Intervista a Eugenio Corti
«Andai sul fronte russo per vedere se davvero i comunisti erano più cristiani di noi, come diceva il maritainiano Mounier. Scoprii che il regime aveva fatto cose terrificanti. E decisi che dovevo raccontare quel che avevo visto»
«Ha fatto proprio bene a pubblicare quel pezzo su Cochin, quel che descrive lo studioso francese è esattamente quel che è successo a me: se uno non fa parte del coro della cultura dominante viene messo al bando». Eugenio Corti, 86 primavere portate benissimo – fino a un paio d’anni fa prendeva l’aereo da solo per andare dai suoi numerosi supporter parigini, ora si aiuta con un bastone per camminare, ma la mente è lucidissima – si è preparato a dovere per ricevere l’inviato di Tempi nell’antica villa di famiglia sui colli della Brianza, un pezzetto di parco da cui lo sguardo spazia dalle prealpi fino laggiù a Milano. L’occasione è la pubblicazione da parte di Ares della ventunesima edizione del suo opus magnum, Il cavallo rosso, un risultato straordinario per un romanzo che non ha mai avuto altro sostegno che quello del proprio valore e del passaparola dei tanti che lo hanno apprezzato. Ma la conversazione spazia, inevitabilmente, su tutta la storia di uno dei grandi testimoni del secolo passato. E comincia dallo stupore del cronista per la quantità di lettere che riceve, per le tante persone che ancora lo cercano, dall’Italia e non solo. «Sì, sono in tanti i giovani che vengono regolarmente a trovarmi, a parlare di tante cose».
Che cosa trovano dunque in lei?
Credo che interessi loro sentire un testimone del secolo passato. Uno che dopo avere attraversato tutti gli orrori e le bestialità del secolo non ha perso la fede ma l’ha incrementata.
Tante persone di fronte agli orrori del Novecento hanno abbandonato Dio, lei no. Come è stato possibile?
Non è stato un merito, è stato un regalo di Domeneddio. Un regalo di cui però fa parte la solida preparazione cristiana anche culturale che ho ricevuto fin da giovane: sapevo bene che Dio ha detto ben chiaro che i disastri sono le conseguenze che l’umanità si tira addosso quando abbandona la sua strada. Non è Dio che ha abbandonato l’uomo, è l’uomo che ha abbandonato Dio e le conseguenze sono stati gli orrori del secolo passato.
Orrori che lei ha incontrato consapevolmente dal momento che, allo scoppio della Seconda guerra mondiale, ha chiesto espressamente di essere inviato sul fronte russo. Perché questa scelta?
Sì, è vero. Io studiavo allora legge all’università Cattolica a Milano. Nella biblioteca dell’università mi imbattei in un fascicolo di Esprit, la rivista diretta da Emmanuel Mounier. Io non lo conoscevo, ma sapevo che era amico e allievo di Jacques Maritain, e Maritain era allora l’avanguardia della cultura cattolica mondiale, così volli leggerlo. C’era scritto che non era vero che il comunismo russo era la peste, che a dipingerlo così erano i fascisti e le “demoplutocrazie”, ma i comunisti in realtà erano più cristiani di noi. Se lo dice questo qui che è allievo di Maritain, mi dissi, bisogna andare a vedere. Così allo scoppio della guerra, mentre tutti cercavano di imboscarsi, io chiesi di essere mandato sul fronte russo. Fu l’esperienza definitiva della mia vita.
Che cosa scoprì?
Parlai tantissimo con i russi, per quel che permetteva la lingua, e scoprii qualcosa di terrificante: non c’era una famiglia che non avesse almeno un membro ucciso dal regime o deportato in Siberia. Raccolsi i racconti degli anni terribili della carestia in Ucraina e del cannibalismo che ne seguì. Quella vicenda mi fece toccare con mano la verità di quel che aveva scritto sant’Agostino millecinquecento anni prima: o si costruisce la città di Dio, o inevitabilmente si costruisce la città del Principe di questo mondo. E decisi che dovevo raccontare quel che avevo visto. Nacquero così i miei primi libri, sostanzialmente autobiografici, I più non ritornano, I soldati del re, e naturalmente Il cavallo rosso.
Si può dire che la sua vocazione di scrittore nacque allora?
No. Era nata prima. Era nata sui banchi della prima ginnasio, quando avevo scoperto Omero: “Farò come questo”, mi dissi allora. Perché Omero trasforma in bellezza tutto ciò di cui parla. E da allora non ho mai lasciato questa impostazione.
Poi però non si è più limitato a raccontare la sua esperienza.
No. Poi ho sempre cercato di approfondire attraverso i miei romanzi le questioni che mi sembravano più urgenti. Studiai a lungo, naturalmente, il comunismo, e da quel lavoro è nato Processo e morte di Stalin, dedicato alla natura criminale di quel sistema. Poi ci sono state la decolonizzazione e la globalizzazione, si è incominciato a vedere gli europei come colpevoli di tutti i mali del mondo, gli altri popoli hanno cominciato a chiederci conto di quel che avevamo fatto loro; così ho scritto La terra dell’indio, sulla stupefacente avventura dei gesuiti in Paraguay, che con le “reducciones” hanno portato in pochi anni un popolo intero dalla preistoria a una civiltà prospera e raffinata. Poi si è diffuso il mito dei mari del sud, dei paradisi incontaminati, del buon selvaggio che vive felice, libero dalle regole della civiltà occidentale; così ho scritto L’isola del paradiso, la storia vera degli ammutinati del Bounty, un gruppo di uomini che hanno cercato di costruire una civiltà nuova, “naturale”, e hanno finito per scannarsi tutti uno a uno. Infine, pensando alla questione delle radici cristiane, dell’impotenza balbuziente dell’Europa a rivivere la sua cultura, ho scritto Catone l’antico, la storia di quest’uomo in cui la fierezza romana si apre all’attesa di una speranza nuova.
