Ecco il diario inedito di Eugenio Corti
Nel numero di giugno di Studi cattolici (rivista edita da Ares) è incluso un prezioso «Quaderno speciale» dedicato a Eugenio Corti (1921-2014). Si festeggia la nuova edizione in lingua francese del Cavallo rosso (Le Cheval rouge, Noir sur Blanc, Montricher 2020, traduzione di Françoise Lantieri, pagg. 1416, euro 32). Il Quaderno si apre come meglio non si potrebbe, ovvero con un inedito dai Diari di guerra dello scrittore (qui ne presentiamo un breve stralcio).
Qualche anticipazione di questo importante documento è stata pubblicata per ora solo nel Ricordo diventa poesia (Ares 2017).
In questo diario, cito dalla rivista, «iniziato il 5 novembre 1943 a Guagnano (Lecce) dopo aver raggiunto le truppe Alleate, Corti ricorda il viaggio verso il fronte russo nel 1942: in quella tragica esperienza maturò la sua vocazione di scrittore». Da quell’esperienza nascono infatti I più non ritornano (Garzanti 1947, oggi edito da Ares) e il capolavoro Il cavallo rosso (Ares, 1983). I giorni decisivi sono quelli tra il 19 dicembre 1942 e il rimpatrio all’inizio del 1943. Il 19 dicembre arriva l’ordine di ritirarsi verso le linee amiche, che non esistono ancora. I soldati sul Don abbandonano tutto e iniziano una marcia disperata nella neve. Ci sono quaranta gradi sotto zero, gli italiani sono bersagliati dall’Armata rossa e dai partigiani. Il corpo di spedizione si assottiglia sempre più. È una tragedia tale da convincere Corti che quella storia andrà raccontata ma non romanzata. Inventare, abbellire, sfruttare l’orrore sarebbe moralmente sbagliato, oltre che inutile, visto che la realtà supera l’immaginazione. Una strada totalmente diversa da quella scelta da Curzio Malaparte in Kaputt. Due modi opposti di rapportarsi alla Storia di cui si è stati testimoni e talvolta protagonisti. Cito Malaparte, nonostante non sia stato sul Don, perché il cavallo congelato ricopre un ruolo centrale nell’economia di Kaputt: «Muore tutto ciò che l’Europa ha di nobile, di gentile, di puro. La nostra patria è il cavallo». L’inedito di Corti è accompagnato da un invito alla lettura di François Livi a I più non ritornano, il primo libro di Corti; dall’entusiasta recensione di Le Figaro Littérarie all’edizione francese del Cavallo rosso, firmata da Pierre Adrian, e da un estratto della tesi di laurea di Claudia Sardo Rispettare in tutto e per tutto la verità», vincitrice, ex aequo con Dario Romano, del Premio internazionale Eugenio Corti 2020, di cui offre un puntuale resoconto Chiara Finulli.
“Andavamo in Russia: che sapore di avventura; che gusto, al pensiero, di terre lontane e sconfinate; che ansia, all’idea di entrare finalmente nei Paesi che il muto, enorme, impenetrabile muro bolscevico aveva tenuto da tanto divisi dal resto del mondo.
Mi venne fatto anche di pensare se tutti quei soldati sarebbero tornati in Italia, o quanti sarebbero caduti laggiù: ero ottimista. Bella cosa è non vedere nel futuro! Guai se avessi saputo che quasi tutti quei bersaglieri sarebbero rimasti prima del finire dell’anno senza vita (della Divisione Celere si salvò solo un quindicesimo circa) e che la maggior parte degli altri avrebbe avuto una stessa sorte!
Mai la Patria effettuò spedizioni di soldati che ebbero esito così spaventoso come quelle di allora per la Russia.
Per ciò che riguardava me personalmente ero tranquillo: sentivo con sicurezza che sarei tornato, che non mi sarebbe capitato niente di male, che la Provvidenza non avrebbe così atrocemente colpito una mamma come la mia: una Santa. Fu una sensazione che non mi abbandonò mai neppure quando ogni umana speranza era pazzesca e la morte appariva sicura. Bellini, scrivendomi dall’Ospedale, dopo tornato in Italia, mi ricordò particolarmente la mia «olimpica calma» anche nei momenti più atroci. Quella calma mi veniva appunto da questa certezza che in ultima analisi non era se non fiducia nella Provvidenza. E gli altri tre colleghi, sarebbero tornati? Anche questo, ricordo bene, una volta mi domandai, e invocai dal Cielo, e sperai: guardavo, ricordo, Zorzi. Tornerà?
La pianura di Bologna, poi quella di Ferrara. Per la prima volta percorrevo quella linea. Ho fermo il ricordo di un marciapiede di stazione secondaria con costruzioni di mattoni rossi pieno di sole. Ferrara. La rigogliosa piana veneta. Nelle prime ore di viaggio mi cadde il thermos ricordo dei colleghi della 230a Batteria e andò in frantumi. Dovetti buttarlo via; conservai il bicchiere di galalite rossa che mi servì durante tutto il viaggio.
