Giorni & opere di un matrimonio
Vanda Corti è stata l’inseparabile sposa di Eugenio. In questa commovente testimonianza, raccolta da Alessandro Rivali nell’ormai celebre casa di Besana in Brianza, ricorda gli albori della loro storia d’amore, le fasi alterne del loro fidanzamento, gli anni difficili e delicati della stesura del Cavallo rosso. Ma offre anche lo spunto per un ritratto inedito dello scrittore, come della sua determinazione a portare a termine la missione che aveva ricevuto: scrivere, e scrivere per la verità.
Può raccontare il suo primo incontro con Eugenio?
Ci incontrammo in Cattolica. Era il luglio del 1947. Io ero al secondo anno, Eugenio alla fine dei suoi studi ed era fuori corso a causa del servizio militare e della guerra. Io avevo vent’anni e lui ventisei. Quel giorno dovevamo entrambi affrontare un esame, per lui era l’ultimo, in ottobre avrebbe discusso la tesi. Io, in attesa, mi ero seduta su uno dei pochi gradini che portavano alla piccola cappella di San Francesco (oggi non c’è più) dove, prima della laurea, tutti gli studenti della Cattolica dovevano prestare il giuramento antimodernista. Anche Eugenio nel Cavallo rosso ricorda questo particolare a proposito di Nilde Iotti. Cercavo affannosamente di riguardare il mio testo e incuriosita osservavo due giovani, indubbiamente diversi, che passeggiavano avanti e indietro, chiacchierando, nel corridoio. Uno si staccò e mi venne incontro; scambiammo poche parole. Attese poi che finissi l’esame e uscimmo insieme, interrogandoci a vicenda, come si fa di solito, fra studenti che s’incontrano per la prima volta.
Pochi giorni dopo mi arrivò una lettera in cui esprimeva il desiderio di fare amicizia con me. Firmato Eugenio Corti. Stavo partendo per l’Umbria, non mi preoccupai di rispondere. In ottobre lo rividi, aveva trovato il mio nome negli elenchi degli esami esposti in bacheca; mi portava il suo libro I più non ritornano, fresco di stampa. Mi chiese ancora di conoscerci e fare amicizia. Cominciammo a incontrarci e a camminare per le vie più solitarie di Milano. Il luogo d’incontro era piazza della Scala, sotto i portici del teatro.
Quali furono le sue impressioni nel vedere pubblicato il primo libro di Eugenio?
Nel consegnarmelo aveva detto: «Lo leggerai?». E io: «Sì, appena potrò…». Vivevo in mezzo ai libri, per cui non avevo dato grande importanza a quel regalo.
Dato che i nostri appuntamenti erano sempre in piazza della Scala, ogni volta attraversavo la Galleria e mi fermavo puntualmente davanti alla vetrina di Garzanti, per vedere il libro che mi era stato regalato. Era sempre esposto. In breve tempo ci fu la prima, poi la seconda, alla terza edizione sentii un colpo al cuore: «Ma allora, mi dissi, è un libro importante!». Così cominciai a leggerlo. In quei giorni soffrivo già molto per la mia famiglia; lessi un po’ di pagine e poi non fui più capace di continuare: l’idea che Eugenio avesse dovuto vivere una così tragica vicenda mi angosciava. Non ebbi il coraggio di confessarglielo e questo mio silenzio sul suo libro gli dispiacque moltissimo.
Un fidanzamento quasi «conflittuale»
Cosa accadde negli anni che vanno dalla laurea di Eugenio al vostro matrimonio?
Si dedicò alla scrittura de I poveri cristi, un libro di moltissime pagine, con tanta filosofia; affrontare un libro del genere fu una sfida molto pesante. Molti ragionamenti sono stati poi trasferiti ne Il Cavallo rosso. Successivamente alla prima versione de I poveri cristi Eugenio sostituì la vicenda de Gli ultimi soldati del re, un’opera sprovvista del precedente impianto filosofico, che fu pubblicata nel 1990.
Come andò I poveri cristi?
