Quei bambini spagnoli nel gulag sovietico. Rileggendo Eugenio Corti
Tra le pagine meno conosciute della storia del ventesimo secolo, quella della tratta dei bambini spagnoli in Urss, dopo la guerra civile spagnola è forse una delle più significative.
Con la vittoria dei franchisti, molti comunisti ripararono nel 1938 in Urss, convinti di andare a vivere in un nuovo paradiso terrestre. Portarono con loro circa 300 bambini spagnoli, in parte figli di prigionieri franchisti giustiziati, in parte figli di fanatici marxisti che affidarono volentieri la loro prole alle magnifiche sorti e progressive del nuovo regno del proletariato.
Questi bambini avrebbero dovuto essere allevati in URSS, all’ombra di Stalin, per diventare i nuovi modelli di giovani rivoluzionari, plasmati all’insegnamento del marxismo leninismo, per poi essere reintrodotti in Spagna a svolgere il compito di agit prop, all’interno del paese di origine.
Il progetto venne poi abbandonato e questi bambini finirono in campi di concentramento confinanti con i gulag veri e propri, dimenticati da tutti. Alexander Solzenitsyn ne fa un fugace cenno nel suo Arcipelago Gulag.
Chi ne parla più dettagliatamente è il nostro Eugenio Corti, nel suo stupendo romanzo “Il cavallo rosso”, un affresco della storia d’Italia dalla nascita del fascismo al referendum sul divorzio del 1974.
Fortemente autobiografico, il romanzo avrebbe dovuto innalzare Eugenio Corti fra i più grandi romanzieri italiani del dopoguerra ma la cultura egemone del PCI gli impedì qualsiasi riconoscimento.
Qui di seguito, riportiamo da il “Cavallo rosso “ le pagine più significative che testimoniano la triste sorte dei bambini spagnoli.
“Senor” si udì una voce alle loro spalle.
Voltarono entrambi la testa: un ragazzino era venuto alla rete, e di là, da una distanza di pochi metri, li stava osservando. Michele sapeva che la “colonia” era composta per intero di ragazzi tra i dodici e i quindici anni: forse cinquanta, forse sessanta ragazzi spagnoli; ne aveva incontrati più volte sul lavoro. “Cosa vuoi ?” gli chiese bonariamente.
“Confieti, los confites, senor” mormorò il ragazzo.
Il sottotenente si mise a ridere.”Questi non sono confetti: no estàn confites.” disse in uno spagnolo alquanto arbitrario, mostrando il frumento che teneva in mano,, e riprese il lavoro di trasferimento nella tasca di Tito.
“Confites, senor, confites !” disse con voce più forte il ragazzo.
Michele gli fece sorridendo segno di no con la testa; alcuni altri ragazzi erano intanto usciti dalle casupole e venivano verso la rete. Erano vestiti di stracci, avevano in genere capelli neri, folti, e le sopracciglia e i visi marcatamente disegnati, gli occhi vivaci . Chiaramente non erano russi. “Confites, confites” cominciarono pure essi a chiedere: pronunciavano la parola piuttosto male, probabilmente la stavano riscoprendo dopo chissà quanto tempo.
“Chi sono quelli?” domandò Tito.
“Sono gli spagnoli. Ne hai sentito parlare, no ?”
“Io no. Ma sono dei bambini… Com’è che sono prigionieri ?”
“Sono di quei bambini che i rossi hanno portato via quando hanno dovuto ritirarsi dalla Spagna : è successo verso la fine della guerra nel 38-39. In Italia l’avrai sentito dire di questi bambini.”
“Ah , sì, qualcosa infatti.”
“Ce n’è diversi che adesso non ricordano più la loro madre e neanche la Spagna. Non si può nemmeno dire che parlino veramente lo spagnolo, ma una mescolanza di spagnolo e russo. L’intenzione dei rossi era di tirarli su nel comunismo, per poi utilizzarli in Spagna come propagandisti. E forse , chissà, lo faranno anche, ma fino a oggi si sono limitati a tirarli su negli stracci, senza insegnargli niente o quasi. Io li ho incontrati al lavoro nei colcoz e ci ho parlato.”
“Ma “ disse Tito” non capisco bene. Sono orfani dei rossi, oppure sono figli di… altri; voglio dire, sono stati rubati ?”
“Questo glielo ho domandato anch’io, ma i ragazzi non lo sanno. Da come li tengono sequestrati sembrerebbero figli di anticomunisti: però ci sono forse anche degli orfani di comunisti, chissà.”
“Che cosa !” mormorò il Tito Valli con spossatezza,e ripeté “Che cosa!”
“Sì , poveri ragazzi” convenne Michele.
“Confites, senor” gridò più forte il ragazzo, vedendo che i due militari invece di prestargli attenzione conversavano tra loro; anche gli altri allora si misero ad urlare :”Confites, confites!”
“Ehi, muchachos” disse Michele levandosi in piedi, e dirigendosi un po’ preoccupato verso il gruppo: ”non gridate così. Ticho, ticho (niente chiasso: in russo).
Si fermò davanti alla rete metallica :”Vedete no? Questi qui non sono confetti, no estàn confites”.
Tornò al russo. “E’ zernò (frumento). L’ho fregato al colcoz: zabral (rubare)” fece il gesto con la mano ”en el colcoz: anche voi ne zabrate quando potete, non è vero?”
I ragazzi, raggruppati aldilà della rete, erano ammutoliti e lo guardavano con gli occhi neri pieni di delusione. Michele provò una stretta la cuore: non aveva nulla, proprio nulla da offrire a degli innocenti così bestialmente violentati… ”No estàn confites“ ripeté sorridendo un po’ melenso, e fece scorrere il grano da una mano all’altra.
“No son confites, no “ammise uno dei ragazzi, e tentennò la testa: ”No existen confites aqui in Rossìa”
Michele approvò: ”Ecco, giusto.”
Il ragazzo, che era lacero come un mendicante, ma aveva un bel viso fiero, esclamò: ”Este, senor, es el pais de la mierda.”
Dopo di che si staccò dalla recinzione e si incamminò al pari degli altri verso le due baracche. Michele tornò da Tito che, volgendo all’indietro la sua faccia gialla, gonfia, da malato, aveva seguito ogni cosa attentamente. “Dei bambini rubati” disse ”Io, quando in Italia la radio lo diceva, non ci credevo”.
(Eugenio Pasquinucci, 04/09/20, Destra.it)