Il cavallo rosso romanzo di un’epoca
L’autore, che non è un novellino nel campo delle lettere, dopo lunghi anni di studio presenta al pubblico una grande opera, meritevole di risonanza internazionale. Questo grosso libro, il quale supera abbondantemente le mille pagine, viene proposto come romanzo; ma al pari dei grandi romanzi non si può catalogare in modo sbrigativo tra le opere di letteratura amena. Il fatto stesso che è ambientato in un’epoca storica ben definita, e nel contesto dei grandi avvenimenti del nostro tempo, richama problemi e drammi, in cui il lettore preparato si sente coinvolto.
Romanzo storico, quindi, sull’esempio dei grandi romanzi del primo Ottocento, tipo I miserabili di Victor Hugo. L’accostamento ardito a quell’opera divulgatissima pu servire come punto di riferimento per un primo sommario giudizio. Vi ritroviamo infatti la stessa complessità, lo stesso impegno nella denunzia del malcostume e nella descrizione delle vicende storiche entro le quali si muovono i personaggi del romanzo. Il quadro però è ben diverso: alla Francia della restaurazione è qui sostituita l’Italia e l’Europa dell’ultima guerra mondiale e della ricostruzione (1939-1974).
Tutti ammirano il celeberrimo scrittore francese per la vivacità delle descrizioni, la finezza delle analisi psicologiche, la vivacità del dialogo e la potenza nell’evocare il dramma in cui si dibattono i suoi protagonisti. Ebbene, Eugenio Corti non ha niente da invidiare in proposito. C’è solo da rilevare una maggiore naturalezza nell’inreccio, ossia nella trama, che invece ne I miserabili è spesso paradossalmente predeterminata “a priori”, con accadimenti del tutto eccezionali che hanno del miracolistico.
Al contrario qui l’intreccio, pur essendo quanto mai complesso e attraente, rispetta con rigore i canoni della verisomiglianza; cosicché l’impatto con quelle vicende storiche risulta del tutto spontaneo; fino al punto che il lettore non riesce più a distinguere la realtà storica dall’invenzione letteraria. Fa eccezione alla regola qualche poetica divagazione nei regni d’oltre tomba in occasione di morti improvvise e imprevedibili. Ma in questi questi casi il giuoco letterario è a carte scoperte e non si presta a equivoci.
La suddetta verisomiglianza scaturisce anche dal fatto che le vicende narrate si svolgono in un quadro storico a noi più vicino e familiare. Ma anche quando l’orizzonte si allarga nelle sterminate pianure della Russia, e la temperatura si abbassa a parecchi gradi sotto lo zero, il senso di concretezza non si dissolve, né s’irrigidisce. Perciò, se vogliamo trovare una giustificazione plausibile, è necessario ricordare che Il cavallo rosso non è soltanto un romanzo storico, ma in parte almeno è addirittura autobiografico.
Il dramma evocato in pagine memorabili coinvolge in primo piano un gruppo di amici della classe del 1921 e delle classi limitrofe, appartenenti a un paese della Brianza. Ma se questo è l’epicentro del sisma, tutta l’Italia e il mondo intero ne sono la zona di risonanza. Si rivive così il dramma di questa nostra civiltà, che si è allontanata da Dio con tanta superbia, per ritrovarsi in uno stato di degradazione addirittura allucinante. Nazismo e comunismo, in aperta rivolta contro la civiltà cristiana, hanno scritto nelle carni di tante povere creature tali orrori, che come diceva Papa Pio XII, per la loro evidente assurdità, ne costituiscono una condanna, che “sorpassa qualsiasi confutazione teorica”.
