Controcorrente, fedele a una tradizione di bellezza e verità
Per intervistare Eugenio Corti non è stato necessario spingersi fino alla “sua” Brianza. L’incontro, infatti, avviene in uno splendido giorno d’estate nella tenuta dei Marsciano, il nobile casato umbro da cui discende la Signora Vanda, moglie del nostro scrittore. Siamo nella terra in cui affondano le radici cristiane d’Europa e d’Italia, avendo dato i natali – tra gli altri – ai Santi Benedetto da Norcia e Francesco d’Assisi. Tuttavia, sono ancora aperte e vive le polemiche sullo statuto regionale che evita accuratamente di menzionarli, preferendo i riferimenti al Risorgimento e alla Resistenza… D’altra parte, questo è il mondo in cui l’autore combatte la sua battaglia per il Regno di Dio, tenendo fede ad una vocazione maturata sui banchi di scuola, e ad un voto alla Madonna pronunciato durante la ritirata di Russia del Natale 1942. La conversazione prende avvio dalla recente uscita del suo Catone l’Antico, per poi spaziare sulla sua opera, accennare alla realtà culturale ed ecclesiale contemporanea… In conclusione, raccoglieremo delle interessanti anticipazioni sui suoi futuri progetti letterari.
Cominciamo la nostra conversazione con una domanda d’obbligo: perché ha scelto Catone come protagonista del suo ultimo libro?
Catone è, lo sappiamo tutti, un importante personaggio dell’antica Roma repubblicana, che vive intorno al 200 a.C. Ciò nonostante, la sua vicenda ha dei sorprendenti punti di contatto con la nostra realtà contemporanea. È questo il motivo per cui l’ho scelto.
Catone, nel corso della sua lunga vita, sembra quasi trovarsi costantemente tra l’incudine e il martello, a dover fronteggiare da un lato i Greci, dall’altro i Cartaginesi. Ci sono ancora oggi dei Greci e dei Cartaginesi?
Sì, come allora ci sono dei Greci e dei Cartaginesi, ma con tutt’altro nome… Direi che i problemi maggiori contro i quali Catone ha dovuto combattere – lo vedremo – sono stati almeno tre. Uno era la corruzione che, al seguito della cultura greca, stava penetrando nella società romana, prettamente agricola e improntata alle rigorose tradizioni degli antenati, i cosiddetti “mores maiorum”. D’altronde, Catone stesso era un contadino, ed è rimasto tale anche mentre occupava tutte le principali cariche della repubblica. Egli si rende conto che Roma non aveva un’arte ed una filosofia propri, se non a livello embrionale, per cui non poteva prescindere dal grande patrimonio dei Greci. Si impegna, così, a studiare il loro mondo, perfino la loro lingua. Mettendo in guardia, però, dalla corruzione dei loro costumi.
Una corruzione dei costumi, che poi si traduceva nell’usura, nell’omosessualità,… veicolate anche da un certo teatro, da un certo pensiero debole “ante litteram”…
Su quest’ultimo punto, è senza dubbio emblematico l’atteggiamento tenuto da Catone nei confronti del relativismo di Carneade, il quale riteneva che la verità non è distinguibile dall’errore, quindi non esiste. Membro della delegazione venuta a Roma per difendere Atene in seguito alla sanzione inflitta per aver saccheggiato una cittadina dell’Eubea, mentre il Senato si attardava ad emettere un giudizio, Carneade ne approfittò per fare delle orazioni pubbliche, tra cui i due famosi discorsi, pronunciati a distanza di un giorno l’uno dall’altro, in cui prendeva posizione rispettivamente pro e contro la giustizia. L’entusiasmo dei giovani Romani, fino a quel tempo legati a doveri imperiosi, mise in allarme Catone, che si adoperò con successo affinché l’ambasceria tornasse subito in Grecia.
Le tappe del “cursus honorum” di Catone seguono di pari passo l’espansione di Roma, facendone più che un testimone privilegiato…
Catone aveva 17 anni quando ebbe luogo la battaglia di Canne. A quell’epoca, la repubblica romana aveva una superficie modestissima, che nell’arco di cinquantatré anni, secondo quanto riferisce Polibio, arrivò ad estendersi su tutto il mondo conosciuto. I Romani hanno fatto questo non per spirito imperialistico – che esulava completamente dalla loro mentalità e, semmai, è subentrato in seguito –, ma quasi per forza di cose. E per poter essere all’altezza di quegli sforzi terribili dovevano necessariamente conservare la severità della loro impostazione. Ecco perché Catone ha combattuto tanto contro la corruzione dei costumi di derivazione greca. C’era, poi, un secondo grande problema: quello dell’economia cartaginese.
