Cent’anni di Eugenio Corti, che trovò un senso al male disumano nel mondo
Così il grande scrittore brianzolo catapultato nel calvario gelato di Russia iniziò a costruire il Regno di Dio. Da un romanzo a un popolo, Paola Scaglione racconta la storia di un uomo che fece di ogni lettore un testimone.
Era l’autunno del 1987, e lei era solo una ragazzina di poche parole al cospetto del grande scrittore con gli occhi azzurri da galantuomo catturati dall’eterno: «Ci aspettava oltre il cancello, nel giardino verdeggiante della sua casa di Besana in Brianza, la figura elegante da patriarca, il pizzetto imbiancato dagli anni, lo sguardo vivo e il giudizio solido forgiato nel gelido calvario della guerra».
Non sapeva, Paola Scaglione, che quell’uomo che aveva vissuto l’inferno della ritirata di Russia (la marcia dell’orrore dei soldati accerchiati nella sacca del Don con temperature tra 10 e 45 gradi sotto zero, ridotti alla fame e senza mai un tetto), che aveva visto gli uomini capaci di tutto pur di sopravvivere, quell’uomo che, in una buca della vallata di Arbusov, fissando il foro del proiettile che aveva trapassato da parte a parte il suo passamontagna, si era unito alle preghiere di sua madre alla Madonna (promettendole che, se fosse tornato a casa vivo, avrebbe dedicato la sua vita al secondo versetto del Padre Nostro, «Venga il tuo Regno»), proprio quell’uomo che aveva davanti le avrebbe consegnato il compito infinito della testimonianza.
In quell’autunno dell’87 Paola Scaglione sapeva solo che il grande Eugenio Corti, lo scrittore de I più non ritornano (1947), I poveri cristi (riedito nel 1994 con il titolo Gli ultimi soldati del re), Processo e morte di Stalin (1962) e soprattutto del Cavallo Rosso (1983), che aveva servito la verità in ogni parola scritta, le stava aprendo le porte di casa sua.
«Adesso ti dico questa cosa, così poi la scrivi nel prossimo libro…»: quante volte Eugenio Corti l’avrebbe poi allenata al compito dell’amicizia e della testimonianza. Lei oggi è diventata saggista, docente, biografa e massima esperta dell’opera di Corti, ma quel giorno dell’87 come è arrivata a casa sua?
Sono arrivata a Corti come tutti: grazie a qualcuno che mi ha fatto conoscere il Cavallo Rosso. Ancora oggi questo romanzo, giunto alla 34esima edizione e tradotto in otto lingue, continua a vendere e diffondersi con il passaparola dei suoi lettori che, in moltissimi casi, hanno voluto incontrare di persona l’autore. Tra questi il mio fidanzato, che sarebbe diventato mio marito, uno dei suoi primissimi lettori. Nel 1983 non ci conoscevamo ancora: doveva affrontare un intervento importante al San Gerardo di Monza ed era stato conquistato dalla mole del Cavallo Rosso, appena uscito in libreria: 1274 pagine – pensò – basteranno per affrontare la degenza.
Iniziò a divorarlo quando un giorno il cappellano dell’ospedale, don Mario Cazzaniga, in visita ai malati vide il libro sul comodino e gli rivelò che «il don Mario di cui si parlava in quelle pagine sono proprio io. Dovresti venire a conoscere Corti». Così fu, e una volta fidanzati, dopo avermi regalato il Cavallo Rosso, trascinò a Besana Brianza anche me. Io ero intimorita e scoppiavo di domande che non osavo porre a questo testimone di una smisurata tragedia, il cui esito, ripeteva, sembrava poter essere soltanto «una morte che si riorganizzava continuamente da sé stessa, con un’efficienza diabolica»; eppure così sicuro del proprio compito di dar gloria a Dio attraverso la propria vocazione di scrittore. Io stavo sul divano in salotto e lo ascoltavo intimidita, quasi fossi sotto esame.
Però Corti avrebbe ripetuto spesso che era stata la Provvidenza a farvi incontrare.
Il mio fidanzato si seccò in fretta di far da tramite: «Fai la giornalista, le domande devi farle tu». Proposi a Corti una chiacchierata per Vita e Pensiero e iniziò tutto così. A trent’anni osai dirgli «mi piacerebbe scrivere la sua biografia» e finii seduta al suo famoso scrittoio ingombro di carte e lettere, con le matite affilatissime disposte come soldati pronti alla battaglia, nella stanza a nord dalla grande finestra senza tende che guardava le Grigne. Le domande per il libro divennero confronti, passeggiate domenicali sulle Prealpi, giudizi sul presente. Eravamo a casa sua la sera in cui tornò con il manoscritto degli Ultimi soldati del re sotto braccio: era appena andato a riprenderselo da un editore che si era offerto di darlo alle stampe a patto che venisse eliminata la dedica alla Madonna per non scontentare i lettori “laici”.