A distanza di un’intera generazione da quegli avvenimenti, nessuno osa affermare che la lezione sia stata davvero recepita dalle nazioni stesse che un tempo si gloriavano di dirsi cristiane. Il comunismo continua infatti nella sua opera nefasta di sobillazione e sopraffazione; e i movimenti laicisti, pur condannandone gli orrori, si rifiutano di prendere atto e di reagire contro la comune matrice anticristiana. Spesso anzi si lasciano intruppare come milizie ausiliarie nelle mosse strategiche dell’ideologia marxista, volte a distruggere le istituzioni sociali e giuridiche create dalla civiltà millenaria guidata dalla croce: vedi divorzio, vedi leggi abortiste…
Perciò il libro di Eugenio Corti risulta decisamente anticomunista; precisamente come tutte le opere letterarie o pseudo-scientifiche della sinistra risultano più o meno anticristiane. Il preconcetto è ormai di regola nei due schieramenti contrapposti. Ma da qualche tempo in campo cattolico ha preso corpo una nutrita pattuglia di avanguardisti, che non tollera l’anticomunismo dichiarato. Perciò a questo punto c’è solo da augurarsi che i soliti comunistelli da sacrestia nel rilevare tale carattere del romanzo non storcano il naso, boicottando con la congiura del silenzio, guidati dalla solita idea “indotta” e preconcetta, che si può essere impegnati nella cultura a favore di qualsiasi ideologia, meno che per la legge di Cristo.
Ma il tono e il sapore cristiano del nostro romanzo si fa sentire anche nel tono pacato, che rifugge abitualmente dalle espressioni virulente dell’odio e della disperazione. Il tema ricorrente della divina Provvidenza affiora con naturalezza e convinzione; senza ipocrisia si difende la morale cristiana in ogni campo; il travaglio interiore dei personaggi nel maturare di una vera esperienza cristiana della vita non viene taciuto; ma neppure si cede alla paura di ricorrere alla preghiera, e di far leva (dove occorre) ai grandi temi dell’apologetica cattolica, quali il peccato originale e i novissimi.
Tutto sommato non oserei però catalogare il romanzo del Corti tra le “opere edificanti”. Infatti alle pagine drammatiche spesso si alternano pagine idilliache, che per la verità non travalicano mai nell’erotismo e nella pornografia. Non so se mi sbaglio, ma penso proprio he il nostro A. Manzoni sarebbe stato incline a condannarle come inopportune. Considerata sotto tale aspetto, l’opera potrebbe anche essere qualificata come romanzo d’amore. Un amore però che in questo caso rifiuta di degradarsi; perché consapevole di costituire nella famiglia umana l’Albero della Vita. E’ appunto questo il titolo della terza parte del grande romanzo, che dall’Apocalisse desume anche i titoli delle due parti precedenti: Il cavallo rosso e il cavallo livido.
La lingua usata, efficace e tagliente, non pecca certo di purismo: anzi qua e là avrebbe bisogno forse di una ripulitura. Per aderire nel modo più immediato e crudo al linguaggio corrente, soprattutto nell’ambiente militare, le frasi in gergo e quelle in dialetto si sprecano. Voglio dire che sono frequenti, o forse troppo frequenti dal punto di vista dell’Italiano medio, ovvero di quegli Italiani che sono dislocati al centro della lunga penisola. D’altronde è innegabile che queste licenze e perfino certe volgarità, usate al momento opportuno, sono un innegabile coefficiente alla vivacità del dialogo e del dramma.
Per concludere, mi sento in dovere di ringraziare Eugenio Corti di aver posto a nostra disposizione un panorama vastissimo di esperienze umane, le quali possono e devono servire alla generazione che si avvia al tramonto, e percorre il parco delle rimembranze, per un approfondito esame di coscienza; e devono aiutare le nuove generazioni per l’interpretaione veritiera di una esperienza tragica, che non è ancora giunta al suo epilogo. Pare che l’Italia abbia pagato troppo poco a confronto di altre nazioni in numero di morti; sta pagando invece moltissimo con la degradazione delle masse, avvelenate da una propaganda menzognera, carica di odio e foriera di altre sciagure. Di qui il dovere, da parte dei suoi figli più preparati e consapevoli, d’intervenire efficacemente sull’esempio di Eugenio Corti.
Speriamo che il ceto medio, che tra noi è ormai maggioranza, non si limiti ai programmi televisivi, o ai settimanali per formarsi una cultura; ma si decida ad affrontare il libro, anche se a prima vista ingombrante e impegnato come Il cavallo rosso, per una visione organica del mondo in cui viviamo e dell’epoca storica a noi toccata in sorte.
(Tito Centi, Renovatio, ottobre/dicembre 1983)