Addio a Eugenio Corti, reduce della Russia e testimone cristiano
Fede e memoria. Aveva 93 anni l’autore del romanzo storico, in parte autobiografico, «Il cavallo rosso» (Ares), un caso letterario trascurato
Martedì sera, nella sua casa di Besana Brianza, all’età di 93 anni, è morto Eugenio Corti. Una vita da testimone, la sua, sia in opere narrative che di memoria e in saggi, sino a questi ultimi giorni che lo vedevano impegnato nella revisione del saggio Il fumo nel tempio, nel quale veniva riordinando taluni fatti emblematici accaduti dal 1970 a oggi.
Titoli che hanno conosciuto nel tempo varie riproposte, discussioni e anche polemiche, per la linearità del suo sguardo, su argomenti che i titoli stessi sottolineano: da I più non ritornano, bestseller del 1947 nel quale riviveva la sua esperienza nella campagna di Russia, a I poveri cristi del 1951 (diventato nella ristampa del 1994 Gli ultimi soldati del re), alla tragedia del 1962 Processo e morte di Stalin, nel quale denuncia i crimini comunisti sia verso i nemici ideologici, ma soprattutto verso lo stesso popolo russo e gli espatriati comunisti.
Ma, al di là di altri titoli ancora (La terra dell’indio del 1988, L’isola del paradiso del 2000, Catone l’antico del 2005 e Il Medioevo e altri racconti del 2008) che lo hanno visto insignito nell’aprile scorso dal presidente Giorgio Napolitano della medaglia d’oro per la cultura e l’arte, il suo nome resta legato soprattutto alla trilogia Il cavallo rosso, autentico caso letterario che silenziosamente, anche perché spesso ideologicamente emarginato, ha conosciuto più di 28 edizioni, con numerose traduzioni. Un corposo romanzo storico che impegna l’autore per tredici anni (1970-1983) e copre 34 anni della storia italiana: dal maggio 1940, alla vigilia dell’entrata in guerra, al maggio 1974 del referendum abrogativo del divorzio. Trentaquattro anni che si dispiegano narrativamente in tre volumi, cadenzato ciascuno da un titolo richiamante un’immagine dell’Apocalisse: Il cavallo rosso, con al centro la campagna di Russia (1940- 1943); Il cavallo livido, tra gulag staliniani, lotta antinazista e partigiana (febbraio 1943-aprile 1945); L’albero della vita, il dopoguerra della rinascita. Una costellazione spazio-temporale che ha un ben saldo epicentro in Nomana (Besana) Brianza, e nella numerosa famiglia Riva; in particolare in Ambrogio, il cugino Manno e l’amico Michele, che non solo introducono il lettore nell’universo umano dei sentimenti familiari, amicali e amorosi.
Personaggi di fantasia d’un universo brianzolo insieme amato e rimpianto nel suo disintegrarsi rispetto ai valori tradizionali, che incrociano nelle loro vite personaggi reali (don Gnocchi, padre Gemelli, Mario Apollonio) in un romanzo poliedrico: per stile e struttura, mutamenti di ritmo e registro narrativo, alternanza di luoghi e situazioni con passaggio dalla focalizzazione sul singolo personaggio al campo largo su un’intera situazione, mutamenti prospettici (una medesima situazione vista con occhi amici e nemici).
Un romanzo di affetti e azioni, idee e passioni, al tempo stesso storico, epico, tragico, ideologico, polemico, antropologico — con quanto comporta anche di tenuta, con maggior tensione nelle prime parti nel quale scorre anche il lato autobiografico. Un romanzo di sentimenti forti e profondi (affetti, famiglia, religione, fede, amicizia), dettati dal suo voler essere romanzo di testimonialità cristiana. E romanzo d’accusa contro lo spirito di compromesso che fa abbassare la guardia al cristiano, rendendosi inconsciamente disponibile al suo fagocitamento da parte di quel Male che ha sì il barbaro volto storico del nazismo e del comunismo, ma anche quello intellettualmente ambiguo del laicismo, primo passo verso la scristianizzazione della società.
(Ermanno Paccagnini, 06/02/14, Il Corriere della Sera)