fine di quest’anno dovrebbe essere pubblicato, anche se adesso impiego il quadruplo del tempo rispetto a prima e riesco a lavorare molto meno. Questo è il terzo anno che lavoro al Catone, in un’altra epoca sarebbero bastati 6/8 mesi…».
Stirpe di imprenditori lombardi, Corti calcola i tempi di produzione, ma il rammarico per il tempo che vola non è mai autocommiserazione né abbattimento: ciò che conta è adempiere al compito dell’esistenza. A chi gli chiede – con imperdonabile ingenuità – se in oltre sessanta anni di lavoro abbia mai pensato di smettere di scrivere, non lascia neppure lo spazio per concludere la domanda e risponde deciso di no: «Mai! Anzi: anche adesso, che ho la sensazione che il Catone sarà il mio ultimo libro, soprattutto per i vuoti di memoria a cui purtroppo vado incontro, ho in mente dei racconti sul medioevo. Ce ne sono almeno due o tre che ritengo assolutamente indispensabili; uno, in particolare, mi sembra importantissimo, perché dovrebbe essere la conclusione di tutti i racconti».
Il fervore con cui lo scrittore progetta giorni operosi («Perché finché si è al mondo bisogna assolvere al proprio compito…») si fonde con un filo di autoironia: «E poi ho la convinzione che Dio mi lascerà qui finché non ho concluso il mio lavoro, così come durante la ritirata di Russia mi ero convinto di essere invulnerabile perché ero destinato a scrivere, a raccontare ciò che avevo visto». Scherza un po’, Corti, su questa totale fiducia, ma lo fa a beneficio dell’interlocutore. In fondo è persuaso della predilezione di Dio, che lo ha preservato durante la guerra: «Non sono mai stato ferito, anche se in almeno un paio di occasioni ero praticamente spacciato. Certo, tutti noi siamo prediletti da Dio e prediletti dobbiamo sentirci». È comunque convinto, così come lo era nella sacca sul fronte russo, che non dovrà lasciare a mezzo l’opera intrapresa. Perché per lui l’eterna questione del legame tra vivere e scrivere non esiste: non si dà scrittura – scrittura autentica, si intende – separata dalla vita.
Per questo anche l’incontro con i lettori non è un aspetto dell’esistenza pubblica, ma è la vita stessa. Dagli incontri con chi ha letto le sue opere, dalle migliaia di lettere che gli giungono da ogni parte del mondo Corti ha ricavato una convinzione: «In quasi ogni lettera c’è una piccola scoperta che non c’è nelle altre. Tutte le lettere sono diverse tra loro, tutte! Questo mi ha portato a una considerazione che mi sembra rilevante: ogni essere umano è indispensabile. Ci si spiega perché Domineddio abbia creato tanti miliardi e miliardi di esseri umani: non ce ne sono due uguali, ciascuno è diverso dall’altro».
Lo sguardo di Eugenio Corti è spalancato sull’eterno: là, nel tempo senza fine, il fascino della sua sapienza narrativa trascina l’interlocutore. Prosegue, perché sia chiaro che l’acquisizione razionale del qui-e-ora non è il fine dell’umano pensare: «Tutto questo significa che ciascuno riflette in modo diverso Dio: siamo fatti a Sua immagine e somiglianza e ciascuno lo riflette in modo diverso. Questo avrà una rilevanza enorme nella realtà del mondo di là, quello definitivo: ciascuno è diverso dagli altri, non saremo in tanti uguali a riflettere la bellezza di Dio, ma ciascuno avrà il suo modo. Ogni essere umano costituirà un motivo di felicità per tutti gli altri, per questa sua diversità, che già è preziosa qui nella lettera del singolo individuo e là sarà portata a livelli di assoluto»
Oltre l’inferno di ghiaccio
La prospettiva radicata nel tempo che passa e, insieme, lanciata in quello che rimane è coessenziale alla materia narrata fin dalla prima opera di Corti, I più non ritornano. L’unicità del diario della ritirata di Russia nell’ampio panorama della memorialistica riguardante la guerra sul fronte orientale sta proprio nell’apertura all’eterno. Di più, nel riconoscere la Redenzione che, sola, genera speranza persino nel culmine della tragedia.
