Corti, grande emarginato che narrò l’epopea del secolo degli orrori
Il primo pensiero che la morte di Eugenio Corti suscita riguarda la Letteratura, di cui il grande scrittore lombardo ha onorato il nome con una purezza e una mancanza totale di ambiguità che hanno pochi uguali nel nostro tempo.
Pur essendo attraversata da drammi e conflitti a non finire, pur martoriata da polemiche che tra scuole e tendenze di pensiero, pur soffrendo (ma forse anche godendo) di un sistema di inclusioni ed esclusioni, la Letteratura è una comunità, una famiglia: litigiosa e spesso orribile, ma comunque una famiglia, nella quale tutti sono più o meno figli, nipoti o padri di qualcun altro, e anche il personaggio più schivo o sdegnoso è perlomeno zio di qualcuno.
Lo dico perché la Letteratura non potrà fare a meno di Eugenio Corti. Per la verità non ha mai potuto farne a meno. Anche se il suo non poter fare a meno si è rivestito di perplessità critiche, di bocche storte, e perfino di una certa emarginazione.
Ma è meglio una buona emarginazione di una mediocre glorificazione.
Nel caso di Corti è così.
Se qualcuno lo ha infilato nell’inferno degli scrittori poco attuali, poco inseriti nel Grande Dibattito Culturale, dei talenti marginali, dobbiamo ricordarci sempre che in Letteratura, a differenza che nella vita, il Paradiso ha bisogno dell’Inferno. Si può forse parlare del romanzo italiano del ‘900 senza parlare de Il cavallo rosso, l’opera che costituisce il cuore di tutta l’opera di Eugenio Corti, il capolavoro coltissimo e insieme popolare che ha venduto negli anni mezzo milione di copie?
Potremo limitarci a Moravia, Calvino, Baricco? O non dovremo chiamare in causa, volenti o no, anche i D’Annunzio e, appunto, i Corti?
La vita non ha bisogno del male, anche se lo deve accettare; ma proprio questa verità, nel momento in cui diviene racconto, romanzo, poesia, si trasforma perché in letteratura il bene ha bisogno del male, lo invoca, lo reclama.
Il cavallo rosso è, insieme con Vita e destino di Grossman, la grande testimonianza di un secolo d’orrore attraversato nel nome di una speranza di riscossa umana.
Se è vero quello che disse Saul Bello, e cioè che noi siamo tutti dei sopravvissuti (fu il grande tema esistenziale del Dopoguerra), niente più del Cavallo rosso ci testimonia questa tenacia, questa irriducibilità. Noi ci siamo, noi esistiamo, noi siamo ancora qui, e voi che non ci volevate dovrete ancora e sempre fare i conti con noi.
Questo è il grido della Letteratura di fronte agli orrori del mondo. E sottolineo: di tutta la letteratura, dallo spavento di Grossman alla lievità della Szymborska. Certo, Eugenio Corti è stato uno scrittore originale, tanto semplice per i semplici quanto difficile per i complicati di tutti i colori, compresi i cattolici.
Le sue parole sono sempre state parole ruvide, che rifuggivano da ogni comoda visione del mondo, sia pur cattolica. Corti non ha cercato un’interpretazione della storia secondo i Valori Cristiani: Corti ha attraversato l’Europa a piedi nella spaventosa ritirata di Russia, vedendo morire a migliaia i suoi amici, e una volta tornato non se l’è sentita di glorificare la lotta partigiana, non perché la disprezzasse, ma perché il cuore dell’esperienza italiana era un altro.
Corti ha cercato di raccontare a se stesso come fosse stato possibile un simile orrore. E così ha fatto la sua comparsa Dio, non come una spiegazione, ma come un personaggio della storia; non per mettere le cose a posto ma per rendere raccontabile una tragedia per la quale rischiavano di non esserci più né parole né memoria.
Ogni volta che raccontiamo (sia pure la storia più minimale che ci sia), noi assumiamo infatti, consapevoli o no, una decisione radicale circa il suo contesto: se è quello che va dalla Creazione al Giudizio Universale, o se è quello che va dai Sumeri all’Unione Europea. Anche una partita a carte in un bar richiede questa decisione. E su questo punto non ci sono né credenti né atei, né progressisti né reazionari: è una decisione individuale.
Della grande produzione di Corti, tutta ordinata intorno al Cavallo rosso, segnalo il diario di guerra (I più non ritornano) ma anche la sua singolare attenzione a diverse figure storiche, da Catone il Censore a Stalin: un’attenzione che alla radice non ha niente di ideologico ma solo la schietta curiosità dello scrittore per la complessità dei destini umani e per il mistero della solitudine (pochi scrittori hanno saputo raccontare la solitudine come ha fatto lui).
Corto non ha sofferto l’emarginazione culturale perché non era di sinistra o perché era cattolico, ma perché il suo modo di raccontare la letteratura apparteneva a un quadro diverso da quello più condiviso in Italia (dove anche ai cattolici è riservato un posticino, e dove molti reazionari sono coccolati e vezzeggiati).
Gli ha nuociuto un po’ il provincialismo dei critici, che però ora ci mancano, visto che la critica non esiste più. Se fosse stato cinese anziché di Besana Brianza, forse avrebbe avuto fortuna diversa.
Ma tu stai tranquillo Eugenio. Adesso sei lì con Primo Levi, e finalmente potrete parlare, come dice il Bardo, “di chi perde e di chi vince, di chi c’è e di chi non c’è più, braccando il mistero delle cose come due buoni segugi di Dio”.
Caro, grande Eugenio Corti: adesso comincia la tua fortuna.
(Luca Doninelli, 06/02/14, Il Giornale)