E come reagì lo scrittore?
Disse che non avrebbe mai fatto un torto a sua Madre per non urtare la sensibilità di questi signori. Del resto il suo cammino di scrittore era nato proprio da una promessa rivolta alla Madonna nella notte di Natale del 1942, durante la ritirata di Russia: non aveva ancora 22 anni e, attanagliato dal gelo e dalla morte, decise che avrebbe impegnato il proprio futuro, la propria penna, nella costruzione del Regno di Dio. Prima di quella promessa c’era stata un’intuizione, annotata nei suoi diari di adolescente che sognava di scrivere «un’opera che serva potentemente alla gloria di Dio sulla terra» e si tormentava chiedendosi se avrebbe giovato di più alla sua capacità il matrimonio o la missione (la strada scelta dai suoi fratelli Piero, medico in Uganda, e Corrado, sacerdote in Ciad, ndr). Ma come edificare l’opera se non partendo per quel mondo dove il comunismo realizzava la tragica utopia di un mondo senza Dio?
È ancora un ragazzo del collegio San Carlo quando chiede al padre industriale di lasciarlo partire in difesa della Polonia assediata dai russi, per battersi – scrive – «contro i nemici di Dio, contro coloro che vogliono far schiavi gli uomini, renderli tristi, distruggerne lo spirito» (sei matto, prima finisci la scuola, è stata la risposta). Ha solo vent’anni quando, chiamato alle armi, chiede di essere assegnato al fronte russo. È qui, nell’orrore disumano e inenarrabile, tra compagni ridotti a cenci gelati e mucchi di carne macellata, che Corti si troverà faccia a faccia con la domanda dell’uomo: che senso ha il male nel mondo? In questa realtà così feroce e apparentemente piena di insensatezza, la fede imparata dai suoi genitori, nella sua terra, gli impone una ricerca di senso ben più radicale sul valore di redenzione della sofferenza, anche di quella apparentemente più assurda. Tornerà, Corti, per dar voce alla verità, a coloro che con lui divisero il pane, combatterono, soffrirono «con me dolorosissimamente sperarono e infine rimasero senza vita sulle interminabili strade della steppa». Sarà per loro una preghiera, la stesura de I più non ritornano, in epigrafe della quale scriverà:
«Offro queste pagine
alla Madonna di mia gente
la Madonna del bosco
per le mani di mia madre».
Corti le ha affidato un compito e il suo centenario che celebriamo oggi cade in un momento in cui tutti, direttamente o attraverso chi amiamo, abbiamo dovuto fare i conti con la vita e la morte, chiedendoci a cosa aggrappare la nostra speranza. Ecco, Corti a cosa aggrappava la sua? Ci sono delle pagine che lei suggerisce di leggere e che misteriosamente sembrano riecheggiare in questi tempi?
C’è il più bel brano della sua vita: così lo definì lui stesso mentre scriveva Gli ultimi soldati del re. È una contemplazione delle farfalle posate sui bordi di terra smossa della trincea, specchio della gioia della mente di Dio, che ne dimostrano l’esistenza e al contempo sono traccia di un destino d’incommensurabile gioia preparato per l’uomo. «Che bene per noi che le farfalle esistano», scrive Corti trafitto dalla bellezza anche durante il combattimento dei soldati che, oscurati dalla storia della resistenza partigiana, dalla fine del ’43 combatterono con gli alleati contro i tedeschi. Pur essendo un convinto repubblicano, Corti decise infatti di giurare fedeltà al re e si adoperava perché ciascuno dei suoi soldati, poveri contadini, sapesse per che cosa combattere. E lo faceva leggendo loro Dante, Pascoli, tenendo lezioni di filosofia e letteratura.
Un giorno un contadino dell’Agro Pontino, ferito e ricoverato nell’ospedale da campo, gli chiese di raccontargli ancora una volta che senso potesse avere combattere per la patria, quando lui sognava solo di tornare a casa per la vendemmia, rivedere i suoi campi, la sua gente, trovare una fidanzata. Corti gli spiegò che “patria” era tutto ciò a cui il contadino desiderava ardentemente fare ritorno, la terra di suo padre, la sua futura sposa, non un’astrazione ma una responsabilità concreta verso le cose amate, con un volto, una bellezza. Sono i volti cari di don Mario e dei suoi ragazzi quelli a cui volge l’ultimo ricordo Manno prima di morire nel Cavallo Rosso. Ed è alle cose amate che il Pierello fa ritorno vivo dal fronte orientale: spiando dalla finestra del portichetto ritrova la pentola in ebollizione sul camino, la vecchia sveglia di ottone coricata sul fianco – e sorride, perché sa che il suo logoro meccanismo funziona solo se adagiata così -, e la Madonnina dipinta a secco sul muro a cui la sua mamma aveva ogni giorno affidato il suo ritorno a casa. Ecco: alla presenza concreta di Dio in Gesù Cristo, all’amore materno di Maria che vigilava su di lui, anche Corti aggrappava la sua speranza.