Padova: Zorzi si sporse dal finestrino; aspettava qualcuno, una ragazza, se ben ricordo. Non c’era. Lasciammo indietro quella città che era la sua di studio. Mestre. Una breve sosta. Mi recai al ristoratore: c’era un gran caldo, ero in maniche di camicia, senza cinturone. Un soldato di servizio mi fermò e voleva respingermi sul treno. Ridendo gli mostrai stivali e speroni: «Ufficiale!». Scattò sull’attenti scansandosi. Verde intenso di campagne rigogliose.
A Udine una bella sosta: ne approfittammo per girare la città: linda, pulita, graziosa e per cenare al ristoratore della stazione. Ma girammo e cenammo in tre; Bellini andò per suo conto perché avevamo litigato. Dopo alcune discussioni tra me e lui circa alcuni lati della morale (relazioni con le ragazze) e circa il bolscevismo, ci buttammo l’uno contro l’altro nella politica poiché egli era fascista convinto e filotedesco. Io non potevo vedere già da allora i Tedeschi, soprattutto per le crudeltà da loro commesse in Polonia e consideravo il Fascismo come un buon regime di transizione ormai vivente solo come larva. Egli era fermo nelle sue idee; io non meno e per di più duramente ironico. Ci offendemmo. Gli altri si dichiararono dalla mia parte a causa dei Tedeschi. Quel dissidio aumentò ancora durante il viaggio, specialmente in Polonia, e fece sì che per tutta la campagna di Russia non ci rivolgessimo quasi la parola, fino ai giorni della rottura del fronte.
Poi divenimmo nuovamente amici, anzi solo allora veramente amici, e ci salvammo reciprocamente la vita più di una volta…
Ci lasciammo indietro anche Udine. Gorizia e la suala sua conca, i fiumi sacri al ricordo di tanti morti, le montagne testimoni delle inaudite sofferenze dei padri. Vedevo tutto per la prima volta; rivissi nel cuore tanti ricordi, tante cose udite e lette. Vicina mi rimase per ore e ore la cara figura di zio Enrico. Il Carso. Cimitero di Redipuglia con le tre Croci in alto ad abbracciare una somma immensa di immensi dolori. Resti di trincee e di rovine. Come doveva essere triste, pensavo, la guerra di allora, fermi sempre, nella terra e nella roccia, a marcire nel corpo e nello spirito. Ben più fortunati (ahimè, pensavo in una illusione di poesia) noi cui erano destinate le corse sulle immense pianure e orizzonti senza confine. Il mare. L’Adriatico rosso nel tramonto. Ancora quanti pensieri! Monfalcone. Lontano Trieste. Verso il confine: andavamo a Lubiana. Lungo la strada ferroviaria continue tende e piccoli appostamenti di soldati. Eravamo in una zona infestata dai ribelli. Che ci attaccassero? Era improbabile, pensavamo. Ma chissà! forse il ballo poteva cominciare molto prima del previsto.
Non nego che desideravo, pur senza confessarmelo, che il treno fosse attaccato. Non sapevo che, bene o male, sarei stato accontentato.
Postumia. Il vecchio confine era vicino. Sembrò che il treno dovesse restar fermo per qualche ora. Con Zorzi uscii di Stazione e ci avviammo alla ricerca dell’entrata delle famose Grotte. Volevamo vederne almeno l’esterno. Eravamo senza bustina e senza cinturone, disarmati quindi. Ci colpì il silenzio che regnava dovunque. Notammo che i lampioni (non era ancora scuro del tutto) erano accesi. Non un’anima viva per le strade. Passò una ronda di un Maresciallo e due Carabinieri con armi automatiche (se ben ricordo) e moschetti. Il Maresciallo ci guardò con faccia scura, ma non disse nulla. Che diavolo aveva? Tirammo avanti incuranti. Non trovammo nessuno: volevamo battere a qualche uscio per chiedere informazioni, ma poi lasciammo andare e riprendemmo la via della stazione. Ecco all’improvviso fucileria, raffiche di mitraglia e scoppi violenti. Ma bene! Che fossero i ribelli? Dovevano essere proprio i ribelli. Ma come mai quegli scoppi? Cannoni? Impossibile. Seppi poi che erano mortai. Presso la stazione vedemmo un fascista che passava di corsa con un mitragliatore, curvo, fermandosi alla cantonata; era in borghese, con la sola camicia nera. La cosa diveniva emozionante; alle scariche, vicine, succedevano pause di silenzio.
In stazione un certo tumulto, soldati di varie armi, Carabinieri, camicie nere. Si seppe che poco più giù, dove il treno era da poco passato, un Sergente era rimasto ferito a una gamba. Era laggiù che si sparava. Una locomotiva partì a prendere il ferito. Sapemmo che il giorno prima era rimasto ucciso un Tenente dei Bersaglieri.”
(a cura di Alessandro Gnocchi, 13/06/20, Il Giornale)