L’isola di Eugenio
A Besana in Brianza, ricordando l’autore del best seller “Il cavallo rosso”.
Ho tra le mani, edita da Interlinea, Al cuore della realtà, una raccolta di saggi che, attingendo anche a documenti d’archivio, compongono un profilo a tutto tondo di Eugenio Corti, lo scrittore brianzolo che ho avuto la fortuna di conoscere ed intervistare dieci anni prima della sua scomparsa, avvenuta nel 2014. Personalità di spicco del mondo letterario italiano e straniero hanno avuto per questo “scultore di parole” apprezzamenti entusiastici. C’è chi lo ha definito addirittura “il Manzoni del XX secolo” o paragonato al Tolstoj di Guerra e pace per la saga lombarda del suo romanzo più amato: Il cavallo rosso (Ares ed.), titolo che evoca il “cavallo rosso fuoco” di cui parla l’Apocalisse. Eppure i suoi best seller non figuravano quasi mai nelle classifiche “ufficiali” dei libri più venduti! Questo perché Eugenio Corti è stato scrittore fuori d’ogni gruppo e scuola, dichiaratamente cattolico, e pertanto osteggiato da una certa cultura “laica”.
Il volume, che raccoglie gli Atti di un convegno internazionale promosso dalla Sorbona di Parigi e dalla Università cattolica di Milano, mi ha consegnato al vivo il personaggio incontrato in un tranquillo pomeriggio del 2004 nella sua villa di Besana in Brianza, dove viveva con la moglie Vanda. Vi ero giunto fresco di lettura de I più non ritornano, l’opera che nel 1947 aveva rivelato il suo talento di scrittore-testimone. Testimone, in questo caso, della tragica disfatta degli italiani sul fronte del Don, in Russia.
Di Corti ricordo lo sguardo acuto e limpido sotto i folti sopraccigli, il pizzetto grigio ben curato, il tratto signorile e insieme modesto: una figura che un pittore d’altri tempi avrebbe ricercato come modello per qualche gagliardo padre della Chiesa. E come uno di loro, dietro la sua pacatezza, Corti celava una tempra di lottatore. Cercare, infatti, di affermare la visione cristiana della realtà in tutti i suoi aspetti contro il dilagante neopaganesimo e le ideologie di morte del nostro mondo occidentale, era la missione intuita nel momento più tragico della sua vita, come lui stesso confidava: «Decisiva per il mio futuro di scrittore fu la promessa fatta alla Madonna la notte di Natale del 1942, durante la ritirata in Russia: se mi avesse tirato fuori da quell’inferno d’odio, avrei dedicato la mia vita all’avvento del regno di Dio. Pensavo inizialmente ad un’attività in ordine alla carità, all’amore del prossimo, sulla scia di due miei fratelli missionari in Africa. In questo campo però – mi resi presto conto – ben poco avrei saputo fare; io invece volevo diventare scrittore: una decisione presa verso gli 11-12 anni quando, studiando Omero, rimasi folgorato dalla sua capacità di trasformare in bellezza tutto ciò di cui parlava».
All’attrattiva del bello coltivata fino alla partenza per la vita militare subentrava ora – ecco il campo in cui cimentarsi! – quella della Verità con la V maiuscola. «In effetti, con I più non ritornano mi proponevo di fare non un’opera letterariamente “bella”, ma una documentazione rigorosa fino allo scrupolo. Invece, contro ogni aspettativa, autorevoli critici ne misero in rilievo anche il valore artistico».
Da questa ricerca anzitutto della verità e non tanto dell’arte fine a sé stessa, sarebbero nati anche i lavori successivi, tutti di alto impegno morale. Che gli avrebbero valso, nel 2000, il Premio internazionale al merito della cultura cattolica, una sorta di corrispettivo cattolico del Nobel per la letteratura. Opere che – si legge nella motivazione del premio – «affrontano con le risorse dell’arte grandi problemi dell’esistenza secondo una visione profondamente cristiana perché profondamente umana».
L’humus da cui Corti era venuto su: una famiglia numerosa (dieci figli) di radicate tradizioni lombarde. «I miei genitori erano persone umili, di fede limpida, dedite all’amore del prossimo. Mio padre, partendo dal niente, mise in piedi una industria tessile che arrivò ad avere 1100 dipendenti. La mamma poi era una creatura fatta d’amore! Mi ha ispirato il personaggio di Giulia nel Cavallo rosso», best seller di quasi milletrecento pagine giunto ormai alla trentaduesima edizione.
Intenso lo scambio epistolare con i propri lettori. Un intero scaffale della sua libreria era occupato da raccoglitori contenenti le loro lettere. «Scrivono per ringraziare di aver ricevuto conferme nella fede o per approfondire problemi della cultura di oggi. Certi apprezzamenti sono davvero confortanti, una conferma di non aver sprecato il proprio tempo. Non parliamo poi delle visite. Ricevo soprattutto giovani, studenti, anche a gruppi. Numerosi poi gli alpini…». Corti aveva un debole per questa “razza” impregnata di valori cristiani di solidarietà. Fra l’altro a benedire le sue nozze con la signora Vanda era stato don Gnocchi, l’indimenticabile cappellano degli alpini che dedicò l’esistenza ai suoi “mutilatini”.
All’epoca dell’intervista era in corso di pubblicazione, sempre per i tipi di Ares, Catone l’antico. Di quest’ opera a metà strada tra narrativa e sceneggiatura, ambientata nel II secolo avanti Cristo ma con uno sguardo al nostro problematico oggi, Corti diceva: «Catone denunciava la minaccia per il mondo romano costituita dall’influsso greco (non tanto la grande cultura greca quanto la versione decadente rappresentata dall’ellenismo). In maniera analogo, io dico, nella cultura moderna sono presenti germi di dissoluzione che stanno portando alla rovina l’Occidente. Eppure non possiamo farne a meno. Bisogna prendere atto del problema e affrontarlo».
E al momento di congedarsi: «Dopo Catone, siccome non sono più in grado di comporre libri come ho fatto finora (sa, alla mia età cominciano a venirmi dei vuoti di memoria), prima di “appendere la lira al salice” ho in mente di scrivere alcuni racconti, uno dei quali dedicato alla Madonna. Vorrei che ne venisse fuori un vero “gioiellino”… Del resto il mio spazio di fantasia continuo a viverlo, anche senza scrivere. C’è un’isola immaginaria nella quale, durante i ritagli di tempo, mentre passeggio in giardino per esempio, cerco di costruire un mondo da cui il male rimane escluso. Poi mi rendo conto che anche lì il male deve essere presente, visto che l’isola è abitata da uomini… Quando arrivo a quel punto, ogni volta rimando il seguito: le presenze del male, infatti, già le tratto nel lavoro di tutti i giorni… Così’ finora (da anni ormai) la mia isola senza nome continuo a sognarla bellissima, incontaminata. Non si può credere come sono belli quei boschi, tutti formati di alberi di specie che intendo io, e il colore delle distese dei frumenti maturi, e la presenza degli uccelli, anche quelli tutti di specie che scelgo io, con attenta ponderazione. Ho un da fare incredibile per dosare le diverse specie vegetali e di uccelli, in modo che l’habitat degli uomini sia perfetto».
(Oreste Paliotti, 05/05/17, Città Nuova)