Non andò bene. Eugenio dopo aver letto il gattopardo pensò che Tomasi di Lampedusa conoscesse il suo libro, aveva trovato riferimenti sicuri. Nelle ultime pagine si scopre che i due tenenti dell’esercito piemontese si chiamano Corti e Moroni, proprio come i due protagonisti de I poveri cristi. Forse una testimonianza che Tomasi di Lampedusa ha voluto lasciare. Durante il nostro viaggio di nozze a Palermo, vedemmo il libro esposto in vetrina.
Quando arrivò la proposta di nozze?
Molto più avanti, forse soltanto qualche mese prima del matrimonio. Il nostro rapporto è stato nei primi anni molto conflittuale. Eugenio si era mostrato, fin dai primi nostri incontri, determinato: sapeva perfettamente quale doveva essere il suo compito nella vita, che sentiva come un dovere al quale non si sarebbe mai sottratto: doveva scrivere, capire la realtà, testimoniare. Portava con sé, nei nostri incontri, oltre alla gioia di vedermi, anche la dolorosa esperienza e i ricordi della guerra. Con me era esigente e possessivo: non accettava la mia scarsa partecipazione e la mia «freddezza», come diceva lui. Io, a quel tempo, ero presa da troppi pensieri: la situazione della mia famiglia, lavoravo e studiavo, vivevo in un pensionato di suore: le mie giornate erano difficili. Ci furono fra noi continui litigi e alla fine, dopo solo tre mesi, decidemmo di non vederci più. Era il gennaio del ’48.
E poi?
La storia evidentemente non finì così. No certo. Avvenne un fatto che io, ancora oggi, giudico straordinario e determinante per la mia vita. In agosto, sempre del ’48, ero andata in Umbria, come mio solito, per trascorrere qualche giorno con i miei, in provincia di Terni. Mi preparavo a ripartire e mi venne il desiderio di passare da Perugia, volevo rivedere, sia pure per poche ore, la mia città. I miei non volevano, soprattutto mio padre, che era sempre stato protettivo e soffriva nel vederci andare in giro così da sole, noi figlie, e prendere il treno qualche volta anche di notte. Ma io avevo deciso: volevo rivedere Perugia. Pregavo molto in quel periodo, portavo Eugenio nel cuore, ma mai e poi mai sarei andata io per prima a cercarlo. Pregavo e chiedevo al Signore di aiutarmi a capire che cosa voleva da me. Mi concessi un giro per il «Corso»: avrei potuto incontrare qualche vecchia conoscenza, qualche compagno di scuola. Camminavo guardandomi intorno, quando improvvisamente vidi Eugenio davanti a me, fra un padre francescano amico della mia famiglia e, immaginai, quel giovane di Assisi che con lui aveva combattuto in Russia. Ci guardammo, senza parole; lo vidi impallidire e mi sembrò che stesse per cadere. Io pensai che era questa la risposta alla mia preghiera. Anni dopo lessi nel Cavallo rosso descritta l’emozione di Michele quando, al ritorno dalla guerra, vede Alma scendere dalle scale di casa. Chiesi se in quella descrizione ci fosse il ricordo di Perugia. «Sì, mi disse, non potrò mai dimenticarlo». Riprendemmo a vederci, ma non furono rose e fiori…Non posso raccontare tutto, sarebbe troppo lungo. Ritornando alla domanda di prima, non parlavamo mai di matrimonio, ma io sentivo che quella era la decisione che lui aveva preso e che non l’avrebbe mai cambiata. Alle volte nel segnalarmi quello che del mio carattere lo irritava è stato molto duro con me, ma non abbandonò mai l’idea che ci saremmo sposati. Mi laureai alla fine del ’49, tornai in Umbria e cominciai a lavorare nella scuola.
Che lavoro faceva?
