“Vi bacio. Inviatemi guanti e cioccolato”
Leggendo lo straordinario documento storico e umano rappresentato dalle lettere scritte da Eugenio Corti dalla Russia, quel che più stupisce è il tono assolutamente lieve, tremendamente tranquillo, diremmo quasi incosciente, con cui il futuro scrittore descrive il viaggio, gli incontri, la vita al campo militare. Prima di restare imprigionato nella famigerata sacca sul fronte russo, infatti, tenendo fede alla sua promessa di dare sempre e notizie a casa, scriverà una lettera al giorno, per informare, rassicurare, soprattutto, per non recidere quel filo che lo lega a una famiglia numerosa, amatissima. Ma l’effetto, per noi quasi straniante, è quello di sentire la voce di un buon ragazzo, figlio della sua “amatissima mamma”, del suo “carissimo papà”, cui racconta la sua vita di tutti i giorni senza avere all’inizio la piena consapevolezza del pericolo verso cui sta avviandosi, o meglio, del pericolo verso il quale la Storia lo sta portando.
L’effetto drammatico nasce proprio dal contrasto fra quel che sappiamo noi circa la portata del conflitto e, soprattutto, circa quello che aspetta i soldati italiani, e il tono leggero e quotidiano con cui Eugenio descrive le sue avventure: il viaggio è “magnifico”, tutto va “benone” (la parola che forse ricorre maggiormente nel carteggio), gli acquartieramenti in Russia gli offrono la possibilità di ammirare una natura stupenda, addirittura di fare lunghe galoppate con un magnifico cavallo che il Sottotenente Corti persino pensa di potere, forse, in qualche modo, portare in Italia. Corti e i suoi compagni non si fanno mancare nulla, addirittura — scrive il ragazzo con soddisfatta, quasi stupita lievità — fanno vita “da signori” (lettera del 25 giugno 1942) e hanno persino una 1100 a loro disposizione.
Verrebbe spontaneo pensare che, con concretezza brianzola, consapevole del rischio verso cui si avvia, Corti operi sui fatti narrati una sorta di censura per meglio rassicurare la famiglia che non c’è nessun motivo di temere per lui. Molto probabilmente, però, questa non è censura a fini di rassicurazione: quello testimoniata da queste lettere è piuttosto il delicatissimo momento storico che precede la consapevolezza della tragedia in cui di lì a poco cadranno gli italiani.
14/11/42 – mattino
Carissimi,
dopo tanto tempo che non vi scrivo più lettere, pur ricevendone varie da voi, ecco che finalmente mi accingo a scrivervi.
Mi trovo sotto terra, nella prima delle 4 baracchette Ufficiali già finita. Si tratta di una buca profonda due metri, larga 4×4, su cui abbiamo posto un formidabile tetto di tronchetti, di quercia, un alto strato di paglia e sopra un ancorpiù alto strato di terra che copre il tutto e fa sì che non si veda dal di fuori se non un monticello a terra da cui spuntano un camino e una finestrella ad abbaino. Infatti, dopo due giorni che si era giunti nella posizione invernale (il 3 Novembre, e il come ecc. già vi ho scritto) è sopravvenuto il freddo. Il tanto famoso freddo russo. I lavori di sistemazione erano appena appena incominciati. Il Capitano, Grazioli (pure divenuto Capitano) e Carletti, dovendo presto andarsene in Italia, non si preoccupavano che di scaldarsi in qualche modo.
I nuovi Ufficiali (un Tenente e un Sottotenente) non sapevano che fare, non avendo pratica. In breve la direzione dei lavori passò tutta a me, e, alla fine, me la presi ufficialmente. Ecco perché non avevo neanche tempo per scrivervi.
Si doveva ricavare tutto dal bosco. Obbligai gli uomini a un lavoro forzato, malgrado il freddo. Aprimmo dieci grandi buche. Le ricoprimmo di solidi tronchi di quercia, di paglia e di terra. Sorsero in breve delle comode baracche di cui nulla o quasi si vede al di fuori, ma che dentro offrono ai soldati una comoda e calda sistemazione. I lavori non sono ancora finiti (delle 4 baracche Ufficiali ad esempio non ce n’è che una), ma ormai si può tutti dormire e passare parte della giornata al caldo (1). Anzi da qualche giorno il freddo è calato. Presto finiremo e aspetteremo allegramente che giunga qualsiasi freddo. Sono contento; l’allegria non è mai mancata. Vi aggiungo una cartolina che un mio amico della Sforzesca, pregato di interessarsi del Beretta, mi ha inviato. Forse era disperso e adesso è ritrovato. Non so però niente di sicuro. Non dite ancora niente ai suoi. Vi scriverò ancora Appena avrò altre notizie. Vi bacio e saluto. Inviatemi spezzoni fotografici, guanti e cioccolato. Bacioni di nuovo, Eugenio.
Nota
(1) I nuovi rifugi sono così descritti nel Cavallo rosso: «Venne l’autunno. Da nord-est (dalla Siberia) cominciò a soffiare a intermittenza un vento sempre più freddo. Poco alla volta si fece così mordente che gli artiglieri scavarono di propria iniziativa delle buche all’interno delle tende, in modo da poter dormire al di sotto del suo soffio. Intanto – al pari dei soldati di tutti gli altri corpi – avevano cominciato a costruirsi nel terreno dei rifugi invernali veri e propri. Sul cumulo di terra che copriva ciascun rifugio applicarono qualche battente di finestra o almeno un riquadro di vetro, fortunosamente recuperato di notte nei villaggi abbandonati in riva al Don; le porte furono messe insieme col legname delle casse di munizioni; le future stufe ricavate dai fusti della benzina: ogni fusto, tagliato a metà, ne dava due», Il cavallo rosso, pp. 247-248.
(Silvia Stucchi, 07/07/15, Il Sussidiario)