“Delenda Carthago”…
Catone sosteneva che Cartagine dovesse essere distrutta, perché la sua economia produceva a prezzi molto inferiori rispetto all’economia di Roma. Si trattava, infatti, di un’economia che utilizzava su larghissima scala il lavoro degli schiavi. Il timore di Catone era che, anche in Roma, la ricerca della competitività avrebbe portato questo aspetto alle estreme e negative conseguenze.
Lei accosta l’economia cartaginese alle economie di tipo marxistico. Sembra quasi di vedere la situazione attuale, con la Cina alle porte.
La preoccupazione di Catone nasceva dal fatto che gli uomini da cui attingeva le proprie forze l’esercito romano erano in gran parte liberi coloni che coltivavano la terra. La trasformazione dell’economia al modo di Cartagine li avrebbe fatti sparire con l’affidamento della terra agli schiavi, per cui Roma avrebbe dovuto ricorrere come Cartagine a soldati mercenari. Tutto ciò avrebbe significato, inevitabilmente, la fine di Roma. Arriviamo, così, al terzo grande problema, costituito dalla popolarità dei generali emergenti.
Arriviamo, cioè, alla rivalità tra Catone e la famiglia degli Scipioni.
Le grandi campagne condotte in Spagna, in Macedonia, in Africa, avevano fatto acquistare ai generali una popolarità che, agli occhi di Catone, appariva pericolosa per le istituzioni della repubblica. La previsione di Catone era giusta, alla luce di ciò che sarebbe accaduto dopo con le guerre civili e, infine, con l’instaurazione dell’impero.
Lei definisce Scipione l’Africano “naturaliter christianus”.
In quell’epoca, il maggior generale emergente è stato Scipione l’Africano. Dopo le sue molte vittorie i concittadini volevano inaugurargli statue e proclamarlo dittatore a vita, ma egli ha sempre rifiutato. Il suo disinteresse per gli onori, e il rispetto per il nemico, ne fanno un personaggio dalla statura morale straordinariamente positiva: ecco perché dico di lui “naturaliter christianus”.
Questo suo ultimo lavoro, Catone l’Antico, porta a compimento un trittico di “racconti per immagini”. Il suo editore Cesare Cavalleri ha detto che essi sono, nello stesso tempo, una risposta e una sfida alla dilagante cultura delle immagini.
Cesare Cavalleri dice bene. Con la mia battaglia di scrittore, io intendo operare – se possibile – in modo utile alla collettività, per cui non posso sottrarmi dall’operare anche nel mondo delle immagini; ad esempio, scrivendo dei testi per la televisione. Ma la cultura dominante oggi mi è avversa, per cui non mi aspetto che siano rappresentati, almeno in tempi brevi. Ciò nonostante, io non voglio restare escluso dalla possibilità di comunicare attraverso le immagini, e ho preparati tre testi. Però, perché non rimangano chiusi nel cassetto e poi passati nel dimenticatoio, li ho scritti in modo che possano essere apprezzati dal lettore, ancor prima che dallo spettatore.
Lei si sente ostracizzato dalla cultura ufficiale?
Oggi la cultura laicista dominante ritiene che i cattolici abbiano esaurito il loro apporto alla cultura universale. In pratica, se ci sono importanti contributi da parte cattolica, si fa in modo che vengano sistematicamente ignorati, come se non esistessero. Io ho sperimentato questa realtà, ad esempio, con il mio Processo e morte di Stalin, che è circolato anche in russo e in polacco come “samizdat”. Intorno ad esso la cultura occidentale ha steso la cortina del silenzio: è la testimonianza di come in essa sia prevalente l’indirizzo marxista. È semplicemente passata dal metodo leninista a quello gramsciano, in cui si riserva ai dissidenti non più la morte fisica, ma quella civile.
Gramsci aveva detto che a scristianizzare il popolo ci avrebbero pensato gli stessi cattolici.
Ciò dimostra veramente l’intelligenza terribile, oserei dire diabolica di Gramsci. Egli era consapevole che la “forma mentis” dei cattolici costituiva un ostacolo insormontabile per l’affermazione del marxismo, a meno che essi non si fossero convinti che tale visione ideologica della realtà fosse neutra: né contro di loro, né contro altri. A questo punto, sarebbero stati gli stessi cattolici a danneggiare, a distruggere la propria identità. È quello che sta succedendo.
Ripercorriamo le motivazioni che sono alla base della sua opera. Lei ha scritto romanzi, racconti, soggetti, saggi, articoli; quando e come nasce la sua vocazione di scrittore?