All’inizio furono sporadiche supplenze, poi ebbi la cattedra di italiano e storia nelle magistrali superiori. Fu un lavoro duro e impegnativo: venti ore di lezione settimanali, compiti da correggere, argomenti da preparare; mi piaceva, però, molto il rapporto con le alunne e la possibilità di capire e approfondire i testi. Eugenio mi veniva a trovare circa una volta al mese (i viaggi allora erano molto problematici) e si tratteneva qualche giorno. Ero felice quando sapevo che, uscendo da scuola, avrei trovato lui sulla porta ad aspettarmi. La mia vita era cambiata, anch’io dovevo essere cambiata: non litigavamo più. Nei miei giorni di libertà noleggiava una macchina, generalmente una Topolino, e andavamo alla scoperta dell’Umbria, così detta «minore». E stato veramente bello, posso dire che con lui, con la sua curiosità e capacità di vedere, ho veramente conosciuto l’Umbria.
Come visse la sua famiglia l’incontro con Eugenio?
Eugenio, nei primi mesi del ’48, quando avevamo stabilito di non vederci più (ma per lui evidentemente nulla era cambiato), a mia insaputa andò a conoscere e a farsi conoscere da mio padre che dal febbraio del ’47 era in carcere a Rieti in attesa di processo. Lì era stato prefetto nell’inverno ’43-’44 durante l’occupazione tedesca. Un’azione partigiana che aveva causato la morte di molti soldati tedeschi scatenò una terribile rappresaglia con la distruzione di un intero paese. Mio padre, nel ’47, ebbe una denuncia di collaborazionismo e così fu arrestato e incarcerato a Rieti. Eugenio andò a trovarlo, gli portò il suo libro, si interessò, parlò con gli avvocati, prese a cuore la situazione come fosse già parte della mia famiglia. Mio padre lo accolse come un miracolo che gli veniva dal Cielo.
Il matrimonio & la letteratura
Come fu la vita successiva di suo padre?
Passò molto tempo prima che venisse conclusa l’istruttoria, poi fu trasferito a Roma per i processi. La vicenda si concluse con l’amnistia, voluta da Togliatti, allora ministro della Giustizia, per tutti i detenuti politici. Andammo io ed Eugenio ad aspettarlo alla porta di Regina Coeli. Era la vigilia di Natale del 1953. Con mia madre partimmo tutti insieme per Barzanò. Mio padre si trovò a 54 anni a dover riorganizzare completamente la sua vita. I primi tempi furono difficili, poi, con l’aiuto di Dio, gli fu offerto l’incarico di amministratore delegato in una grossa società di Roma, dove rimase fino al 1980. Quando ci sposammo nel ’51 mio padre non c’era, naturalmente. La cerimonia fu molto commovente, anche perché celebrata da don Carlo Gnocchi presente un padre francescano amico della nostra famiglia. Dopo il rinfresco, sobrio e brevissimo, partimmo in macchina per Roma. Viaggiò con noi don Gnocchi che da Roma avrebbe preso un treno veloce per Milano. Nel pomeriggio portammo a mio padre la torta e i confetti, per lui e per i suoi compagni di cella. Mi avevano preparato un regalo: con la fusione di alcune monete avevano ricavato una medaglia con un simbolo religioso, i nostri nomi e la data. La conservo ancora.
Vi ha sposato don Gnocchi, come lo ricorda?
Lo vidi la prima volta nei pressi di via Marina, a Milano, dove aveva la sua sede, durante una delle nostre solite passeggiate: una figura sottile, ieratica, occhi attenti, luminosi. Fece festa a Eugenio, a me rivolse un veloce sguardo e poi, rivolto a Eugenio disse in dialetto: «Allora, quand’è che ti sposo?». «C’è tempo, c’è tempo» fu la risposta. Era il dicembre del ’48. Io con don Gnocchi ho avuto poco a che fare, lo rividi soltanto alla vigilia delle nozze in Assisi, ma Eugenio mi raccontava spesso di lui e delle sue molte attività a favore di mutilati e mutilatini, a cui tutta la famiglia Corti partecipava.
Cosa pensava del lavoro di Eugenio nei lunghi anni che hanno preceduto l’uscita del Cavallo rosso?
