La stagione all’inferno di Eugenio Corti
Lo scorso 28 novembre ci ha lasciato François Livi, storico collaboratore della nostra rivista. Era nato a Firenze l’8 agosto 1943 e negli anni universitari si era trasferito in Francia. Dopo aver insegnato nelle Università di Digione, Paris X-Nanterre, Nancy, dal 1986 al 2011 era stato ordinario di Lingua e letteratura italiana all’Università Paris-Sorbonne, ove diresse, dal 2000 al 2009, il Dipartimento di Italianistica e, dal 2000 al 2011, l’ELCI (Équipe de Recherche Littérature et Culture Italienennes). François Livi è stato determinante nella ricezione dell’opera di Eugenio Corti in Francia, in stretta collaborazione con il coraggioso editore Vladimir Dimitrijevic, fondatore delle Edizioni L’Âge d’Homme. Tra i lavori più significativi di Livi ricordiamo il saggio Italica. L’Italie littéraire de Dante à Eugenio Corti (L’Âge d’Homme, Losanna 2012). Omaggiamo il nostro amico d’Oltralpe con la sua Presentazione all’edizione Mursia dei Più non ritornano, il diario della campagna di Russia di Eugenio Corti uscito in prima edizione nel 1947 per Garzanti e dal 2013 presente nel catalogo Ares.
Quando nel giugno del 1942 il ventunenne sottotenente d’artiglieria Eugenio Corti è partito per il fronte russo, era lontano dall’immaginare che l’esperienza cui andava incontro avrebbe segnato l’intero corso della sua vita e determinato la sua vocazione di scrittore. Da quell’esperienza infatti sarebbe uscito il diario I più non ritornano, unanimemente ritenuto un capolavoro, e sarebbe nato anche II cavallo rosso (1983), lo stupendo ed eccezionale romanzo storico diventato ormai un ineludibile punto di riferimento nella letteratura novecentesca.
I più non ritornano descrive le vicende della ritirata del 35° Corpo d’armata (costituito dalle divisioni Pasubio, Torino e 298a tedesca). Lasciato il Don il 19 dicembre 1942 perché accerchiato dal nemico, il Corpo d’armata non raggiunse le linee amiche che il 17 gennaio 1943: dei circa 30mila italiani che ne facevano parte soltanto 4mila poterono uscire dalla sacca, e di essi 3mila erano feriti o colpiti da congelamento. Per l’autore di questo libro, che è uno di quei sopravvissuti, rappresentava un dovere dare testimonianza di quella «stagione nell’inferno» personale e collettiva.
Pubblicato nel 1947, I più non ritornano si è subito imposto per la sua materia incandescente, e per la concisione e l’impressionante efficacia del suo stile. Da allora è stato continuamente riedito; nel 1997 ne è uscita la traduzione americana, e nel 2003 quella francese. Si tratta di un’opera (come l’autore stesso spiega in una nota) la cui caratteristica fondamentale intende essere la fedeltà assoluta alla realtà e alla verità dei fatti, senza alcuna concessione a mode letterarie. Il rispetto per una materia così bruciante e tragica scarta ogni effetto retorico e ogni costruzione artificiale. Nessuna concessione al patetico, alle riflessioni psicologizzanti, alle digressioni, alle transizioni abilmente manovrate; nessuno sfruttamento dell’orrore. Un progetto “letterario” sarebbe stato derisorio, anzi indecente, davanti ad avvenimenti di cui Corti intende restituire al lettore la forza grezza: non c’è alcun bisogno di romanzare fatti dei quali la potenza e la dimensione tragica sfidano l’immaginazione.
19 dicembre 1942: inizia la tragedia
Il 19 dicembre, quando giunge l’ordine di abbandonare il fronte sul Don, le truppe italiane, sprovviste di carburante e costrette a lasciare sul posto gli autocarri, le armi pesanti, tutti i materiali e i rifornimenti di munizioni e di viveri, danno inizio a una tremenda anabasi verso le nuove linee amiche, che al momento non esistono ancora. Si tratta di marce disperate nella neve, effettuate da truppe oltre tutto mal equipaggiate, con temperature che a volte raggiungono i 40 gradi sotto zero. L’immensa colonna in ritirata, martellata di continuo dai carri armati e dall’artiglieria russa, assalita anche dai partigiani, si assottiglia di giorno in giorno. I soldati, oltre che falcidiati dalle granate, dai razzi di «catiuscia», e dagli assalti alla baionetta per aprirsi la strada, sono martirizzati dal freddo, dalla fame, dalle interminabili marce, e muoiono di spossatezza, alcuni passano per quell’agonia dolce che è il delirio. Le sequenze di questo diario sono altrettanti frammenti di una tragedia che si svolge sotto gli occhi del lettore, fino alla catastrofe. Il racconto potrebbe essere letto come il tentativo di strappare alla morte degli uomini che essa ha già scelto, di sottrarle almeno qualcuna delle sue vittime.
