Tenuto per mano da Domineddio
Muore all’età di 93 anni il romanziere che ha visto gli abissi più bui del Novecento. E che li ha raccontati. Tra la sua eredità, lascia “Il cavallo rosso”. E la grazia di documentare che il male non è l’ultima parola sull’uomo.
Eugenio Corti era un uomo buono e sereno, morto a 93 anni in pace con se stesso e con il mondo di cui ha conosciuto le tragedie più bestiali. Altri sarebbero stati sopraffatti dall’orrore, incattiviti con un destino che salva pochi e condanna tutti gli altri, a casaccio.
Corti no, lui reduce dalla Russia, testimone oculare delle barbarie della seconda guerra mondiale, era tornato a casa con una fede ancora più forte in «Domineddio» e con la coscienza di un compito: fare conoscere gli abissi del male degli uomini, e assieme documentare che il male non è l’ultima parola sull’uomo.
E’ nato così Il cavallo rosso, il suo libro più famoso, un romanzo da cui é difficile staccarsi, pubblicato nel 1983 e da allora stampato in 27 edizioni, 200.000 copie e tradotto in nove lingue compreso il giapponese; 1.300 monumentali pagine scritte in un arco di dieci anni e cesellate giorno per giorno, perché nulla delle memorie andasse perduta e tutto ciò che si potesse dire della Provvidenza fosse scritto. Un’opera ignorata dall’intellighenzia ufficiale ma amatissima dai lettori. Un viaggio «alla radice del male»: così disse quando nel 2000 ricevette il Premio della Cultura cattolica a Bassano del Grappa. L’epopea di una famiglia che attraversa il Novecento conoscendo il fascismo, la guerra, il comunismo, il «boom» economico e poi il terrorismo. Ma questo viaggio accomuna tutta l’opera di Corti, dai romanzi alle biografie storiche, dai racconti sul Medioevo al testo teatrale di Processo e morte di Stalin, fino al diario scabro e terribile dei 28 giorni di ritirata narrati in I più non ritornano.
Corti non divide buoni e cattivi secondo il manicheismo culturale dominante. Il male non è prerogativa di taluni né il bene privilegio di altri: ogni uomo li sperimenta entrambi e ne conosce il fascino, perché il male attrae. «C’è il gusto di fare il male», disse in un’intervista a Tracce nel 2011, una delle ultime: «Si può essere felici di ammazzare, è l’impulso demoniaco che continua a farsi sentire e che trascina molti». Non aver additato un colpevole, «il» colpevole secondo il laicismo dominante e la storiografia «politicamente corretta», gli è valso l’ostracismo dei circoli intellettuali che predicavano il «silenzio di Dio», la «morte di Dio». Ma è come fosse un Oscar alla carriera.
Da liceale fu abbagliato dalla lettura dell’Iliade. «Omero trasformava in bellezza tutte le cose di cui parlava», raccontò. «Ero in quel tempo della vita in cui si iniziano a delineare le decisioni fondamentali: io decisi di scrivere. Ecco il mio sogno: inseguire la bellezza». Il destino gli aveva riservato un cammino all’apparenza opposto, attraverso la ritirata di Russia, la fame, il gelo, il raccapriccio di vedere con i propri occhi tutta l’abiezione umana. La vigilia del Natale 1942 fece un voto alla Madonna: «Se esco vivo, e non resto lì, come un mucchietto di carne congelata sulla neve, mi impegno a spendere la mia vita per la verità e l’avvento del Regno». Servitore della verità. Era stato lui a voler partire per la Russia dopo un anno di addestramento nel XXI reggimento artiglieria divisionale a Piacenza e poi alla scuola allievi ufficiali di Moncalieri da cui uscì sottotenente: «Avevo chiesto di essere destinato a quel fronte per farmi un’idea di prima mano dei risultati del gigantesco tentativo di costruire un mondo nuovo, completamente svincolato da Dio, anzi contro Dio, operato dai comunisti». Disse a Tracce: «Volevo fare lo scrittore cristiano e raccontare anche l’esperienza dell’a-cristianesimo». La provvidenza, o – come lui la chiamava – la Sopranatura, l’avrebbe accontentato: testimone con gli occhi e con la scrittura.
Corti era un uomo semplice, tutto dedito alla sua vocazione. Negli ultimi anni, con il volto scavato dalla vecchiaia in cui brillava la vivacità degli occhi azzurri, godeva dell’amicizia di tanta gente. Nella casa di Besana Brianza dov’era nato e a cui era legatissimo, riceveva gruppi di studenti e amici, passava serate a discutere del passato e del presente, insegnava e imparava, desideroso di giudicare i fatti e contento di potersi confrontare con i più giovani. Fino a scoprire che, a volte, il più giovane era proprio lui, quel signore con il pizzetto e il bastone che camminava adagio per essere sceso nel mistero del male tenuto per mano da Domineddio.
(Stefano Filippi, 05/02/14, Tracce)