Le racconto solo questo. Quando, dopo aver consegnato all’editore I poveri cristi alla vigilia delle nostre nozze, mi comunicò che sarebbe entrato a lavorare nella ditta di suo padre: «Ma come», dissi io, «con tutta la tua determinazione a scrivere, adesso ti metti a fare l’industriale?». «Non preoccuparti, mi rispose, rientra nel mio programma: non sono pronto per scrivere un nuovo libro, devo raccogliere materiale e, per far questo, devo conoscere la vita della gente, sperimentare la fatica e le responsabilità del lavoro, perché io non scrivo libri di fantasia ma cose concrete. E poi, se voglio mettere su famiglia, devo essere anche i grado di mantenerla. Non durerà molto, vedrai». Passarono otto anni e fu un’esperienza molto dura perché la ditta entrò in una pesantissima crisi. Eugenio combatté accanto a suo padre contro banche, sindacati, ribellioni degli operai e contro gli eccessivi controlli della finanza. Nel frattempo però continuava a leggere: in quel periodo studiò profondamente il comunismo e nel ’62 pubblicò Processo e morte di Stalin.
Eugenio impiegò undici anni a scrivere Il Cavallo rosso, lei cosa ne pensava? Sarebbe riuscito nell’impresa?
Era un pensiero che certe volte quasi mi angosciava. Bisogna avere una grande tenacia e una grande Fede per lavorare per anni, così intensamente, senza conoscere il riscontro del proprio lavoro. Tutti abbiamo bisogno di conferme della validità di ciò che produciamo. Eugenio aveva la sua conferma solo in sé stesso ed è sempre stato sicuro dell’utilità e bellezza di quanto andava scrivendo. Io avevo il mio lavoro, che è sempre stato importantissimo per me. Non avendo figli e con un marito così preso dalla propria scrittura, se non avessi avuto uno sbocco esterno, avrei certamente avuto una vita psicologicamente difficile. Pur essendo sempre presenti l’uno all’altro, vivevamo in completa autonomia in un quotidiano che io consideravo normale. La mia vita è sempre stata molto indipendente, avevo i miei genitori a Roma: andavo spesso a trovarli. Andavo anche al mare ed Eugenio era contento quando mi prendevo queste vacanze perché capiva che la mia vita non era delle più facili.
Qualche volta lui esprimeva il timore di affrontare una fatica vana?
Mai. Ha sempre avuto fiducia nel suo lavoro, anche se ha fatto fatica a farlo conoscere, persino dopo l’uscita del Cavallo rosso che non ha ricevuto pieno consenso sulla carta stampata. Cesare Cavalieri potrà ricordarlo. Ci sono stati momenti duri, ma Eugenio non ha mai perso la fiducia.
Le raccontava che cosa stava scrivendo?
In genere no. Qualche volta mi diceva, forse scherzando: «Vedrai che poema sto scrivendo per te!». Ogni tanto andavo a leggiucchiare qualcosa, ma poi ho capito che non mi conveniva farlo perché l’impressione che ne ricavavo non era del tutto favorevole. Infatti la prima stesura è diversissima da quella definitiva.
Quali furono le sue prime impressioni quando completò la lettura del Cavallo rosso?
Come tutti i lettori, mi appassionai alla lettura, leggevo e andavo avanti senza interruzione. Cercavo anche me stessa nel libro e mi ritrovavo in tante sfumature, in tanti episodi. La cosa che mi colpì molto e mi colpisce ancora è la capacità di Eugenio di riportare una realtà concreta, che a me era apparsa quasi banale, in un contesto estremamente significativo valido per chiunque lo avesse letto. In sostanza era l’«universale nel particolare», che era sempre stato l’oggetto della sua ricerca, la sua ossessione, di cui aveva cominciato a parlarmi fm dall’inizio della nostra relazione. Vorrei rileggere ora i suoi libri per ritrovare ancora la nostra vita, ora che la vita è fatta soprattutto di ricordi.
Com’era la giornata tipo dello scrittore?