Tutti parlano di “costruttori” e di ricostruire oggi: Corti aveva chiaro per cosa aveva combattuto e cosa costruire, «tutto ciò che ho fatto l’ho fatto per il Regno». Ma questa promessa è fiorita e radicata perché affondava le sue radici in un solido terreno, quello della Brianza cattolica. È stato questo a fargli pagare il disinteresse della critica e la difficoltà a entrare nei canoni della letteratura novecentesca da studiare a scuola?
Corti viene letto in alcune scuole, ma andrebbe letto in tutte per il valore della sua opera che continua, oggi come dieci, venti, trent’anni fa, a muovere le persone a diffonderlo. Il Cavallo Rosso è un vero romanzo storico, frutto di un lavoro ultradecennale, incardinato nella tradizione del romanzo europeo ottocentesco e senza eguali per la vastità delle vicende trattate e la dimensione della domanda di senso di cui è intriso ogni singolo passo, ogni singolo, vivissimo personaggio. Non c’è opera italiana che abbia indagato il senso ultimo del male e della guerra badando al cuore della realtà come ha saputo fare il realismo di Corti, abbracciando quarant’anni di storia con la prospettiva di un bene che è universale.
È stato questo a tradursi in un successo (cioè in un incontro vero, in un bene che accade) tra la gente più disparata e oltreconfine a convincere François Livi, il professore che ha fatto scoprire Corti alla Sorbona di Parigi. Il successo di Corti sono le migliaia di persone che lo hanno sommerso di lettere colme di gratitudine e desiderio di porsi a servizio del bene, spesso testimoniando che grazie alle sue opere avevano trovato o ritrovato la fede. Incontrare con lui le persone, in occasione delle sue conferenze, era essere abbracciati da un’onda inesorabile di bene.
Quanto alla Brianza, che pure vive come modo di essere e di vedere la realtà in ogni sua parola, ho catalogato personalmente ogni pagina delle sue opere e quelle dedicate al suo amatissimo territorio, che pure rappresenta l’epicentro del Cavallo rosso, terra di innocenza e corruzione, peccati e redenzione, sono una parte davvero minoritaria: non è stato questo a disinteressare la critica italiana. Il clima culturale allora era fortemente ideologizzato e le quasi 1.300 pagine del romanzo, poi editate da una piccola e coraggiosa casa editrice, non aiutavano la ricerca di un grande promotore. Ma fu proprio la sua passione per la realtà, unita alla fede cattolica di stampo brianteo, il suo senso del dovere e il senso dell’operosa carità nonché l’attenzione alla verità storica a muovere Corti a scrivere e ricostruire vicende di guerra e liberazione, piuttosto che la storia dei guaranì e i gesuiti europei giunti in Paraguay (La terra dell’indio, 1998, ndr) o quelle successive all’ammutinamento del Bounty (L’isola del paradiso, 2000, ndr). E fu questo ad attirare un vastissimo popolo di lettori, testimoni del fatto che i suoi libri possono fare bel bene: «questo è il patrimonio che potrà essere utile anche nell’aldilà», diceva Corti.
Per molti Corti è stato un padre, per lei più di tutti. Soprattutto è stato il padrino di sua figlia Lucia.
Quando gli chiesi di tenerla a battesimo si commosse, ma iniziò a obiettare che non era una buona idea: disse che quando Lucia sarebbe stata travolta dai dubbi e dallo smarrimento dei 15 anni non avrebbe potuto aiutarla, «perché allora io non ci sarò più». «Io invece scommetto che ci sarai ancora», gli risposi, «e quando non ci sarai più tu, ci saranno i tuoi libri». Confessò che non ci aveva pensato, e tra gli aneddoti che raccontò a Massimo Caprara, che gli chiedeva della nostra amicizia, scelse proprio questa conversazione perché «alla mia età si dimenticano i nomi e i particolari ma non le cose
importanti». Morì il 4 febbraio del 2014, poco prima che Lucia compisse 17 anni. Ma la sua paternità, il suo cammino intrecciato con l’eterno, continua a scrivere i giorni di chiunque si imbatta nella sua opera e si faccia compagno della costruzione del Regno.
(Caterina Giojelli, 21/01/21, Tempi)