Questa “stagione nell’inferno” costituisce anche un’immersione all’interno dell’uomo. Lo scatenamento degli elementi naturali fa apparire in piena luce, nello scenario spoglio della steppa russa in cui ciascuno misura la sua piccolezza di fronte a una natura sovrana e indifferente, la mescolanza inestricabile di viltà e d’eroismi, di dimissioni e d’impegno, di egoismi e di generosità, di cui è composta la pasta umana nel suo insieme e in ogni singolo individuo. L’esercito diventa branco, la ritirata si trasforma in rotta, perché la disfatta dell’uomo comincia dall’anima: dove i valori umani declinano, l’istinto animale di sopravvivenza prende il sopravvento e minaccia di travolgere tutto: senso del dovere, solidarietà, dignità. Parallelamente alla lotta con il nemico, è questa lotta che I più non ritornano descrive.
Così questo libro è ben più di una semplice cronaca, per quanto ammirevole. L’ambizione di Eugenio Corti è più grande: tentar di capire, al di là della sua esperienza personale, necessariamente limitata, il mistero del male, e in particolare di quel flagello per l’umanità che è la guerra. Questo diario è stato scritto per far aborrire la guerra: la guerra, e non l’uomo, quale che sia il colore della sua uniforme. Il mistero della sofferenza individuale lascia presentire un cammino di purificazione e di speranza. In questa notte dell’uomo e dello spirito brillano luci di speranza: la dedizione silenziosa di tanti uomini, il comportamento dei vecchi contadini e contadine russi, oppressi da sofferenze prima a opera del potere comunista, e poi dei tedeschi, essi hanno ancora sufficiente fede in Dio e nell’uomo da prodigare generosamente delle cure ai soldati nemici colpiti da congelamento.
Per ricordare gli amici nella morsa del gelo
I più non ritornano è una testimonianza e un memoriale: Corti vuol strappare alla dimenticanza questi brandelli di storie individuali e collettive. Non potendo dar loro sepoltura, egli vuole perpetuare il ricordo dei suoi compagni morti: ci sono in questo libro figure indimenticabili come quella di Zoilo Zorzi, il giovane ufficiale veneto che prende congedo con eleganza dai suoi commilitoni e dalla vita: Corti vuol salvare lui e gli altri da quell’altra forma di morte che è l’indifferenza. Non fosse che a questo titolo I più non ritornano è un libro eccezionale. Per Eugenio Corti la campagna di Russia non è stata un addio alle armi. Rimpatriato nel 1943, egli sa qual è il suo dovere: perciò dopo il crollo del regime fascista ha attraversato il fronte per raggiungere nell’Italia del Sud le forze armate italiane che si ricostituivano e che sarebbero entrate in linea a fianco degli Alleati. Con esse Eugenio Corti combatte sino alla fine della Seconda guerra mondiale, apportando il suo contributo alla liberazione dell’Italia dall’occupazione nazista e fascista, angustiato di trovarsi indirettamente alleato dei sovietici, come prima era angustiato dall’alleanza con la Germania nazista. Da questa nuova campagna nascerà il libro autobiografico Gli ultimi soldati del re. Il diario della ritirata di Russia e il libro della campagna d’Italia costituiscono un dittico che annuncia l’incomparabile affresco storico de II cavallo rosso, romanzo tradotto in numerose lingue e ben conosciuto anche all’estero, nel quale Eugenio Corti, più che mai fedele alla sua ricerca della verità storica e umana, allarga il campo della propria riflessione alla storia di un gruppo di giovani lombardi dal 1940 al 1974. La sua vocazione di scrittore però è nata nella steppa russa, in qualche luogo tra Abrossimowo e Tcercowo, tra il 19 dicembre 1942 e il 17 gennaio 1943.
(François Livi, giugno 2020, Studi Cattolici)