La mia vocazione di scrittore è nata quando, ragazzo di prima ginnasio – l’attuale prima media – mi trovai tra le mani, senza che il professore ce ne avesse già parlato in classe, l’Iliade di Omero. Fui preso completamente e in una maniera straordinaria dal fatto che quell’autore, per me sconosciuto, trasformava in bellezza tutte le cose di cui parlava. Ancora non immaginavo cosa avrei fatto “da grande”, ma ero certo che avrei voluto fare altrettanto: scrivere per tradurre in bellezza. E da quel proposito non mi sono più allontanato per tutta la vita.
La bellezza è uno dei suoi capisaldi. L’altro è la verità.
Esattamente. L’altra esperienza determinante, per me, fu la disfatta di Russia nell’inverno 1942: fui coinvolto, con il mio corpo d’armata, nella sacca di Cercovo. Io contavo di fare lo scrittore e, quindi, sentivo che avrei dovuto riferire quei fatti. Tuttavia, decisi di lasciar perdere ogni criterio di bellezza e di attenermi rigorosamente alla sola verità, in modo da poter giurare non solo sull’insieme, ma su qualsiasi frase che scrivevo. Nel 1947, così, vide la luce I più non ritornano, che in circostanze normali non sarebbe mai stato uno dei miei primi libri. Lo ritenevo semplicemente una testimonianza, tutt’altra cosa rispetto a ciò che mi ripromettevo di scrivere. Ma l’accoglienza fu ben superiore a quella che mi aspettavo. Particolarmente significativa, per me, fu la critica di un grande maestro quale Mario Apollonio, all’epoca professore di letteratura italiana all’Università Cattolica di Milano. Io non lo conoscevo se non di nome, vagamente. Egli pubblicò una recensione bellissima, che ricordo ancora quasi a memoria, a distanza di circa sessant’anni. Diceva che il libro, ad una prima impressione, poteva apparire una cronaca “così greve e tetra da sembrare selvaggia”; procedendo nella lettura, però, ci si rendeva conto che era, in pari tempo, un “romanzo, poema, dramma e storia”. Insomma, per il mio rigoroso scrupolo della verità, avevo fatto senza volerlo un’opera letteraria. Perciò, da allora decisi che avrei ricercato la bellezza senza mai distaccarmi dalla verità.
I libri più famosi sulla ritirata di Russia, ad eccezione del suo, furono pubblicati con un certo ritardo. Penso a Il sergente nella neve di Rigoni Stern e a Centomila gavette di ghiaccio di Bedeschi, dati alle stampe rispettivamente nel 1953 e nel 1963. Quali furono le cause?
Tenga presente che, in quegli anni, l’Italia era veramente caduta nell’abisso della miseria, in tutti i sensi; per cui i giornali erano di un solo foglio e i libri di nuova pubblicazione molto rari. Il mio libro è stato uno dei primi sulla ritirata di Russia, poi ne sono usciti moltissimi altri. A distanza di tempo, il mio ha avuto una sorte particolarissima, di cui sono venuto a conoscenza per caso alla fine di aprile, grazie ad un’e-mail inviatami da un professore di San Pietroburgo: è stato tradotto in russo sulla base dell’edizione americana da una casa editrice russa, che nel 2002 ne ha tirato 7000 copie trasferendo il tutto anche su internet.
Parliamo, finalmente, de Il cavallo rosso, giunto ormai alla diciannovesima edizione italiana; un fenomeno editoriale trasformatosi in un classico della letteratura attraverso il passaparola dei lettori, molte eccellenti recensioni, ma senza nessuna attenzione particolare da parte dei grandi organi di informazione. Cavalleri – ritorna il suo editore – ha detto che si tratta di un contributo alla letteratura, alla storia, alla fede. Quali sono le sue impressioni a più di 20 anni dalla prima edizione?
Io posso dire quello che pensano i lettori, che mi scrivono numerosi, e vengono anche a trovarmi. Le loro considerazioni mi hanno indotto ad una scoperta particolare, che mi ha molto colpito: ciascuno di essi ha una propria prospettiva autentica, diversa dagli altri. Questa molteplice varietà mi ha portato a riflettere su ciò che potremo sperimentare in Paradiso, sempre che ci si salvi… Cerco di spiegarmi meglio. Noi sappiamo che siamo fatti ad immagine e somiglianza di Dio, che saranno piene ed evidenti nell’aldilà: ciascuno di noi non sarà solo fisicamente bello, quando ci sarà la resurrezione della carne, ma rifletterà Dio dalla propria particolare angolatura. In ogni individuo emergerà lo specchio di Dio, cosicché l’incontro di miliardi e miliardi di persone diverse sarà motivo non di confusione, bensì di compiacimento, di gioia, di felicità.