Prima di mettersi a scrivere, amava passeggiare in giardino osservando gli animali e curando le piante con il giardiniere: le spostava, ne metteva di nuove, gli piaceva farle nascere dai semi. Gli oleandri bellissimi che oggi abbiamo in giardino vengono da semi raccolti dalle nostre piante in Umbria. È sempre stata la sua grande vacanza, il giardino. Abbiamo certo fatto anche molti viaggi insieme: io amavo il mare, mentre a lui non piaceva. Raggiungemmo un accordo: sceglievamo quei mari che offrissero possibilità culturali come la Grecia, i territori dell’antica Magna Grecia o l’Asia Minore. Passeggiava in giardino e poi scriveva dalle 10 alle 13. Dopo un breve riposo e ancora una passeggiata, altre tre ore di lavoro fino a sera. Ha sempre preferito scrivere a matita perché poteva cancellare e perfezionare la prima versione. Usava la macchina per scrivere solo per l’ultima stesura. Le 1.200 pagine del Cavallo rosso le ha battute a macchina tutte lui. In seguito, per tutti gli altri libri, fece ricorso al computer, ma la prima stesura fu sempre a matita. Ho tutto il materiale scritto a mano, che un giorno avrà valore storico e culturale. Presto sarà affidato alla Biblioteca Ambrosiana.
Quali erano i suoi piatti preferiti?
Gli piaceva mangiare bene. Io avevo portato qui in Brianza la cucina umbra, che a lui sembrava straordinaria, in particolare le pastasciutte e le carni cotte allo spiedo. Gli piacevano i dolci e il gelato. Era un buongustaio e di buon appetito.
Che cosa ha pensato quando Il Cavallo rosso è diventato un best seller?
Siccome la nostra vita era molto normale, ci fu da parte mia una certa meraviglia, mi dicevo: «Allora è vero! E vero che questo è un gran bel libro». Per me diventò normale anche l’afflusso di lettere, ma ero felice per lui e mi sembrava giusto che tanta fatica fosse ricompensata dai lettori. Ancora oggi ne arrivano e mi commuovono soprattutto le lettere dei giovani.
Sempre in prospettiva della Fede
Qual era il carattere di Eugenio?
Non era un uomo facile, solo in questi ultimi anni era diventato abbastanza arrendevole. Viveva molto assorbito dal suo lavoro e lasciava completamente a me la gestione della casa. Interveniva però, e con grande attenzione, quando chiedevo il suo consiglio e il suo aiuto, anche nelle cose pratiche che, con grande mia meraviglia, sapeva sistemare benissimo.
I momenti più belli e quelli più difficili insieme?
Ci sono stati dei momenti molto belli, per esempio quando a Roma ci fu la rappresentazione della tragedia Processo e morte di Stalin, momenti, almeno per me, molto esaltanti. Mi sentivo protagonista di un avvenimento culturale importante. In seguito, anche durante gli incontri, con l’entusiasmo di tanti giovani, ai Meeting di Rimini. Giorni belli furono quelli dei nostri tanti viaggi: partivamo sempre senza un programma preciso, con pochi bagagli, vivendoli come un’avventura. Eugenio sapeva sempre trovare gli aspetti più interessanti e curiosi. Ci sono stati anche momenti difficili e dolorosi, come per tutti: qualche malattia grave, come l’infarto nel ’98, la perdita dei nostri cari e nel 2000 la sua operazione di bypass, che ci tenne per alcuni mesi in grande preoccupazione.
Qual è per lei l’eredità più grande della scrittura e della vita di Eugenio?
Vivere nella Fede. La Fede è stata sempre il suo riferimento. Ogni situazione che doveva analizzare o giudicare, ogni decisione che doveva prendere era in una prospettiva di Fede. Ha sempre indovinato nei suoi giudizi e nelle sue scelte. Il motivo è che lui agiva seguendo la sua direttrice principale, ovvero esaminare le cose in modo religioso. Quando morì Stalin ci furono versioni molto diverse. Per Eugenio era chiaro che fosse stato ucciso, scrisse così nella tragedia; la conferma venne poi dai resoconti storici. Non pregava tantissimo, non andava in Chiesa tutti i giorni, ma recitava sempre con devozione e convinzione le preghiere del mattino e della sera.
(Alessandro Rivali, luglio/agosto 2014, Studi Cattolici)