Eugenio Corti, lo scrittore al servizio della gloria di Dio
Il 21 gennaio di cent’anni fa nasceva Eugenio Corti, autore del capolavoro Il cavallo rosso, romanzo storico giunto alla 34^ edizione pur senza battage pubblicitari né ossequi alla cultura dominante. Salvatosi miracolosamente nella ritirata dal fronte russo, fu testimone di una fede limpida. Il suo talento narrativo, unito alla lucidità di giudizio, è tutt’uno con la ricerca della verità sull’uomo e sulla storia. Dove Corti sapeva riconoscere l’agire della Provvidenza.
21 gennaio 1921, Besana in Brianza, via Santa Caterina 14. Nella casa color giallo ocra, una vecchia fabbrica tessile sistemata per accogliere la famiglia Corti, nasce il primogenito Eugenio. La stanza al primo piano in fondo al corridoio che guarda a nord, con una finestra che dà sulle Prealpi lombarde e l’altra sul grande giardino, sarebbe poi diventata lo studio dello scrittore. Lì avrebbero preso vita il romanzo Il cavallo rosso e gli altri scritti della maturità di Corti; lì avrebbero trovato posto le migliaia di lettere di coloro ai quali la sua narrazione ha segnato il cuore e la vita.
Fin da ragazzo Eugenio scrutava tra le pieghe del quotidiano la via per rispondere alla propria vocazione: «Io ho intenzione di scrivere e di compiere un’opera che serva potentemente alla gloria di Dio sulla terra. Mi pare che sono stato creato proprio per questo», annotava a diciotto anni sul diario.
Non è un obiettivo che goda di buona stampa, ma le trentaquattro edizioni del suo romanzo capolavoro Il cavallo rosso, continuamente ripubblicato dal 1983, e le traduzioni in otto lingue sono il segno di un’avventura che continua a galoppare. Il tutto – giova ricordarlo – senza quelle campagne pubblicitarie ben orchestrate che spesso decretano il successo della narrativa di consumo. Ma soprattutto senza alcun ossequio alla cultura dominante.
Testimone di una fede limpida e salda, lontano dai compromessi del politicamente (e culturalmente) corretto, Corti sapeva perché era al mondo: «Ogni essere umano, anche il più umile, è chiamato dal Signore a svolgere un determinato compito: da sempre io mi sono sentito chiamato a raccontare». Dal suo talento narrativo sono fiorite pagine di autentica poesia, nella raffigurazione di una realtà avvincente e vera. Si definiva un cantastorie, classicamente incantato dalla bellezza, volto del bene e della verità. E insieme era un soldato, scampato alla Seconda guerra mondiale perché, impugnata la penna, potesse continuare a fare la propria parte nella buona battaglia.
Nella ritirata dal fronte russo si era miracolosamente salvato dal fuoco nemico e dalle marce interminabili nel gelo; accanto agli alleati anglo-americani aveva partecipato alla liberazione dell’Italia. Nel diario I più non ritornano e nel romanzo Gli ultimi soldati del re rivivono queste drammatiche esperienze, illuminate dalla tenace volontà di scoprirne il significato ultimo.
Il suo narrare ha il sigillo della letteratura autentica: l’implacabile lucidità del giudizio è tutt’uno con la ricerca della verità sull’uomo e sulla storia, indagati con uno sguardo realistico e, insieme, carico di serena misericordia. Non c’è sconcerto né compiacimento nella rappresentazione del male, ma c’è un coraggio disarmante nel rendere conto della presenza del bene anche nelle circostanze più drammatiche. Una scrittura libera e vera, che va dritta alla mente e al cuore delle persone, che le fa sentire a casa nel mondo narrato, soprattutto nella Brianza del Cavallo rosso. È la terra natale di cui è impastata l’identità di Corti il segreto della prospettiva aperta e universale delle sue opere. Il modello culturale e sociale affidato da Corti al lettore è quello che anima la Brianza dei suoi anni giovanili: uno spazio umano certamente imperfetto, ma che vive del concreto e quotidiano riferimento a Dio. Nascono in questa dimensione la solidarietà, che in lingua briantea si chiama carità, il sostegno reciproco, il darsi da fare gli uni per gli altri: non una generica generosità, ma la fede cristiana vissuta che si esprime nella concretezza tipica di questa terra.
Hanno la stessa origine il gusto e la responsabilità del lavoro ben fatto, anche di quello più umile e nascosto: è questo il modo in cui ciascuno è responsabile della propria famiglia e della comunità paesana. Perché per Corti il bene comune – così come il senso del dovere – non è solo un ideale.
Nelle sue pagine vive l’eroismo del quotidiano: uomini e donne coi piedi ben saldi a terra e lo sguardo che abbraccia la realtà nella prospettiva dell’eterno. Ne è un esempio, nel Cavallo rosso, l’industriale Gerardo Riva. Come la persona reale a cui si ispira (il padre dello scrittore), ha costruito la propria fortuna lavorando di giorno e frequentando le scuole serali. Anche lui sa che ognuno ha un compito nel mondo: il suo è quello di creare posti di lavoro.
Niente ragionamenti astratti, ma i nomi e i volti dei compaesani a lui affidati, come accade quando, nel dopoguerra, Gerardo riflette sull’urgenza di ampliare l’azienda familiare. È domenica e, vedendo un centinaio di bambini uscire dalla chiesa dopo la Messa, considera: «Quanti! E tutti per vivere dovranno in futuro lavorare. Ma i posti di lavoro sono quelli che sono: in che modo si potrà far fronte a un problema simile?». Sa che i loro genitori confidano «nella Provvidenza, d’accordo, ma anche negli uomini, cioè in noi cui tocca provvedere». Subito si sente interpellato sul piano pratico: «E come rispondo io, per quanto mi riguarda?». Perché certo, per dirla con quel Manzoni tanto caro a Gerardo e al padre di Eugenio Corti, «La c’è la Provvidenza!»; ma nella terra di Corti si sa che la Provvidenza ha bisogno di braccia e menti umane per agire. E si cerca di far rendere il lavoro anche per l’eternità.
Corti sapeva bene che questa non è una dimensione esclusiva del fazzoletto di terra in cui ha messo a frutto i suoi giorni; proprio il suo radicamento in un tempo e in un luogo preciso, però, è pegno di un bene possibile per tutti.
Celebrare il centenario della nascita di Corti – così come raccontare la sua terra – non è dunque un’operazione di nostalgia: il cantastorie avrebbe scosso la testa, folgorandoti con lo sguardo azzurro. È la memoria viva di quella speranza che non viene meno, fondata sulla presenza di Dio nella storia. Dar voce a quella speranza è un compito per tutti e per ciascuno. Perché la Provvidenza – si sa – ha bisogno degli uomini.
(Paola Scaglione, 21/01/21, La Nuova Bussola Quotidiana)