E oggi a cosa sta lavorando?
Quando ho compiuto 85 anni mi sono detto: “Hai parlato di tutto tranne del periodo storico che ti piace di più, il medioevo”, così ho cominciato a scrivere la storia della beata Angiolina, una lontana antenata di mia moglie. Spero che Dio mi dia la forza di finirlo prima di morire.
Un libro sul medioevo che non sia Il nome della rosa sarebbe un evento nelle nostre scuole.
Quella è stata un’enorme canagliata. Umberto Eco ha preso in mano un interesse vero e lo ha rovesciato. E pensare che è lo scrittore italiano più venduto nel mondo…
Non è vero, sa? Lo scrittore italiano più venduto nel mondo è Guareschi.
Davvero? Sono proprio contento. L’ho conosciuto, Guareschi: naja io, naja lui, credente come può essere un soldato, rustego. Combatteva per il cristianesimo in modo laico, e militaresco.
Torniamo a Maritain e Mounier. Come li ha guardati dopo l’esperienza russa?
Li ho combattuti con tutte le mie forze, perché ho capito quale era il loro errore. Maritain in origine era un socialista rivoluzionario ateo; poi Dio gli ha toccato il cuore, ma lui è rimasto accecato dal fatto che nel bagaglio culturale dei marxisti e dei laicisti – che erano suoi amici – c’erano molte verità cristiane impazzite, come direbbe Chesterton. Maritain si definì un minatore che cercava valori e virtù cristiani nascosti nel mondo laico, e finì per convincersi che costoro – che lui era ansioso di conquistare alla sua nuova fede – fossero in sostanza già cristiani, e che si potesse costruire una “nuova cristianità” con marxisti e laici.
E in cosa consiste l’errore?
Nel fatto che una verità, un valore o una virtù cristiani, messi nel bagaglio degli altri, li rendono ancora più avversi al cristianesimo. Le faccio un esempio, preso dal libro di Rudolf Höss, Comandante ad Auschwitz: non era facile, spiega Höss, mantenere gli altissimi ritmi previsti per lo sterminio degli ebrei; fu possibile farlo solo grazie al grande “spirito di abnegazione” delle SS addette ai crematori, che rinunciarono alle licenze e si sobbarcarono turni pesantissimi. Capisce la follia? Lo spirito di abnegazione è certamente un valore cristiano, ma al servizio di una causa sbagliata la rende solo più micidiale.
Maritain alla fine si accorse dell’errore.
Sì, e ne Il contadino della Garonna arrivò a dire che i cristiani erano stati stupidi a credere a quello che lui aveva detto. Intanto però il danno era fatto, aveva gettato il seme della peste del cattocomunismo: di lì sarebbero fioriti i vari Dossetti, Lazzati, Fanfani, La Pira.
Personaggi che lei ha avversato duramente.
La mia querelle con Lazzati risale al tempo del referendum sul divorzio. Gabrio Lombardi, che era stato capitano durante la guerra di liberazione, aveva dato vita al Comitato per il sì e mi chiese di fare il vice presidente per la Lombardia. Io obbedii, lasciando anche la stesura del Cavallo rosso, e mi ritrovai di fatto a fare tutto. E il mio avversario più accanito divenne proprio Giuseppe Lazzati, che pure era stato mio amico. Ma difendeva una concezione che avrebbe disciolto il cristianesimo, e continuai ad attaccarlo duramente. Non ci siamo più parlati. I suoi discepoli, che alla Cattolica sono ancora forti, specie nella facoltà di Lettere, non me lo hanno mai perdonato. Poi ebbi anche una polemica con Avvenire, che accusai di avere abbandonato la battaglia contro il comunismo, cosa che in quegli anni era davvero accaduta. Così per il mondo cattolico italiano sono rimasto uno scomunicato.
Nessuno è profeta in patria.
Forse è vero. Infatti ho trovato molto più sostegno in Francia. Paradossalmente, proprio a partire dalla mia battaglia contro Maritain: in Francia c’è un piccolo gregge di cattolici, più emarginati dei cattolici italiani dalla vita pubblica, che cercano di mantenersi fedeli alla tradizione, e hanno trovato nei miei scritti un punto di riferimento. Così finché ce l’ho fatta sono andato regolarmente a trovarli.
E comunque non ha mai rinunciato al suo lavoro di scrittore.
Io sono stato chiamato dalla Provvidenza a scrivere. Io non ho avuto la vocazione alla carità, come mio fratello che è frate in Ciad, o come l’altro che ha fondato un ospedale in Uganda. Però nel Vangelo la verità è fondamentale come la carità. Io ho avuto la vocazione alla verità: posso lavorare per aiutare gli uomini a non staccarsi dalla verità. Guardi, me l’ha scritto anche don Giussani quando ho compiuto 80 anni: «Chiedo alla Madonna di conservare la sua vita nella baldanza che la caratterizza, fiero difensore della verità che nella fede ragionevolmente tramandata e da lei personalmente rivissuta e resa attuale trova la sua apologia più affascinante, specialmente in questi tempi drammatici». Per questo vado avanti.
(Roberto Persico, Tempi, 19/04/2007)