Ambrogio, Manno, Michele: in ognuno c’è un po’ di Eugenio Corti.
Il cavallo rosso è un romanzo autobiografico, fortemente autobiografico. Una grandissima parte delle vicende che vi sono narrate, io le ho vissute personalmente e le faccio rivivere a personaggi diversi, maschili ed anche femminili. I tre protagonisti risentono più degli altri di questa impronta.
Lei ha lavorato alla stesura de Il cavallo rosso per ben undici anni.
Se come scrittore dovevo rendere la realtà dell’uomo nel nostro tempo, non potevo non far riferimento anche a determinate vicende che non ho vissuto. Per esempio, io ho fatto in pieno l’esperienza della guerra, ma non sono stato nei lager come quello russo di Crinovaia, dove si è giunti al culmine del cannibalismo, tanto che, chi ne è uscito vivo, non può aver fatto a meno di mangiare la carne dei morti. Per me era indispensabile farmi un’idea chiara, parlare con i sopravvissuti. In questo, mi è stato di grande aiuto Padre Maurilio Turla, cappellano degli alpini del battaglione “Saluzzo”, della divisione “Cuneense”. Quando ho sottoposto alla sua attenzione il manoscritto, mi ha fatto apportare solo due piccole correzioni. Ma la prova che il mio sforzo di rendere quei fatti e quei luoghi era riuscito, l’ho avuta subito dopo la pubblicazione del libro. Una sera, a margine di una conferenza, un reduce di Crinovaia è venuto ad abbracciarmi, convinto che anch’io fossi stato lì. Non voleva credermi che non ci ero passato.
Con Il cavallo rosso – e Gli ultimi soldati del re – Lei ha contribuito a sfatare un certo mito della Resistenza.
Io ho fatto parte del Corpo Italiano di Liberazione, cioè di quei militari italiani che, nell’esercito regolare, hanno combattuto al fianco degli Alleati contro i Tedeschi. Abbiamo risalito tutta la penisola, da Montelungo – io mi sono aggregato qualche settimana dopo, in Abruzzo – fino all’Italia settentrionale. Ho incontrato, quindi, partigiani di tutti i colori, di tutti i tipi. In questi miei romanzi non potevo esimermi dal parlare di loro, ma dovevo esporre i loro meriti e i loro torti, e l’ho fatto. Tutto qui.
Lei si considera un uomo di cultura, non un intellettuale.
Non sono un intellettuale; gli intellettuali sono un prodotto dell’Illuminismo, di cui è simbolo Voltaire. Sono efficacissimi nella demolizione, ma poi non costruiscono niente, se non disordine. Basti pensare al nichilismo che oggi imperversa nell’arte, nella letteratura… Sono degli utopisti che si illudono e pretendono di costruire il paradiso in terra, ma contribuiscono a crearvi l’inferno.
Come vede la situazione attuale della Chiesa?
È ancora una situazione di crisi, che lascia intravedere, però, dei motivi di speranza. Dopo la morte di Giovanni Paolo II, il maggiore di essi è senza dubbio l’elezione al soglio pontificio di Benedetto XVI. Secondo me, questi non è affatto inferiore al suo predecessore. Alla luce di ciò che ha detto e scritto fino ad oggi, egli affronterà sicuramente con energia il pericolo di invischiamento in teorie estranee alla nostra dottrina tradizionale. Insomma, ci sarà un grande recupero dell’identità cattolica.
Per concludere, può farci delle anticipazioni sui suoi progetti letterari? Almeno può dirci qualcosa sulle fiabe ambientate nel Medioevo, di cui si parla da qualche tempo?
C’è un punto nel Vangelo, riguardante la Madonna, che secondo me non è stato sviluppato come si deve fino ad oggi. Io vorrei, per quel che posso, sviluppare in quei racconti questo punto. Spero che la Madonna mi aiuti, come sul fronte russo…
Confidiamo che la preghiera di Eugenio Corti non resti inascoltata, tanto più che, per l’affetto dei suoi numerosi lettori, non sarà certamente isolata. Noi glielo auguriamo di cuore, se non altro perché tutta la sua opera è da sempre ispirata a Maria. Eugenio Corti, infatti, non ha mai distolto lo sguardo dalla Bellezza e dalla Verità, che Ella ha sommamente incarnato.
(Salvatore Senese, Fides Catholica, 2006)