Il futuro di uno scrittore di razza
Basterà il centenario per riaprire il “caso Corti”? C’è da augurarselo, perché la vicenda dello scrittore di Besana Brianza ancora non è stata affrontata in tutta la sua complessità e rappresentatività. Per pregiudizio ideologico quando l’autore era in vita (emblematica, in questo senso, la perfetta coincidenza tra la nascita dell’anticomunista Corti e l’atto di fondazione del PCI), per disattenzione inerziale negli ultimi anni, vale a dire dal momento della sua morte, il 4 febbraio 2014, a oggi.
E sì che il suo funerale, celebrato nella basilica a ridosso della quale sorge il monumento ispirato al Cavallo rosso, era stato un evento di popolo molto più che di folla: la chiamata a raccolta di una comunità di lettori che nelle pagine di Eugenio Corti aveva riconosciuto la propria visione del mondo e la propria esperienza di vita. In una parola, la propria fede, che era poi la fede salda e caparbia dei “paolotti”, come lo scrittore continuava a chiamarli con orgoglio, facendo giustizia del pregiudizio che confinava ai margini della storia il cristianesimo dei semplici.
Ecco, si sarebbe potuti partire da quella celebrazione commossa e festosa – come è opportuno per una nascita al cielo – e ricostruire a partire da lì l’avventura di questo brianzolo tutto d’un pezzo, primo di dieci figli di una famiglia che, grazie all’intraprendenza paterna, si era emancipata dal bisogno avviando un’attività industriale della quale Eugenio sarebbe dovuto essere l’erede designato. A un certo punto, al principio degli anni Settanta, preferì farsi da parte, per dedicarsi esclusivamente alla stesura del Cavallo rosso.
Prima c’erano stati gli anni della formazione religiosa e culturale, gli studi all’Università Cattolica, la partecipazione al dramma collettivo della Campagna di Russia e, subito dopo, all’impresa dell’Esercito Cobelligerante: quelli che spregiativamente venivano detti “badogliani” e che per Corti, invece, erano Gli ultimi soldati del re (così il titolo del suo libro apparso in forma definitiva nel 1994). L’esordio di scrittore con I più non ritornano, magnifico memoriale della ritirata del Don, risaliva al 1947 e già lasciava intuire la grandiosità che avrebbe caratterizzato il suo capolavoro.
Corti, che all’epoca pubblicava Garzanti, non tardò a farsi un nome nella giovane letteratura del dopoguerra, salvo entrare poi in rotta di collisione con le ideologie del momento. Processo e morte di Stalin, lungimirante dramma datato 1962, svolse un ruolo non irrilevante in quella che fu in parte un’emarginazione compiuta dalla critica e in parte una sdegnosa e feconda preparazione dell’opera maggiore. Il decennio che precedette la pubblicazione del Cavallo rosso (pubblicato nel 1983 da Ares, che da allora è rimasta la sua casa editrice) era trascorso nella casa di Besana, a fianco della moglie Vanda, destinataria delle lettere riunite lo scorso anno nel volume Voglio il tuo amore.
Per dare corpo alla sua epopea di oltre mille pagine Corti aveva esaminato una documentazione imponente, intrecciandola spesso con i suoi ricordi personali. Il microcosmo di Nomana, il paese della Brianza in cui si rispecchia la stessa Besana, diventava il punto di osservazione di una realtà più vasta, che non si esauriva nella sequenza degli avvenimenti compresi tra il 1940 e il 1974, ma finiva per spalancare una prospettiva spirituale. Quella di Corti, in fondo, è una teologia e, meglio ancora, una mistica della storia, che trova la sua principale giustificazione nel richiamo all’Apocalisse di Giovanni. La vastità stessa del disegno è stata presa a pretesto per una valutazione del Cavallo rosso che, concentrandosi esclusivamente sui contenuti, ha evitato di entrare nel merito di una composizione tanto ambiziosa quanto riuscita.
In questo senso, anche l’accostamento a capisaldi come Guerra e pace e Arcipelago Gulag ha contribuito a far percepire Il cavallo rosso come una clamorosa eccezione all’interno della nostra tradizione letteraria. Non è così, e non solo per il precedente dei Promessi Sposi manzoniani, che per il cattolicissimo Corti risultavano a tratti discutibili in punto di dottrina. In maniera ancora più riconoscibile, Il cavallo rosso merita di rientrare in un canone dell’epica in prosa apparentemente ristretto e in effetti vivacissimo.
E’ la linea che dalle Confessioni di un italiano di Ippolito Nievo arriva fino a La storia di Elsa Morante, passando per quello che forse è il libro più di ogni altro simile al capo d’opera di Corti, e cioè Il mulino del Po di Riccardo Baccelli: altra formidabile storia familiare, altra esplorazione della provincia e altra trama segnata in modo non accidentale dalla Campagna di Russia (quella napoleonica del 1812).
Al Cavallo rosso Corti deve la sua popolarità, che il centenario non mancherà di accrescere e che probabilmente più di un esponente della critica non è mai riuscito a perdonargli. E anche questo, a ben pensarci, è un caso davvero strano.
(Alessandro Zaccuri, 21/01/21, Avvenire)