Anche quando Corti descrive momenti di meschinità o di egoismo – del proprio abbandono alla meschinità e all’egoismo – la sua visione è inesorabilmente rivolta oltre il limite dell’umana pochezza. L’originalità del diario I più non ritornano è l’inesauribile speranza: la prepotente volontà di salvarsi a qualsiasi costo, la disperazione, persino il male commesso non bastano a definire e giudicare l’uomo. Neppure la dolorosa scoperta del proprio cedimento rimuove dall’orizzonte del resoconto cortiano la presenza lacerante e confortante di quella misericordia che sempre offre a ciascuno la possibilità di ricominciare.
Se, nel dopoguerra, il successo di pubblico del diario I più non ritornano si sarebbe potuto attribuire all’interesse per un fatto di cronaca dall’indicibile tragicità, occorre ora chiedersi quale sia il segreto di un libro diverso da ogni altro resoconto della ritirata e che, a 57 anni dalla pubblicazione, continua a suscitare l’attenzione crescente dei lettori. Non a caso nel giro di poche settimane sono giunte in libreria due diverse edizioni del diario: la settima presso Mursia e la pubblicazione nella collana “I libri dello spirito cristiano”, della Bur. È forte la sensazione che, in un tempo a cui fa difetto la speranza, colpisca la testimonianza di una positiva apertura al futuro generata dalla fede anche in condizioni di estrema tragicità.
Se la speranza cristiana è protagonista indiscussa in ogni opera di Corti, è però un’altra la preoccupazione che ha animato la stesura del diario: «Lo scrupolo massimo che ho avuto è stato di riferire la verità dei fatti accaduti: è questa, a mio parere, la caratteristica principale del testo. L’ho anche scritto: potrei giurare sul contenuto non solo dell’insieme, ma di ogni frase. E poi c’è un elemento, che emergeva dalla recensione che ne ha fatto nel 1947 Mario Apollonio e che per la mia attività di scrittore è stato decisivo: quel critico ha definito I più non ritornano “romanzo-poema-dramma-storia”. Ecco, insieme allo scrupolo della verità, c’è l’aspetto del canto, che si manifesta in maniera inattesa»
Un altro elemento che per l’autore è essenziale nel suo diario è la riflessione sulle cause e sul senso della guerra, intesa come un mancato intervento di Dio nell’orientare alla salvezza la libertà dell’uomo. Già durante la guerra, tuttavia, la riflessione di Corti, accoglieva l’idea di un recupero della sofferenza degli innocenti in funzione salvifica per l’umanità: «Si tratta di una percezione fondamentale: i morti in guerra non sono inutili».
L’errore della guerra
Le riflessioni di Eugenio Corti restano di stringente attualità: già in quel testo l’autore segnalava che, nonostante le tragiche esperienze, gli uomini non imparano dalla guerra, ma ricadono sempre nell’errore di considerarla una soluzione praticabile. La constatazione dello scrittore è amara ma realistica: «La storia si ripete identica anche nelle guerre recenti, per esempio nella guerra dell’America in Iraq, dopo l’esperienza che gli americani avevano avuto in Vietnam… Però l’errore militare conta meno, quello che conta è la somma dei guai, delle sofferenze generate dalla guerra. L’errore è fare la guerra: dopo averla sperimentata, gli uomini dovrebbero cercare di evitarla a ogni costo, invece la rifanno di nuovo, sempre».
Qual è, in questa prospettiva, lo spazio della responsabilità umana? Il discorso è ricondotto all’essenziale: «Certo, ci sono anche le responsabilità degli uomini, indubbiamente, il succo però è sempre lo stesso: questa guerra, come ogni altra, non era da iniziare».
