Una lettera da Eugenio Corti
Il 4 febbraio scorso (2014 NdR), Eugenio Corti ha concluso la sua esistenza terrena. Era nato a Besana in Brianza il 21 gennaio 1921. Fino all’ultimo è stato vigile, attivo, pieno di progetti. Le Edizioni Ares, che hanno in catalogo la sua opera omnia, perdono non solo un Autore di immenso prestigio, ma un amico che ha condiviso e talvolta guidato il nostro impegno per una letteratura e una saggistica profondamente cristiana perché profondamente umana. La sua morte ha avuto un’ampia eco sui mass media, anche con punte di rammarico, da parte di alcuni critici, per non averlo valorizzato di più in vita. Ne riferisce Alessandro Rivali nelle pagine successive. Ma Eugenio ha sempre scritto per i posteri e, sempre confortato da un popolo di lettori, ora conosce una vita letteraria nuova, a servizio delle future generazioni impazienti di abbeverarsi alla verità dei suoi libri. Lo ricordiamo con il cuore stretto dalla commozione, vicini all’adorata consorte Vanda (la meravigliosa Alma del Cavallo rosso), ai fratelli e ai nipoti tutti, pubblicando una lettera consegnata in redazione il 19 maggio 1994, con la dicitura: “Da aprirsi dopo la mia morte – grazie”.
Questo il testo della lettera:
“A mia moglie Vanda
Al mio editore e amico Cesare Cavalleri.
Nelle edizioni o ristampe del mio libro Gli ultimi soldati del re che eventualmente si faranno dopo la mia morte, prego introdurre questa nota. Come segue: dopo le parole Osservatorio Caterina: le farfalle (che nella prima edizione Ares, 13 maggio 1994, si trovano a p. 204) introdurre un richiamo di nota (*); far seguire poi la nota a piè della stessa pagina, o a fine libro”.
Trascrivo il brano a cui Corti si riferisce:
“Osservatorio Caterina: le farfalle.
Ne venivano spesso, aleggiando, a posarsi sui bordi di terra smossa dalla nostra trincea, forse per sughere l’umidità. Un pomeriggio ne arrivò una particolarmente bella: era nero velluto, striata di fuoco, con macchie bianche. La mia attenzione fu attirata dalla leggiadria di quei colori, i quali – mi resi conto – non erano disposti a caso: anche un grande pittore soltanto in un momento di particolare grazia avrebbe saputo comporli con tanta arte.
La considerai attento: quanto a lei, certo, non era così per propria scelta, non sapeva neppure di essere una farfalla, non se ne accorgeva: esisteva e basta e, ferma sul bordo di terra della trincea muoveva ritmica le ali, come uno che respiri nel sonno, inconsciamente lieta del grande miracolo dell’estate di cui faceva parte. Quando però di lì a poco ne comparve un’altra della stessa specie, la farfalla si alzò in volo e prese a volteggiarle intorno, mostrando si sarebbe detto con intenzione all’altra i propri colori, ostentandoli, nascondendoli, ostentandoli di nuovo con somma grazie, come una provetta attrice.
Insetto, concretamento di qualcosa che la trascendeva infinitamente, anche lei come noi. Specchio – minimo come il luccichio d’un granello di sabbia al sole – della gioia e del colore che stanno nella mente di Dio. Una farfalla, mi resi improvvisamente conto, basterebbe da sola a dimostrare l’esistenza di Dio”.
Ed ecco la Nota da aggiungere nelle edizioni future:
“Nella prima stesura delle presenti memorie (anni 1948-50: poco dopo la guerra) non ho riportato questo episodio; l’ho introdotto soltanto parecchi anni dopo, in occasione del loro rifacimento. Ma a tale distanza di tempo non mi riusciva più di ricordare i colori e i disegni delle due farfalle. Li ho perciò ricavati da un testo di scienze naturali (Alessandro Ghigi, Vita degli animali, ed. Utet 1950, vol. III, pagina 283 nella quale si descrive la Vanessa Atlanta “creatura di velluto nero con fascie di fuoco e macchie bianche… gioiello della natura… quando esse si posano, agitano ritmicamente le ali come un ventaglio mosso con lentezza…”).
Nelle settimane seguenti però mi disturbava molto di avere – contro il mio costume – presentato come mia esperienza diretta qualcosa che avevo invece tratto da un libro, e tanto più d’averlo presentato in una pagina in cui si parlava dell’esistenza di Dio.
Un pomeriggio mentre, appunto in tali pensamenti, passeggiavo nel mio giardino, vidi arrivare una farfalla che scese a posarsi su un basso cespuglio, a forse tre metri da me; qui cominciò a muovere “ritmicamente le ali come un ventaglio”; immobilizzatomi, la fissai attento: mi resi conto che si trattava senza ombra di dubbio della specie descritta dal Ghigi. La farfalla si lasciò osservare bene, poi si alzò in volo, e passatami accanto, si fermò alle mie spalle, a meno di un metro da me, su uno stocco alto quanto il mio viso. Si lasciò osservare ancora, quindi abbandonò lo stocco, venne a posarsi sul colmo della mia testa, e vi rimase alcuni secondi; infine riprese il volo, allontanandosi tra gli alberi.
Pur senza dargli soverchia importanza, devo dire che rimasi molto toccato dal piccolo episodio, e ne scrissi subito a mia moglie, in quei giorni al mare, pregandola di conservare la lettera a nostra futura memoria.
Grazie, e un affettuoso saluto.
Eugenio Corti – 19/5/1994”.
In queste righe c’è tutto Eugenio Corti, il suo metodo di lavoro. Scriveva sempre e solo di eventi reali, scrupolosamente documentati, trasfigurandoli in realismo letterario. E sempre con la capacità di cogliere la trascendenza nella quotidianità, di leggere nel corteggiamento di due meravigliose farfalle la presenza di Dio, l’amore di Dio.
(Cesare Cavalleri, febbraio 2014, Studi Cattolici no. 636)