L’apocalisse secondo Eugenio Corti
“Nel cielo ormai quasi scuro si stavano inseguendo le lucciole dei proiettili traccianti. In questo cielo, c’era Dio: e io stavo, grigio e muto, davanti a lui”
Torri del Benaco. Sul bordo del lago di Garda, una scultura in bronzo rappresenta un uomo seduto su una pietra di fianco a un bambino. Porta il cappello con la piuma degli Alpini, le truppe italiane di montagna, e tiene in mano un grande libro aperto. Il titolo del libro: I più non ritornano. Il suo autore: Eugenio Corti. Lo scrittore è stato scelto per rendere omaggio ai soldati morti in Russia, e non è affatto casuale. Pubblicato nel 1947, il diario di guerra di Eugenio Corti (1921-2014) racconta l’annientamento delle divisioni italiane mandate sul fronte russo a fianco dei Tedeschi. Un trauma vergognoso congelato nel ghiaccio russo. Eugenio Corti era presente, e la sua esperienza percorre la sua opera. Ha dato vita al grande romanzo della sua vita, il Cavallo rosso. Tradotto in Franca dall’Age d’Homme alla fine del secolo scorso, il romanzo esce nuovamente questo inverno edito da Éditions Nois sur Blanc.
Alcuni parlano di un Guerra e Pace italiano. Altri paragonano il lavoro di Corti ad Arcipelago Gulag. Si, c’è del Soljenitsismo nella volontà di raccontare l’irraccontabile, nel descrivere il male, e il soffio di Tolstoi nell’arte di mescolare i suoi personaggi con la storia. Inferno bianco della Russia, i Gulag, la battaglia di Montecassino e quelle d’Africa, la caduta del fascismo… la storia italiana esiste attraverso i destini particolari, quello di Ambrogio, di Stefano, di Michele, Manno… E in ognuno di questi ragazzi c’è un po’ di Eugenio Corti. In una intervista pubblicata venti anni fa, questo scrittore discreto, emarginato dalla critica ufficiale, diceva: “sul fronte russo, non credevo di cavarmela. Il fatto è che pochi ne sono ritornati. Dei quattrocentoquaranta uomini che componevano il mio gruppo, quasi tutti sono morti o sono stati fatti prigionieri. Solo diciassette sono tornati, ancora in grado di essere soldati. Ero inorridito dal comportamento dei Russi e dei Tedeschi. Noi, gli Italiani, non eravamo dei grandi soldati, ma eravamo civili e ci siamo trovati a confrontarci con la barbarie”. Lo scrittore ha impiegato undici anni per scrivere il Cavallo rosso e ha attinto dalla vita degli abitanti del suo paese lombardo per creare i personaggi.
Uscendo dalla sua penna, tutto diventa vero. Quei ragazzi hanno vissuto. Rivivono. Nella Brianza, a nord di Milano, quando l’Italia votava al 70% per il partito fascista nel 1924, la regione si distingueva per un modesto 20%. Corti è cattolico e il suo libro testimonia la coscienza cristiana come un baluardo contro i totalitarismi.
Allora, si incrociano personaggi che pregano, ragazzi valorosi, anime pure, fratelli d’armi. Una volta narrata l’atrocità del fronte, il racconto dei congedi è sconvolgente. È il ritorno al paese, alla vita e alle cose semplici: il canto dell’usignolo, il volo delle rondini, la vista di un cielo stellato, ma mano di una giovane ragazza. Gli ideali in guerra non valgono nulla a confronto di una mattina limpida. La bellezza e la purezza di alcune pagine ricordano certi film di Terrence Malick, queste lunghezze essenziali. I giorni di permesso passano. SI portano lettere alle famiglie. Poi l’Italia provinciale rispedisce i suoi figli nella confusione incomprensibile del combattimento, dove si trovano fiano a fianco il pescatore siciliano, il pescatore piemontese e l’industriale lombardo. I treni di riempiono di militari. Ci sono degli addii strazianti sulle banchine. Un convoglio, le linee arretrate e poi il fronte: tutto quello che si credeva finito ricomincia. Il gelo blocca le membra, si vede la morte in faccia. Il cannibalismo viene in soccorso degli affamati nei campi dove i prigionieri chiedono persino di essere fucilati. Per Corti, nulla di ciò che è vero deve essere taciuto. Ma le sue descrizioni sono senza compromessi. Un personaggio abbassa gli occhi: “E so bene che noi, che lottiamo per l’onore, finiremo tutti per essere uccisi”.
L’opera ha la prefazione scritta da François Livi, che presentò il libro alla sua uscita in Francia nel 1996. Professore emerito di lingua e letteratura italiana alla Sorbonne, François Livi è morto questo inverno. Scriveva: “Giudicando la vita in tutto il suo spessore ruvido e misterioso, in tutte le sue sfaccettature, il Cavallo rosso è di volta in volta tragico, epico, drammatico, umoristico: romanzo di storia e sulla storia, è al tempo stesso un bellissimo romanzo d’amore…”
Il monumento del lago di Garda è stato inaugurato nel 2016, due anni dopo la morte di Corti. Sul libro, è scritto in lettere di bronzo: “Nel cielo ormai quasi scuro si stavano inseguendo le lucciole dei proiettili traccianti. In questo cielo, c’era Dio: e io stavo, grigio e muto, davanti a lui, in questo grande gelo. Di fianco a me, c’era la mia miseria e la mia volontà di continuare a essere un uomo e un capo, nonostante tutto”. Non si esce vinti dall’opera di Eugenio Corti. Al contrario, porta in sé una convinzione profonda: gli uomini sono migliori delle loro idee.
(Pierre Adrian, 19/02/20, Le Figaro Littérarie)