Ma il terrorismo, gli attentati dell’11 settembre 2001 non giustificano la necessità di difendersi? Lui, l’ufficiale scampato al disastro del fronte russo, è deciso nel giudizio: «No! Come ha ammonito il Papa, l’attentato alle torri gemelle non giustifica la guerra in Iraq». Si interrompe, il ricordo rivolto lontano: «E poi, in ogni caso, quanto dolore…».
Prosegue, indagando le ragioni: «Occorre domandarsi se, come temo, questo non è altro che un episodio di uno scontro molto maggiore. Gli attentati terroristici e le guerre in risposta sono passi drammatici, che possono portare a uno scontro epocale tra l’islam e la cristianità, come già si è verificato nella storia. Se così fosse ne verrebbe una somma di castigo veramente terribile».
È trascorsa una vita da quando, giovane ufficiale di artiglieria, conosceva il dramma del secondo conflitto mondiale; il suo giudizio sulla guerra, passato al vaglio dell’esperienza e delle riflessioni di un’intera esistenza, però, è rimasto il medesimo di allora. E per il resto, in che cosa è cambiato Eugenio Corti dal tempo in cui, congedato dopo cinque anni al fronte, stendeva il diario della ritirata di Russia?
Lo scrittore socchiude gli occhi azzurri, lo sguardo acuto da sempre avvezzo a indagare la realtà scruta attraverso il tempo. Già, il tempo che passa: «Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per i più robusti…», recita il salmo 89. E lui sa bene di essere tra i più robusti, tra i privilegiati a cui è dato di vedere lontano e di indicare la via: «Quello che forse è caratteristico, nel mio percorso, è che non ho mai cambiato di indirizzo. Ho fatto molte scoperte, ho avuto modo di compiere approfondimenti notevoli, ho commesso tanti errori – come chiunque – ma non ho mai dovuto cambiare qualcosa di fondamentale nella visione della realtà e nel modo di vivere. Considerando la mia vita osservo che la visione di partenza, quella cristiana, era giusta».
Il tempo presente, vissuto con intensità e insopprimibile volontà di comprendere, si intreccia con l’eterno che, solo, dà significato e consistenza ai giorni che passano. Il cammino di Eugenio Corti parte dalla promessa rivolta alla Madonna nella notte di Natale del 1942, durante la ritirata di Russia: ancora non aveva 22 anni e, attanagliato dal gelo e dalla morte, decise che avrebbe impegnato il proprio futuro nella costruzione del Regno di Dio. E oggi, dopo che la vita ha radicato e fatto fiorire quella promessa, che cosa vorrebbe si dicesse di lui? Lo scrittore dalla misura narrativa ricca e vigorosa, si limita all’essenziale, cioè a quello che conta, e risponde: «Ha combattuto per il Regno». Poi considera: «Certo non è che ho combattuto molto bene, però tutto ciò che ho fatto l’ho fatto per il Regno…».
E ancora, dato che la battaglia non è conclusa, c’è la scrivania ingombra di testi di storia romana, dei fogli corretti e ricorretti del Catone accanto alla fila delle matite ben temperate e là, sugli scaffali del suo studio, i progetti per quei racconti che proprio occorre scrivere…
Che cosa attende, che cosa spera Eugenio Corti in questi giorni buoni di pacata operosità? «Per la nostra cultura, per la vita del mondo, attendo che si attui la seconda fase della visione di sant’Agostino, secondo cui nel mondo si alterna la prevalenza di città terrena e città celeste. Ecco, in questa fase di pieno prevalere della città terrena, spero che arrivi presto la prevalenza della città celeste. Per quello che riguarda me, attendo la misericordia di Dio».
(Paola Scaglione, Studi Cattolici, luglio/agosto 2004)