“Scrittori italiani, sotto il libro nulla”
Eugenio Corti boccia la narrativa contemporanea e il suo vuoto morale.
“La letteratura italiana contemporanea è su una strada sbagliata e i nostri scrittori sono arrivati allo zero. Indubbiamente sanno scrivere meglio di quelli dell’Ottocento, ma dietro alle loro opere c’è il niente.
Prendiamo , per esempio, Umberto Eco: i suoi sono romanzi indigesti, che si comprano per moda ma non vengono letti”.
Ospite ieri pomeriggio della giornata conclusiva del convegno per studenti universitari della Fondazione Rui al Castello di Urio, lo scrittore cattolico Eugenio Corti, nato e residente in Brianza, è stato categorico: “La letteratura di oggi mi sembra simile ad un grande albero con le chiome più alte gravemente malate”.
Assenza di messaggi, vuoto di valori, nichilismo, materialismo: molti sono i modi in cui il male si manifesta.
Con una matrice ben chiara: “L’egemonia culturale della sinistra marxista, padrona per decenni di università, giornali e case editrici”, grazie alla complicità diretta del potere economico e di quello politico e a quella indiretta di una cultura cattolica incapace di sfuggire al suo ruolo pesantemente subalterno. Un dominio che per anni ha costretto – e ancora talvolta costringe – chi come Corti non la pensa allo stesso modo a diventare di fatto “invisibile” o perlomeno marginale.
Per cui, raccontando ai giovani universitari delle sue origini letterarie, egli ha ricordato che seguire gli indirizzi narrativi più gettonati non gli sarebbe stato per niente utile: “L’unica cosa da fare era ridiscendere l’albero e cercare il tessuto ancora sano. Sono così ritornato alla prima metà del secolo, all’altezza del “Mulino del Po” di Bacchelli, e da lì ho cominciato, tentando di seguire quel percorso che era stato abbandonato dai più”.
Due sono i cardini della sua idea di letteratura: la verità e la bellezza, che “spesso immagino come le due colonne che si congiungono fra di loro per formare un arco romano”.
Autore di opere di grande rilevanza anche sul piano storico e memorialistico – come “I più non ritornano” (1947) dedicata alla ritirata di Russia, l’ampio affresco della storia d’Italia contemporanea de “Il cavallo rosso” (1983) o la spietata diagnosi della violenza del regime sovietico nella tragedia “Processo e morte di Stalin” (1962) –, Corti ha inseguito la verità proponendosi di rimanere fedele ad un realismo totale, radicale, quasi antiletterario.
“Nelle mie opere ho parlato solo di vicende che ho vissuto direttamente o che erano appena state vissute dai loro protagonisti. Per molto tempo ho atteso alla Stazione Centrale di Milano i reduci dalla Russia, che interrogavo lì, sul posto, non appena scendevano dal treno. Non mi sono mai fidato della loro memoria, troppi fattori tendono ad offuscarla”.
Per raggiungere la bellezza, invece, Corti ha sempre scritto con l’obbiettivo “di trasferire nel romanzo gli antichi poemi, conservandone però l’armonia”. Il suo è stato un lavoro da poeta epico, “alla maniera del maestro di tutti noi, Omero”, che, se ha abbandonato i versi, è solo perché questi “non sono più in grado di spiegarci tutti gli aspetti della realtà e quando provano a farlo suonano ridicoli”.
Un “cantastorie”, come si è definito, ossessionato dal canto: “E’ indispensabile conservarne il senso, solo così il lettore può rimanere letteralmente ‘incantato’.
Molte volte di fronte a chi si scoraggia di fronte alle milleduecento pagine de “Il cavallo rosso”, consiglio di leggerne almeno una cinquantina. Per esperienza so che a quel punto gli risulterà difficile abbandonare il romanzo, anzi sarà dispiaciuto al momento di chiudere il libro.
(Andrea Giardina, luglio 1999, La Provincia di Lecco)